Galliano Maria Speri

Il 12 maggio l’Arabia Saudita ha denunciato che due sue petroliere erano state “sabotate” nel Golfo di Oman, insieme a una petroliera norvegese e a una nave degli Emirati Arabi Uniti. La dinamica dell’incidente non è mai stata chiarita, ma i sauditi si sono affrettati ad accusare l’Iran dell’incidente e chiedere “interventi militari chirurgici” contro il regime degli ayatollah. Questo ha consentito all’amministrazione Trump di rilanciare un’aggressiva politica di cambio di regime in Iran, ma con il rischio di incendiare l’area da cui transita un terzo del petrolio mondiale e innescare una nuova crisi energetica.

 Chi controlla la politica estera americana?

Il controverso incidente del Golfo di Oman, al largo del porto emiratino di Fujairah, non è che l’ultimo sviluppo di una strategia che gli Stati Uniti hanno iniziato molto tempo fa. Fatemeh Aman, dirigente della sezione dell’Asia meridionale del Consiglio Atlantico, ha dichiarato alla rete televisiva Al Jazeera che “l’attacco alle navi era prevedibile e sembra che sia stato orchestrato come un pretesto per aggredire l’Iran”. La guida suprema iraniana, Ali Khamenei, ha subito gettato acqua sul fuoco: “Non ci sarà nessuna guerra. La nazione iraniana ha scelto il cammino della resistenza”. Lo stesso presidente Trump si è visto costretto a precisare che non desidera che l’intensificazione della campagna di pressione sull’Iran esploda in un conflitto aperto. Ma dal maggio del 2018, quando gli Stati Uniti si sono ritirati unilateralmente dal trattato con cui l’Iran si impegnava a non sviluppare l’arma nucleare, è stato un crescendo di azioni aggressive che potrebbero sfuggire di mano.

John Bolton, attuale consigliere per la Sicurezza nazionale di Trump, è stato Ambasciatore USA all’ONU e uno dei teorici dell’invasione dell’Iraq che continua a difendere nonostante le conseguenze disastrose dell’operazione.

Il vero problema è che la politica verso l’Iran viene gestita direttamente da John Bolton, l’attuale consigliere di Trump per la Sicurezza nazionale, che da anni ha il chiodo fisso di rovesciare il regime di Tehran, come già suggerito all’amministrazione di George W. Bush, che aveva valutato l’operazione eccessivamente rischiosa.  Il 9 maggio scorso il ministro della Difesa pro tempore Patrick Shanahan ha presentato un piano militare aggiornato che prevede l’invio di 120.000 soldati nel Golfo in caso di attacco iraniano alle strutture militari statunitensi. La riunione, a cui hanno partecipato i principali consiglieri del presidente americano, incluso il generale Joseph F. Dunford, capo di Stato maggiore della difesa, si è tenuta su richiesta di John Bolton, che insieme al segretario di Stato Mike Pompeo guida il drappello dei falchi anti Iran. Quando la notizia è apparsa sulla stampa, Trump l’ha smentita ma ha ammesso candidamente che, se fosse necessario, manderebbe anche più di 120.000 soldati USA nel Golfo, confermando implicitamente l’esistenza di un livello militare nell’offensiva contro Tehran. Il dato ha allarmato gli esperti perché un corpo di spedizione così numeroso è simile a quello che fu messo in campo per l’invasione dell’Iraq.

La santa alleanza Bolton, Sauditi e Israele

Il 28 agosto 2017 John Bolton, che non aveva cariche pubbliche in quel periodo, ha pubblicato sul quindicinale conservatore National Review un articolato saggio in cui specificava le varie tappe che l’amministrazione avrebbe dovuto seguire per un cambio di regime in Iran, partendo dalla revoca unilaterale dell’accordo sul nucleare per culminare in una strategia di sanzioni economiche a cui si aggiungevano anche misure per fomentare rivolte interne. Bolton definiva l’Iran come una minaccia strategica per gli Stati Uniti e i suoi alleati ed etichettava il Paese come “principale sostenitore del terrorismo internazionale”. Sia detto per inciso, questa è la definizione coniata dal governo israeliano e subito accettata dalla casa regnante saudita che in Yemen si scontra militarmente contro ribelli sciiti sostenuti dall’Iran. Dopo aver sostenuto la necessità di dotare Israele dei caccia F-35, Bolton elencava le seguenti azioni da compiere:

