Leonardo Servadio

Pacatezza, rispetto per l’altro, fermezza sui principi ma capacità di collaborare anche con gli avversari, continuità nel tempo, moderazione, un pizzico di distaccata ironia non estranea alla cognizione di quanto transeunti siano gli eventi in cui siamo immersi. Giulio Andreotti (1919-2013) è stato il personaggio più rappresentativo della Democrazia Cristiana dopo Alcide De Gasperi, e non a caso fu da questi scelto come suo collaboratore più stretto e suo successore.

Nella lunga stagione della Guerra Fredda è stato Andreotti l’elemento di equilibrio tra le varie correnti che si agitavano non solo nel partito che ha fondato e fatto crescere l’Italia contemporanea, ma più in generale tra i partiti che si incontravano sulla scena politica nazionale. Tra le molteplici qualità che ne hanno informato l’opera spicca la consapevolezza del ruolo dell’Italia nel mondo e per conseguenza l’attenzione per la politica estera e per il modo in cui quella interna è soggetta alle condizioni esterne, e a sua volta vi può influire: un’attenzione internazionale rara nel diffuso, dominante, radicato provincialismo italiano.

Tutti sanno che è stato in assoluto il politico che ha raccolto il numero maggiore di preferenze nei 42 anni nel corso dei quali ha partecipato a campagne elettorali: dal 1946 al 1989 è stato superato solo in un totale di sei occasioni: in due da De Gasperi (quando era ancora il suo collaboratore), in due da Aldo Moro e in altre due dal leader comunista Enrico Berlinguer (risultando in ogni caso secondo per numero di voti). È risultato il più votato non solo nel “suo” collegio elettorale (Roma Viterbo Latina Frosinone), ma anche in Veneto dove, candidato per le elezioni Europee del 1989, raccolse 530.858 preferenze. Dal 1991 fu nominato senatore a vita e non partecipò più a contese elettorali.

Non a caso, finita la Guerra Fredda e scomparsi o malridotti i partiti che avevano costituito la colonna vertebrale dell’Italia liberata dal fascismo e impermeabile al comunismo, su di lui si sono appuntati gli strali degli scandali attivati da operazioni processuali che tra l’altro lo hanno visto imputato a Palermo per contiguità con la mafia. Essendo stato la figura chiave della Democrazia Cristiana, per la quale ha ricoperto incarichi di governo o di responsabilità parlamentare dalla fine della seconda guerra mondiale e sino alla morte, vera espressione della continuità ottenuta in Italia durante il periodo democristiano, risultava particolarmente emblematico poter infangarlo ben benino: per “voltare pagina”.

La politica e lo scandalo

Lo scandalo sollevato nell’opinione pubblica secondo il noto copione delle rivelazioni preventive, ben oliato dall’epoca di Mani Pulite, grazie ai diversi processi intentati contro di lui verso la fine del secolo XX, è stato tale che tra i giovani, che non avevano conosciuto le vicende della cosiddetta prima repubblica, la figura di Andreotti è giunta a essere associata a quanto di peggio ci fosse in Italia.

Riguardo alle varie azioni intraprese dalle procure a lui avverse, lo stesso Andreotti nei suoi scritti lascia intendere di ritenere che esse fossero mosse come riflesso di operazioni politiche cucinate in ambienti legati al vecchio partito comunista. I perdenti della Guerra Fredda che cercavano di rifarsi sui vincitori. La consistenza politica delle azioni giudiziarie intraprese contro di lui, peraltro senza successo, risulta evidente se si considera che tra l’altro fu adombrato che i suoi contatti con la mafia gli servissero a ottenere voti: cosa assurda vista la consistenza e persistenza dei suoi successi elettorali.

Al proposito è doveroso considerare due questioni.

La prima attiene alla coscienza: Andreotti era cattolico, convinto e praticante. Per questo stesso fatto non avrebbe potuto lasciarsi coinvolgere attivamente in azioni di stampo mafioso: ma ovviamente chi considera la coscienza come volta a rendere conto solo a direttive di partito o a umori di movimento non può intendere che cosa sia il rispetto di principi sanciti da una religione rivelata.

