di Enrico Ferrara
Il Presidente del Consiglio e le Regioni, ma non solo
Dall’inizio della diffusione del coronavirus, l’opinione pubblica e l’attenzione mediatica si sono rivolte, quasi morbosamente, a seguire l’operato della Presidenza del Consiglio dei Ministri e delle Regioni. Un provvedimento dopo l’altro. Una conferenza stampa dopo l’altra. A loro, in ragione della distribuzione delle competenze nel nostro ordinamento, è affidata la gestione dell’emergenza sanitaria. Eppure, tra le amministrazioni pubbliche in prima linea nella lotta all’epidemia non ci sono solo il governo centrale e le Regioni.
Un ruolo fondamentale nel contenimento del contagio, infatti, lo svolgono quei 7.904 Comuni disseminati su tutto il territorio della penisola, la cui importanza nell’assistenza quotidiana ai cittadini nell’attuale contesto è spesso trascurata o sottovalutata.
Proprio i Comuni, insieme e più delle Regioni (dati i minori poteri e le più esigue entrate rispetto a quest’ultime), sono impegnati costantemente nella battaglia per assicurare ai cittadini le prestazioni e i servizi cui hanno diritto. In special modo, in questo momento di straordinaria difficoltà.
Le minori entrate dei Comuni e le ripercussioni nel 2020 e nel 2021
La sospensione delle attività economiche e produttive, a seguito del lockdown disposto dai Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’08 e dell’11 marzo 2020, ha contribuito ad aggravare la situazione contabile e patrimoniale di molti Comuni, già da tempo in affanno. La serrata obbligata del commercio e dell’imprese ha comportato, comporta e comporterà in futuro ripercussioni dirette sui bilanci degli enti locali, in ragione delle minori entrate fiscali versate dagli operatori economici.
Il blocco delle entrate comunali, sulla base delle quali i comuni costruiscono i bilanci d’esercizio per erogare le prestazioni essenziali ai cittadini, in parte è dovuto fisiologicamente al rallentamento delle attività economiche, in parte è stato imposto dai provvedimenti governativi a sostegno del imprese in difficoltà.
A patirne gli effetti saranno i bilanci dell’anno in corso delle amministrazioni territoriali, che alla fine del 2020 risulteranno stremati non solo per la contrazione dei flussi in entrata per minori incassi e per un minor gettito di tributi, ma anche per un maggiore impegno sostenuto nel fronteggiare l’epidemia.
La maggior parte delle entrate comunali si fonda proprio sul versamento di tributi locali, quali le addizionali comunali ad Irpef ed Irap, IMU, Tari, imposta di soggiorno, Tosap e tributi sulla pubblicità. Tutti prelievi fiscali, il cui gettito è prevalentemente erogato dalle categorie produttive. Senza contare che un’altra quota rilevante del bilancio delle amministrazioni comunali – si tratta di 1,4 miliardi di euro all’anno – è alimentato dalle indennità per l’erogazione di servizi pubblici (asili nido, mense scolastiche) pagamenti delle soste degli autoveicoli (sospesi durante il periodo di confinamento domiciliare) e dagli incassi delle sanzioni amministrative.
A minori entrate, tuttavia, corrispondono maggiori uscite. I Comuni sono impegnati in prima linea a fronteggiare l’avanzata del virus: a loro spettano le attività di presidio e di controllo del territorio, oltre a quelle di sanificazione dei luoghi pubblici.
A fine marzo, a soli dieci giorni dall’inizio del lockdown sull’intero territorio nazionale, Il Sole 24 Ore aveva stimato che le minori entrate comunali avrebbero raggiunto una cifra prossima ai 3 miliardi di euro. Purtroppo, a quasi tre mesi dalle chiusure, quelle cifre risultano ben lontane dalla realtà dei fatti.
L’assessore Galimberti del Comune di Milano sostiene che la sola città di Milano subirà nel corso del 2020 una riduzione degli incassi per 400 milioni di euro.
Stime che fanno lievitare la previsione complessiva di mancato gettito ai Comuni, su tutto il territorio nazionale, a ben oltre 10 miliardi di euro.