Porre fine a tutti i diritti di atterraggio e sbarco nei porti alleati della marina e dell’aviazione iraniane; bloccare tutti i visti, inclusi quelli per motivi di studi, per studenti, sportivi o altre forme di scambi; richiedere risarcimenti per tutti i processi in corso negli USA contro l’Iran per terrorismo, incluso l’attentato dell’11 settembre; annunciare l’appoggio USA all’opposizione democratica iraniana; approntare velocemente le bombe “bunker-buster” (bombe di enorme potenza per distruggere i rifugi sotterranei); annunciare il sostegno americano alle aspirazioni nazionali curde, inclusi i curdi in Iran, Siria e Iraq; fornire assistenza alle minoranze etniche interne nelle associazioni sindacali, studentesche e femminili”. Come si vede il piano non mira a mettere l’Iran sotto pressione per ottenere condizioni migliori in un altro accordo eventuale, ma a rovesciare il regime degli ayatollah, senza prendere in considerazione le implicazioni di una mossa tanto azzardata per l’intero Medio Oriente. Finora, l’amministrazione Trump ha messo in pratica molti dei punti suggeriti da Bolton, diventato consigliere per la Sicurezza nazionale il 9 aprile 2018.

19 luglio 2018, il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in visita in Ungheria incontra il Primo ministro sovranista Orban. Dopo l’assassinio del giornalista saudita Kashoggi, Netanyahu ha difeso pubblicamente il principale responsabile Mohammed bin Salman dichiarando: “Per la stabilità della regione e del mondo, è molto importante che l’Arabia Saudita rimanga stabile”.

Non possiamo dimenticare però che l’aggressiva politica richiesta dal consigliere per la Sicurezza nazionale non fa altro che recepire le richieste formulate da Israele e Arabia Saudita, i veri capofila della demonizzazione internazionale dell’Iran, che vedono in Tehran una minaccia mortale alla loro stessa esistenza. Sulla questione palestinese, l’amministrazione Trump non ha fatto scelte autonome ma ha semplicemente seguito la linea dettata dagli israeliani, riconoscendo Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico e spostando lì la propria ambasciata, in violazione di svariate risoluzioni ONU che prevedevano Gerusalemme Est come capitale di un ipotetico Stato palestinese, oggi sempre più irrealistico. L’Arabia Saudita, il primo Paese visitato dal neo eletto Donald Trump, ha un’enorme influenza sull’attuale amministrazione americana perché è il principale acquirente di armamenti americani e finanzia molto generosamente le iniziative della truffaldina campagna internazionale “contro il terrorismo”.  Non sappiamo se il presidente USA abbia beneficiato anche personalmente del fiume di denaro saudita, ma possiamo ricordare il candidato Trump, allora imprenditore immobiliare, che diceva di amare gli arabi perché “comprano le mie case con milioni di dollari”.

Il 16 maggio scorso, Arab News, il quotidiano saudita che rappresenta la voce ufficiale della casa regnante dei Saud, ha pubblicato un editoriale infuocato dove ricorda che già nel 2008, riferendosi all’Iran, l’allora re Abdullah bin Aziz aveva chiesto agli USA di “tagliare la testa del serpente” e continua affermando “quasi un decennio dopo, il principe ereditario Mohammed bin Salman si è riferito all’ayatollah Alì Khamenei come al ‘nuovo Hitler del Medio Oriente’. Siamo nel 2019 e l’Iran continua a devastare la regione, sia direttamente che tramite suoi armatissimi affiliati. Il principe Mohammed aveva perciò ragione quando sosteneva che una politica di pacificazione non funziona con il regime iraniano, proprio come non ha funzionato con Hitler. Il passo logico seguente –secondo l’opinione di questo giornale- dovrebbero essere degli attacchi chirurgici”. Il testo conclude affermando: “Lanciamo un appello per una reazione punitiva e decisiva a quanto accaduto (si riferisce all’incidente nel Golfo di Oman) in modo tale che l’Iran sappia che ogni singola mossa che farà avrà delle conseguenze”. Per chi ha problemi di memoria è il caso di ricordare che Mohammed bin Salman, cosi impegnato nella sacra missione di combattere il nuovo Hitler, è la stessa persona al vertice di quella struttura che ha  ordinato ed eseguito  il brutale assassinio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi all’interno del consolato saudita di Istanbul.