La seconda riguarda il fatto che effettivamente ebbe contatti con mafiosi. Ma per valutarne l’importanza reale bisogna tenere conto del contesto. Andreotti scrive in merito al processo contro di lui intentato a Palermo, a pag 430 di quello che può essere considerato il suo testamento politico, il volume De prima Republica edito nel 1996: «…dove tutto il castello accusatorio frana è nella confusione – che ho già rilevato – tra valutazioni giudiziarie e apprezzamenti politici sul partito della Democrazia Cristiana e sulle sue correnti. Indro Montanelli mi consigliò, nel corso di un’intervista, di alzare il tiro della difesa ripercorrendo tutta la storia della DC di Sicilia. L’idea è attraente e ho iniziato a raccogliere la documentazione ma penso che sarà necessario dar vita a un gruppo di lavoro, approfittando anche della imminente liberalizzazione degli archivi americani, onde evitare di cadere in luoghi comuni o inesattezze, specie per il delicatissimo periodo dello sbarco e dei primi movimentati anni postbellici (ma anche per il seguito)» [enfasi nostra].

Andreotti si riferisce al fatto che l’invasione alleata in Sicilia, cominciata il 9 luglio 1943, fu preparata e svolta anche grazie al supporto di americani di origine siciliana, che furono ingaggiati dall’OSS (Office of Strategic Services) il servizio segreto angloamericano (precursore della CIA). Si è sempre saputo che anche elementi o gruppi mafiosi avessero collaborato con lo sbarco angloamericano e con la gestione dell’isola, in sintonia coi nuovi arrivati. Tali contatti operativi di carattere militare ovviamente si sono mantenuti anche dopo lo sbarco e dopo la conclusione del conflitto, ai livelli dell’intelligence e quindi anche della politica estera statunitense. Evidentemente oltre oceano tornava comodo avere in Sicilia una rete di persone che si sentivano vicine al governo statunitense, che fossero antifasciste (tra la mafia e il regime non era corso buon sangue) e anticomuniste.

Andreotti scriveva di confidare che il Freedom of Informations Act (FOIA) consentisse di recuperare documenti che mostrassero l’articolazione di questi rapporti tra apparati statunitensi e gruppi di potere siciliani durante e dopo la seconda guerra mondiale. Probabilmente, non essendo un ingenuo, quanto ha scritto è solo un modo per accennare in via indiretta al semplice fatto che la DC, e lui in particolare, avevano avute nel dopoguerra le mani legate su aspetti che riguardavano i rapporti tra apparati della criminalità organizzata siciliana e apparati governativi angloamericani.

E al riguardo vanno evidenziate altre due questioni:

          Primo: i documenti cui dà accesso il FOIA non necessariamente dicono tutto di quanto si è mosso negli USA e attorno agli USA che sia stato coperto da segreto. Tra i documenti facilmente accessibili oggi, per esempio, non si trova quasi nulla che abbia a che vedere con Max Corvo. Ma questi, siculo americano, è stato il personaggio di spicco nella preparazione e nella conduzione degli affari segreti attinenti allo sbarco in Sicilia, ed ebbe notoriamente anche rapporti operativi con elementi mafiosi.

Elementi mafiosi sono stati anche parte dei movimenti per l’indipendenza siciliana sorti proprio durante il periodo dell’occupazione statunitense (alcuni volevano associare una Sicilia indipendente agli Stati Uniti e staccarla del tutto dall’Italia: è anche per questo che la Costituente, in via compromissoria, decise di concedere alla Sicilia uno statuto speciale con un grado di autonomia amplissimo).

Insomma, che la principale forza politica dell’Italia postbellica abbia dovuto mantenere un occhio di riguardo verso la Sicilia e chiudere l’altro in funzione dei contatti tra gli USA e gruppi di potere dell’isola, sembra un fatto molto chiaro.

