Il 2020 non è stato un annus horribilis soltanto per la pandemia di Covid-19, ma ha anche visto il crollo dei prezzi petroliferi che ha indebolito gravemente tutti quei Paesi che dipendono principalmente dalle esportazioni dell’oro nero. Si sono però aperti anche notevoli spazi di manovra per Russia e Turchia che, a causa del disimpegno americano e l’insipienza dell’Europa, mirano a consolidare la loro alleanza in Medio Oriente per escludere le potenze occidentali. L’ultimo saggio dell’eminente arabista e politologo Gilles Kepel analizza lo scontro attualmente in atto e illustra i gravissimi rischi che l’Europa corre se non elabora una strategia comune.
Secondo lo studioso francese, all’interno del mondo musulmano si è ormai consolidato un fronte che vede contrapporsi un’alleanza tra i difensori dell’islam politico, rappresentati dai Fratelli musulmani, sostenuti dall’asse Turchia-Qatar e Iran, contrapposti ai Paesi che hanno aderito agli “Accordi di Abramo” promossi dall’amministrazione Trump e cioè Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrein (a cui si sono poi aggiunti altri Paesi arabi), insieme all’Arabia Saudita, che non ha firmato fisicamente la dichiarazione ma senza il cui tacito assenso il processo non sarebbe mai partito. Come si vede, leggere il sanguinoso conflitto che lacera da decenni la comunità dei seguaci di Maometto soltanto in termini di scontro tra maggioranza sunnita e minoranza sciita è totalmente fuorviante, visto che l’Iran sciita è solidamente alleato con la Turchia, potenza non solo sunnita ma che ha dato segnali inequivocabili della propria intenzione di ricreare l’istituzione del Califfato, abolito nel marzo del 1924, dopo la sconfitta ottomana nella Grande guerra.
Il nuovo Maometto II
Negli ultimi anni, è diventato abbastanza comune definire il presidente turco Erdogan come “sultano” o “califfo” in quella che sembra una coloritura giornalistica che ha lo scopo di ravvivare il pezzo e di stimolare l’interesse del lettore. Kepel, ed è forse il merito principale del suo saggio, delinea in modo fattuale la strategia, reale e operativa, che il presidente turco sta seguendo per rifondare il califfato e reimporre il dominio turco sul mondo musulmano, come è stato fino alla Prima guerra mondiale. Il 24 luglio 2020 Erdogan inaugura solennemente la preghiera del venerdì nell’antica basilica bizantina di Santa Sofia, restituita al culto musulmano, fiancheggiato da un imam che impugna la yatagan, la tipica spada ricurva turca simbolo dell’espansionismo ottomano. Questa è una dimostrazione di forza emblematica per “affermare l’egemonia dell’islamismo turco sul sunnismo, che include circa l’85% del miliardo e mezzo di musulmani di tutto il pianeta. L’ambizione del presidente è restituire Istanbul al ruolo di capitale mondiale della Comunità dei credenti, la cosiddetta Umma”.
La spada ottomana è una minaccia diretta all’Arabia Saudita, custode dei luoghi sacri islamici e che da questo ruolo trae l’autorità per la sua predominanza nel mondo sunnita. Ma la yatagan, sventolata durante il discorso di Erdogan, è anche un riferimento alla stessa spada, brandita il 29 maggio 1453, dal sultano Maometto II durante la conquista di Costantinopoli. Il messaggio esplicito è “ciò che è stato soggiogato dalla scimitarra del jihad non verrà mai restituito, a meno che a conquistarlo non sia una sciabola nemica”. Che queste non siano soltanto parole vuote è dimostrato dagli interventi militari in Siria, in Libia, il ruolo fondamentale giocato dai consiglieri e dai droni turchi nella sconfitta dell’Armenia, un Paese cristiano, in Nagorno-Karabakh, dalle incursioni nelle acque greche e cipriote da parte di una nave per le esplorazioni del gas sottomarino che porta il nome del corsaro Barbarossa.