Iran potenza regionale

Non dobbiamo stupirci se di fronte a una campagna così aggressiva i militari iraniani iniziano a prendere contromisure. Il 16 maggio l’autorevole quotidiano britannico Guardian ha riferito che Qassem Suleimani, uno dei più autorevoli generali iraniani e comandante delle unità d’elite delle Guardie della rivoluzione islamica, ha incontrato segretamente a fine aprile le milizie irachene controllate da Tehran invitandole a prepararsi a uno scontro per procura. Sono queste informazioni che hanno messo in allarme gli Stati Uniti che hanno ritirato tutto il personale diplomatico non essenziale dall’Iraq. A differenza dell’Arabia Saudita, creata a tavolino dal colonialismo britannico alleato all’oscurantista dinastia dei Saud, l’Iran, l’antica Persia, è una nazione con una storia e una cultura millenaria che, comunque la si voglia giudicare, persegue legittimamente i propri interessi nazionali.

Il 6 giugno 1982 Israele lanciò l’operazione “Pace in Galilea” invadendo il Libano meridionale. Quella disastrosa operazione militare non solo non ottenne gli effetti pacificatori desiderati ma favorì la nascita e il radicamento delle forze filo iraniane degli Hezbollah.

Il Paese è dal 1979 una repubblica islamica e, da allora, ha retto alla guerra scatenata dall’Iraq di Saddam Hussein (con l’appoggio francese e americano) e a tutti i tentativi di rovesciare il regime, avendo dei presidenti fanatici ed estremisti come Mahmud Ahmadinejad o più moderati come Mohammad Khatami e Hassan Rouhani. Alla fine del secolo scorso, l’Iran era uno Stato popoloso e importante dell’area, ma senza grandi proiezioni internazionali. Grazie alle campagne militari israeliane e le rovinose guerre a guida statunitense contro l’Iraq, l’Iran è stato trasformato in una potenza regionale. Gli ayatollah hanno visto aumentare enormemente la propria influenza in Libano, grazie ai profondi legami con il movimento sciita degli Hezbollah, nato per opporsi all’infausta invasione israeliana del 1982, il cui risultato duraturo è stato il radicamento in Libano degli estremisti sciiti. Le fallimentari guerre guidate dagli Stati Uniti contro il dittatore iracheno Saddam Hussein hanno regalato all’Iran un ruolo di primo piano in Iraq (che è a maggioranza sciita) e in Siria dove, in alleanza con i russi e l’esercito del massacratore Assad, ha condotto una vittoriosa campagna militare contro le milizie islamiste dell’Isis (organizzazione sunnita e teologicamente affine al wahabismo che domina l’Arabia Saudita).