Le criticità di questo periodo straordinario – è certo – si ripercuoteranno non solo sull’esercizio finanziario in corso, ma anche su quello del 2021. Sulla base dei bilanci dell’anno in corso dovranno essere operate le stime di spesa per l’anno successivo.
Ad oggi, l’effetto della pandemia sui Comuni è quello di aumentare la spesa per servizi e diminuire le entrate. Sulla base dei minori incassi registrati nel 2020 verranno preventivate le uscite sostenibili nel 2021.
Questo comporta un rischio socialmente pericoloso: l’anno prossimo le prestazioni comunali non potranno raggiungere la stessa platea di beneficiari del 2020, bensì una di gran lunga più ridotta, oppure ai cittadini non potranno essere garantite tutte le prestazioni comunali dell’anno in corso o ad essi verranno riservate prestazioni di minore qualità.
Gli avanzi di bilancio spendibili
La condizione economica dei Comuni sarà resa ancora più problematica dall’applicazione delle nuove regole di finanza pubblica, introdotte nel 2018 quando una pandemia del genere non era neanche pronosticabile.
La Legge di bilancio 2019 (Legge 30 dicembre 2018, n. 145) ha mutato radicalmente gli obiettivi di finanza pubblica per gli enti territoriali. Dal 1° gennaio dello scorso anno, a differenza di quanto previsto durante il governo tecnico guidato dal Prof. Mario Monti (L. n. 243/2012), i Comuni devono garantire il pareggio di bilancio, ovverosia il rispetto del bilanciamento contabile tra le entrate e le uscite di competenza.
AI vincoli di saldo, si accompagna un altro punto dolente nella gestione delle finanze pubbliche comunali: la spendibilità dell’avanzo di bilancio. Per un ente territoriale, l’avanzo di amministrazione è rappresentato dalla differenza tra le entrate e le spese, cui si aggiunge l’imputazione dei residui attivi e passivi.
Il problema risiede nel fatto che non tutto ciò che resta nelle casse comunali può essere speso liberamente dall’amministrazione. Delle quattro componenti dell’avanzo di bilancio (accantonato, vincolato, destinato al finanziamento degli investimenti, disponibile) solo una parte è libera: il Comune, infatti, può spendere senza vincoli solo le somme in avanzo disponibile, se non è classificato, secondo la disciplina contabile pubblica, come ente in disavanzo.
Secondo i dati ufficiali del Ministero dell’Economia e delle Finanze, a fine dicembre 2017, gli enti con avanzo disponibile positivo erano 6.155. Tuttavia, alla fine del 2020 non potranno essere confermati i dati di tre anni prima. A neanche sei mesi dall’inizio dell’anno, è ragionevole pensare che i Comuni in disavanzo libero avranno esaurito le disponibilità di cassa o siano prossimi a farlo, proprio a causa delle maggiori spese sostenute per l’epidemia. E la situazione sarà destinata a peggiorare ulteriormente nel 2021, quando le valutazioni contabili saranno effettuate sulla base dei risultati di bilancio dell’anno 2020.
Non dimentichiamoci dei Comuni, amministrazioni in prima linea nell’attuazione dei diritti
I Comuni sono l’amministrazione pubblica più vicina ai cittadini ed ai loro bisogni e, in ragione di ciò, quella più impegnata nell’erogazione di prestazioni e nell’adempimento di funzioni essenziali. Spettano al Comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, in particolare nei settori sociali, dei servizi alla persona ed alla comunità, oltreché l’assetto, la gestione e lo sviluppo economico del territorio.
Alle funzioni esercitate sono connessi diritti collettivi: attraverso i propri doveri i Comuni garantiscono ed assicurano ai propri cittadini l’esercizio dei diritti essenziali.
Gli interventi del Decreto Rilancio
Il rischio è che la gravità della situazione porti al collasso soprattutto i Comuni più piccoli, prevalentemente collocati nel meridione del Paese, innescando ulteriori conseguenze sociali.