Ma oltre a uno sfrontato attivismo militare, il “califfo” in pectore Erdogan può contare su una quinta colonna di moschee e attivisti che agiscono in tutta Europa, soprattutto in Germania e Francia. La numerosa e attiva comunità turca in Germania, molto sensibile alle lusinghe e alle richieste della patria di origine, spiega perfettamente l’enorme cautela con la quale Angela Merkel affronta la questione turca e perché abbia sempre posto il veto alle proposte di sanzioni contro Ankara fatte da vari Paesi della UE. Non dobbiamo poi dimenticare che in diverse occasioni Erdogan ha minacciato di aprire il rubinetto dell’emigrazione siriana e mediorientale e di riempire l’Europa di richiedenti asilo. Ma è la Francia, il Paese europeo che ha la più numerosa comunità musulmana, a trovarsi in prima linea. Per tale ragione, Parigi si è scontrata ripetutamente con Ankara, anche perché il presidente Macron, a differenza di quanto fatto dall’Italia negli anni passati, non ha accettato di rimanere in silenzio di fronte alle provocazioni turche.
La difesa dello Stato laico e di diritto
Kemal Atatürk, padre della Turchia moderna, le cui fondamenta sono state rovesciate da Erdogan, ebbe proprio la Francia come modello nella costruzione di uno stato laico, attraverso una secolarizzazione autoritaria che portasse alla rottura con il tradizionalismo superstizioso. Atatürk impose “l’adozione dell’alfabeto latino e la sostituzione con un vocabolario ricalcato foneticamente dal francese, al tempo la lingua universale della modernità, dei concetti arabi islamici che strutturavano il pensiero turco: ‘laïque’ diventava laïk, ‘autobus’ otobüs e ‘lycée’ lise”. In retrospettiva, è proprio questo collegamento, che Ankara preferirebbe oscurare, che può spiegare gli anatemi lanciati da Erdogan contro il suo omologo francese. Il 3 settembre 2020, in coincidenza con l’apertura del processo per l’attacco terroristico contro Charlie Hebdo, il settimanale satirico ripubblica le vignette incriminate, sollevando ancora una volta le proteste e le minacce dell’estremismo islamico. Il 2 ottobre Macron tiene un discorso dove elabora una strategia politica e giuridica per affrontare il problema del terrorismo e attacca il “separatismo islamista”, la tendenza cioè a creare comunità musulmane autoreferenziali che non accettano né rispettano i princìpi democratici dello Stato di diritto, costruendo all’interno del territorio francese entità separate e ostili.
Questo discorso, come pure quello tenuto il 21 ottobre nel cortile della Sorbona come omaggio a Samuel Paty, l’insegnante di storia decapitato da un fanatico ceceno perché aveva osato mostrare una delle vignette su Maometto, aveva scatenato attacchi furiosi da parte del presidente turco e dell’islam politico. Ma questa virulenza era stata anche favorita dal fatto che il termine “islamista” non esiste né in turco né in arabo, così che “l’espressione utilizzata dal presidente francese è stata tradotta nel mondo musulmano in ‘terroristi islamici’ e facilmente trasformata in un’aggressione contro l’insieme dei seguaci del Profeta da coloro che vi trovano un tornaconto politico”. Il saggio descrive approfonditamente che oltre a manipolare strumentalmente il linguaggio, l’estremismo islamista si è mostrato molto abile nello sfruttare i social media e tutte le risorse offerte dalla società liberale che lo ospita.