Un altro terreno di scontro è lo Yemen, dilaniato da una guerra civile che vede contrapposte le milizie sciite Hotuhi sostenute dall’Iran e le forze governative, appoggiate dall’Arabia Saudita che, nonostante enormi investimenti militari, non è riuscita a ottenere nessun successo sostanziale sul campo. L’offensiva bellica saudita è stata appoggiata direttamente dagli USA con armi e informazioni privilegiate, ma ha portato solo al rafforzamento dello Stato islamico in Yemen e al deterioramento dell’immagine internazionale degli USA a causa dei massacri dei civili compiuti dall’aviazione saudita, senza però riuscire a ridurre l’influenza iraniana. Anche la durissima campagna iniziata da sauditi ed Emirati Arabi Uniti contro il Qatar ha portato al rafforzamento dell’influenza iraniana nel piccolo emirato. E non dobbiamo dimenticare che l’inumana politica di Israele verso i palestinesi della striscia di Gaza ha favorito gli iraniani, che hanno visto aumentare il peso della Jihad islamica palestinese, un gruppo filoiraniano, responsabile dei recenti lanci di missili contro lo Stato ebraico. Oggi Arabia Saudita, Israele e i falchi americani denunciano il pericolo rappresentato da Tehran, ma non dicono nulla sulle responsabilità che hanno portato la situazione allo stato attuale.

Un ospedale yemenita bombardato dall’aviazione saudita. La guerra civile in Yemen, che vede confrontarsi sauditi e iraniani, ha causato finora circa 50.000 vittime a cui si devono aggiungere, secondo Save the Children, 84.701 bambini morti di fame e di stenti.

In realtà, l’accordo sul nucleare con l’Iran voluto dal presidente Obama rappresenta un buon compromesso che ha congelato, per ora, il programma per la realizzazione di una bomba atomica iraniana e ha favorito la posizione dei moderati all’interno della repubblica islamica. Oggi, dopo la rottura voluta dagli USA, che accampano inesistenti e non provate violazioni dell’accordo da parte iraniana, la guida suprema Alì Khamenei ha annunciato una moderata ripresa dell’arricchimento dell’uranio, come messaggio verso gli europei, cofirmatari insieme ai russi, affinché agiscano per ridimensionare la strategia avventuristica dell’amministrazione Trump.

America first?

Finora, l’amministrazione Trump ha condotto una politica che non rispecchia gli interessi strategici americani, ma soltanto le mire a breve termine di personaggi come il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. Gli Hezbollah possiedono circa 130.000 missili a lunga gittata, in grado di colpire sia Israele che l’Arabia Saudita, la cui vulnerabilità è stata ulteriormente messa in evidenza dagli attacchi di droni partiti dai territori controllati dagli Houthi contro le istallazioni petrolifere saudite. Né Israele e nemmeno i sauditi vogliono un devastante scontro diretto con l’Iran e, per tale ragione, stanno facendo enormi pressioni sugli Stati Uniti affinché questi facciano il lavoro sporco per conto loro. Trump ha inviato nel Golfo una potente flotta navale che include una portaerei, una squadra di bombardieri strategici B-52, batterie di missili Patriot e, il 24 maggio, ha annunciato di voler rafforzare le truppe già presenti con altri 1.500 militari.

Sono tutte mosse che rappresentano una minaccia diretta all’Iran che potrebbe essere spinto a riprendere i tentativi per la realizzazione di un proprio ordigno nucleare, memore del tragico destino del libico Muhammad Gheddafi che rinunciò alla bomba nucleare come segno di buona volontà verso Usa ed Europa per vedersi poi rovesciare in modo brutale proprio da coloro che gli avevano offerto un’alleanza. L’America, per cui Tehran non rappresenta una minaccia strategica, si avvantaggerebbe dalla diminuzione delle tensioni e dovrebbe mirare a riaprire i colloqui con la repubblica islamica, sia per bloccare qualunque piano nucleare militare, che per cercare di aprire l’economia iraniana e favorire lo sviluppo di una società civile che prenda lentamente le distanze dal fanatismo degli ayatollah. L’interesse degli Stati Uniti non coincide con quelli di Netanyahu e di Mohammed bin Salman e per tale ragione è fondamentale porre fine a questo crescendo di iniziative militari che potrebbero portare velocemente a un punto di non ritorno. Ricordiamo che l’offensiva militare contro Saddam Hussein (finanziata anche con lauti fondi sauditi) scattò dopo la denuncia statunitense all’ONU del pericolo di terribili “armi di distruzione di massa” che invece non esistevano. Cosa potrebbe avvenire al prossimo “sabotaggio” in un’area critica del mondo?

 

 

 

 

 

 

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