Stefano Mavilio

Un argomento di cronaca, come sempre, fa da spunto alle mie riflessioni (fuor di polemica). In dettaglio, trattasi di un articolo dell’architetto David Fisher (“Un’architettura che rimetta l’uomo al centro”, da Corriere Fiorentino, 30 aprile 2020) nel quale il collega tratta dell’architettura e del suo futuro, in relazione al coronavirus, non senza qualche contraddizione. In buona sintesi, il collega propone una specie di “catalogo alla maniera di Corbù” (ricordate? I 5 punti le 7 vie, il Modulor, sorta di prontuari per chi ne avesse bisogno): utili – il collega Mario Botta usa il Modulor, come lo usa il sottoscritto – ma certamente non definitivi.

Ecco in sintesi la “scaletta” proposta da Fisher: che le architetture

– siano funzionali

– offrano soluzioni ai nostri fabbisogni

– siano economicamente sostenibili

– amichevoli con l’ambiente

e infine, che siano basate su principi di varie scienze: dalla sociologia, alla tecnologia, all’ecologia.

Soltanto allora, “sarà possibile pensare anche alla bellezza dei palazzi”.

Provo a chiosare in sintesi. Relativamente al funzionale, risponderò con parole altrui: “L’architettura è un fatto d’arte, un fenomeno che suscita emozione, al di fuori dei problemi di costruzione, al di là di essi. La Costruzione è per tener su: l’Architettura è per commuovere.” (Le Corbusier).

Relativamente ai fabbisogni, il discorso sarebbe complesso, giacché ne esistono di diversi, dal munirsi di un riparo, al bisogno di bellezza, che invece pare sia parecchio in fondo alla lista.

Che siano economicamente sostenibili e amichevoli con l’ambiente è un dovere, più che una necessità, dunque come non essere d’accordo?

Che l’architettura si nutra di altre discipline è invece meno ovvio, soprattutto ai tanti colleghi che parlano architettese, ai quali posso soltanto suggerire di leggere Derrida, quando racconta dei suoi inutili dialoghi con le cosiddette Archistar.

Ma dove mi trovo in palese – pur se parziale – disaccordo col collega, è a proposito della bellezza (dei palazzi? E le stalle? Il povero Haring si rigira nella tomba). Quasi che la bellezza verrà fuori automaticamente dall’applicazione dei suddetti principi in elenco. Fosse così, a nulla servirebbe il Modulor, del quale peraltro lo stesso Maestro un certo giorno pur disse che “se ne fotteva” (testuale). Eppure – paradossalmente – l’articolo del collega si apre con una serie di foto relative a un suo progetto di “torre dinamica”, a fronte del campanile di Giotto, dove il paragone non va aldilà del dinamismo, giacché il campanile di Giotto sarebbe il primo esempio di “edificio in movimento”.

[Sono costretto a dilungarmi: se le architetture dinamiche – sarebbe meglio dire meccaniche – fossero praticabili, la palazzina del Girasole (1929-1935 A. Invernizzi e E. Fagiuoli) non sarebbe rimasta sola e avremmo un Calatrava al dì. La vera architettura dinamica non si muove, paradossalmente, come nel bel grattacielo di Algeri (Le Corbusier, Gratte-ciel, quartier de la Marine, cité des affaires, Alger, 1938)].

Sfugge – eppure è proprio lì davanti ai nostri occhi – che a prescindere dalle “macchinazioni” di architetture complesse (delle quali non oso immaginare il costo: chi le paga?) sia esso il campanile di Giotto che quello dell’abbazia di Pomposa, che tutti i campanili e i minareti del mondo, condividono simbolicamente la stessa natura: sono “scale” che uniscono il Cielo e la Terra. Per dirla con Mircea Eliade, essi “unificano il Reale, lacerato dalla Creazione”, che da sempre (citare le fonti è praticamente impossibile), rappresenta il Molteplice a fronte dell’Uno.

Eppure pareva di buon auspicio che le discipline sorelle dell’architettura fossero in elenco (vedi sopra). Avrei aggiunto la metafisica, la teologia, l’antropologia e anche la storia delle religioni; e ancora i tanti testi sacri che ci rammentano come, a prescindere da qualunque formula che sia utile o meno alla progettazione (e ben venga!), l’architettura sia innanzitutto Scienza Sacra, vale a dire quel Luogo nel quale gli aspetti qualitativi devono (categoricamente) prevalere su quelli quantitativi, che rimandano invece a un molteplice non riunificabile e quindi in-significante.

Da sempre invece, è la qualità – mediante i simboli che la esprimono – a garantire significato e bellezza alla Architettura, che “al di fuori dei problemi di costruzione”, è fatta anche per commuovere e per “garantire” una pur simbolica riunificazione dell’Uno.

Se invece vi piace pensare che “oggi come mai è la funzionalità che dovrebbe modellare la forma” (mi si definisca forma per favore) e “la scienza creare bellezza”, posso ben dire che qui si continuano <a prendere lucciole per lanterne>.

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Stefano Mavilio, Architetto, n. 1957. Vive a Roma dove esercita la libera professione in forma singola e associata. Negli ultimi anni ha maturato esperienza come progettista di spazi per le celebrazioni liturgiche. Tra le realizzazioni si segnalano: la nuova aula detta Sala della Pace nel complesso monumentale di S. Rita a Cascia - 2009; il complesso parrocchiale di S. Bernardino Realino a Lecce - 2013 e il complesso parrocchiale dei SS. Pietro e Paolo a Roma - 2014; la ristrutturazione della cappella di S. Monica, presso la Curia Agostiniana, Roma, 2022. Nel 2005, per i tipi della Electa, ha pubblicato la "Guida all’architettura sacra di Roma 1945-2005"; nel 2014, per le edizioni Nuova Phromos di Perugia ha pubblicato "L'architettura è una scala - la scala di Giacobbe dell'architettura"; nel 2022 per Amazon prints ha pubblicato il "Manuale per giovani architetti". È professore a contratto presso la Facoltà di Architettura la Sapienza-Roma dove dall'anno accademico 2018-’19 tiene il corso di "Progettazione dello spazio per la liturgia-Design for sacred space". Nel 2000, per conto della CEI-Conferenza Episcopale Italiana, organizza il primo "Master in Progettazione di Chiese". È coordinatore didattico e scientifico del "Master in progettazione degli edifici per il culto", organizzato dal DIAP Sapienza Roma e docente presso OCRA, Officina creativa dell'abitare, a Montalcino.

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