L’atmosfera di odio che ha portato all’atroce uccisione di Samuel Paty era stata preparata da Brahim Chnina, un islamista fanatico di origine algerina e padre di una delle alunne del professore, che dal 7 ottobre, il giorno successivo alla lezione in cui era stata mostrata in classe la vignetta di Charlie Hebdo, aveva iniziato una campagna sui social media immediatamente ripresa da numerosi attivisti. Nel suo primo video pubblicato su Facebook Chnina invita gli utenti a mobilitarsi affinché “questo delinquente non rimanga nel sistema educativo nazionale”. Il video viene publicato sulla pagina della moschea di Pantin, che ha 100.000 iscritti e dal suo presidente, M’hammed Henniche, il che gli assicura un’ampia diffusione, diventando infine virale. Henniche ha fondato nel 2001 l’Unione delle associazioni musulmane del ’93, che funziona come una lobby elettorale. “In cambio dei voti musulmani che si vanta di controllare o di influenzare, Henniche riceve aperture su varie cause islamiche a livello nazionale e internazionale, concessioni edilizie per la costruzione di moschee, sussidi a particolari associazioni ‘culturali’ o caritative, apertura di scuole islamiche al di fuori del controllo del ministero dell’Istruzione”.
Il saggio analizza inoltre il ruolo del Collettivo contro l’islamofobia in Francia (Ccif). Fondato nel 2003, a imitazione dei vari movimenti contro l’antisemitismo, ha come scopo quello di unire i musulmani in una comunità che è fatta oggetto di discriminazioni. Ma secondo Krepel, uno dei massimi esperti dell’islamismo europeo, “l’uso del termine ‘islamofobia’ – creato ad hoc nel Regno Unito nel 1996 in seguito all’affaire Rushdie – ha come obiettivo la messa sotto accusa e la proibizione di ogni critica contro il dogma islamico in generale, e in particolare l’interpretazione che ne fanno i Fratelli musulmani, i salafiti e persino i jihadisti”. In pratica, il Ccif porta avanti una smaccata politica di vittimizzazione per invertire l’onere della prova contro la società francese, in occasione dei delitti o degli attentati jihadisti. Dopo l’attentato islamista di Nizza del 14 luglio 2016, in cui vennero uccise 84 persone, “è stata avviata un’intensa campagna per denunciare la ‘discriminazione’ nei confronti delle donne musulmane che indossavano il burkini sulle spiagge della Costa Azzurra, nelle vicinanze del luogo dove era stata commessa la strage qualche settimana prima, con il solo scopo di oscurare quest’ultima”.
Le scelte da compiere
L’avanzata inarrestabile dell’islam e la sottomissione dell’Europa è uno scenario che si può evitare, anche perché da quando l’autore ha terminato il suo saggio a oggi, sono cambiate diverse cose. In primis, la rovinosa caduta di Trump, la cui politica incompetente è stata una vera manna per il “califfo” che deve oggi affrontare una crisi economica sempre più preoccupante e in grado di tarpare le ali ai suoi sogni ottomani. A questo va aggiunto il fatto che Mario Draghi, il nuovo Primo ministro italiano, ha dichiarato esplicitamente che intende confrontare la Turchia, senza lasciarsi intimidire. La vera risposta sarebbe l’elaborazione di una strategia USA per il Mediterraneo e una politica unitaria della UE che potrebbe rispolverare la minaccia, velatamente sollevata nel novembre del 2020, della rottura dell’unione doganale tra l’Unione Europea e la Turchia, cosa che Erdogan non può assolutamente permettersi, visto che Ankara commercia principalmente con l’Europa.
Togliendosi forse qualche sassolino dalla scarpa, Kepel lancia poi un forte appello affinché vengano rilanciati gli studi islamici, in polemica con l’affermazione del politologo francese Olivier Roy, secondo il quale “è inutile conoscere l’arabo per capire cosa succede nelle periferie”. La grave decadenza degli studi di arabistica che, ovviamente, non colpisce soltanto la Francia, ha favorito le difficoltà di comunicazione con il mondo islamico, lasciando le scelte nelle mani di alti burocrati o di baroni universitari non all’altezza del compito. Se l’Eliseo avesse avuto un consulente di alto livello, in grado di tradurre adeguatamente in arabo il pensiero del presidente Macron, gli estremisti islamici si sarebbero trovati in mano una scimitarra spuntata.
Gilles Kepel
Il ritorno del profeta
Perché il destino dell’Occidente
si decide in Medio Oriente
Feltrinelli, pp 267, 19 euro
di Galliano Maria Speri
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