Consapevole della pericolosità degli effetti della crisi di liquidità delle amministrazioni pubbliche, il governo ha inserito alcune misure di sostegno agli enti locali nel Decreto Legge 19 maggio 2020, n. 34 (Decreto Rilancio).
Per garantire a Regioni, Province, Città Metropolitane e Comuni i soldi necessari per fronteggiare le spese straordinarie, sono stati stanziati 3,5 miliardi di euro in dotazione ad un fondo istituito presso il Ministero degli Interni. Di questi 3,5 miliardi, 3 verranno garantiti ai Comuni. Cifre ben più esigue rispetto al totale delle minore entrate, pari al triplo della dotazione del fondo, che le amministrazioni locali subiranno quest’anno e che, dunque, serviranno a poco.
Il Decreto Rilancio ha previsto anche l’istituzione di un ulteriore fondo straordinario in favore degli enti territoriali. Quest’ultimo, con una dotazione di 12 miliardi di euro, potrà essere utilizzato per assicurare la liquidità per il pagamento dei debiti commerciali e nei confronti degli enti sanitari. Peccato, che le somme che i Comuni potranno richiedere non saranno a fondo perduto, ma verranno anticipate da Cassa Depositi e Prestiti S.p.A. e in seguito dovranno essere restituite.
È un meccanismo collaudato. Nelle intenzioni del governo la via d’uscita c’è: il Comune, per far fronte ai debiti e alle minori entrate di quest’anno, dovrebbe fare ulteriori debiti. Questa volta con lo Stato centrale.
Però, così non si tampona l’emorragia, la si incoraggia. Un debitore che eroga prestazioni essenziali, come i Comuni, per garantirne continuità operativa, deve essere assistito nella ristrutturazione del debito, al massimo finanziato a fondo perduto, tutt’al più esdebitato. Di certo, non lo si fa indebitare ancora di più, innescando un circolo vizioso che si ripercuote sulla situazione economico-contabile, che è il parametro sul quale definire i livelli di prestazioni pubbliche erogabili ai cittadini.
La proposta: deficit programmato come lo Stato Centrale
Minori entrate, aumento delle spese e disavanzo pregresso, pur rimanendo fermo l’obiettivo di garantire ai cittadini gli stessi servizi e lo stesso livello di qualità degli stessi, rappresentano i nodi futuri da sciogliere.
Gli interventi del Decreto Rilancio sono una risposta parziale ed inefficace ai problemi di liquidità dei Comuni.
Una soluzione ben differente, che tuttavia rifletterebbe una visione e una capacità politica diversa da quella dell’attuale governo, consisterebbe nell’autorizzare gli enti locali ad effettuare un deficit programmato e controllato, facendo sì che lo Stato si accolli i debiti straordinari dovuti alla contingenza, inserendoli come obiettivo della prossima legge di bilancio o come deficit nazionale, autorizzato e non computato nei parametri di Maastricht. Proprio come è consentito allo Stato, anche ai Comuni dovrebbe essere assicurato lo sforamento temporaneo dei vincoli di finanza.
Lo Stato centrale, in parole semplici, dovrebbe garantire ai Comuni assistenza immediata, accollandosi i debiti e facendoli figurare fra le spese generali che l’Europa ha autorizzato in deroga ai vincoli di stabilità finanziaria.
La coperta è naturalmente corta e le vie d’uscita sono poche ed anguste. Tuttavia, si può offrire ai Comuni un’ancora di salvataggio più salda. Bisogna triplicare il fondo straordinario da 3,5 miliardi oppure autorizzare le amministrazioni locali ad un indebitamento controllato. Delle due l’una.
Certamente la soluzione non può essere quella prevista nel Decreto Rilancio: le istituzioni devono dimostrare unità e solidarietà, non certo finanziare a pagamento i Comuni, per garantire l’erogazione di prestazioni fondamentali. Uno Stato che mercifica la solidarietà è uno Stato che dà un prezzo ai servizi essenziali al cittadino, alimentando sperequazioni e aumentando le distanze sociali.
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