          Secondo: Andreotti (come del resto prima di lui De Gasperi) è stato il principale riferimento degli USA in Italia, nonché il garante ai loro occhi che l’Italia non scivolasse nell’orbita comunista (come avrebbe potuto accadere visto che quello italiano è stato il più grande partito comunista inserito nel mondo “occidentale”). Il governo americano guardava a lui come al baluardo anticomunista. E anche per questo Aldo Moro, presidente della DC, volle affidare ad Andreotti la guida del governo di “solidarietà nazionale” del luglio 1976, il primo sorto sulla base di un accordo col PCI (detto della “non sfiducia”), senza la cui astensione quel governo non si sarebbe retto.

Tale accordo fu rinnovato e ampliato nel 1978 e si prefigurava la possibilità che il PCI potesse evolvere in partito di governo come era accaduto col PSI dall’epoca della nascita del centrosinistra nel 1963. Questo avrebbe però comportato uno sconvolgimento dell’equilibrio metastabile della Guerra Fredda, una drastica revisione dei rapporti tra PCI e Mosca che, per quanto già evolutisi dal tempo del Cominform e con la nascita dell’Eurocomunismo, avevano ancora un certo peso. Avrebbero anche comportato un maggior grado di indipendenza da Washington della Democrazia Cristiana. In tali circostanze, per il mantenimento dello status quo tornò assai utile che Aldo Moro fosse rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo ’78, giorno in cui si votava il nuovo governo Andreotti con l’appoggio del PCI. Com’è noto Moro fu assassinato 55 giorni dopo il rapimento, e dopo lo svolgimento dello psicodramma più lacerante della storia della Repubblica italiana.

Mescolanze da Guerra Fredda

Insomma, la gratitudine italiana verso gli Stati Uniti quali liberatori dal nazifascismo e quali artefici della rinascita del Paese grazie al Piano Marshall, s’è mescolata lungo tutto il secondo dopoguerra con aspetti torbidi che hanno evidentemente a che vedere col modo in cui da parte angloamericana da un lato, e da parte sovietica dall’altro, si operava sul nostro territorio nell’ambito della Guerra Fredda.

Il caso di apparati finanziari in qualche modo collegati a reti in odore di mafia quali quelli di Sindona e di Calvi, entrambi collegati pure alle finanze vaticane, sono un altro indice di una mescolanza certamente inappropriata, ma con la quale chi era al governo nel secondo dopoguerra doveva fare i conti, e tanto più nella misura in cui tali ambienti non erano distanti da quelli che manovrarono, prima i fondi del Piano Marshall, e poi quelli di almeno parte delle finanze vaticane.

Comunque almeno dagli anni ’80 i contatti tra ambienti andreottiani e mafiosi sarebbero stati rescissi e su tale argomento lo stesso Andreotti ha dato varie indicazioni, in particolare riguardo alle leggi antimafia approvate dai suoi governi.

La logica della mediazione

In tutti i decenni dal dopoguerra all’inizio del XXI secolo Andreotti nei suoi scritti mette sempre in relazione quanto accade all’interno del Paese con gli eventi internazionali. Sempre con l’intento di mediare i rapporti per evitare scollature, interne o esterne. Nei suoi diari degli anni ’80, recentemente pubblicati a cura di due dei suoi figli (I diari segreti, Milano, 2020, pag. 490), il 5 febbraio 1986 scrive: «Parlo al Senato sulla politica mediterranea dell’Italia. Secondo i repubblicani in politica estera siamo come La Pira: neutralisti assoluti, per cui qualunque cosa fanno arabi e cinesi va bene perché sono poveri. Rispondo che essere paragonato a La Pira è per me un onore e che vi sono due modi per essere alleati degli americani, sull’attenti o amichevolmente: noi seguiamo la seconda strada».

Amici e alleati ma non sudditi dunque, come si era dimostrato col caso della crisi di Sigonella dell’anno precedente che, sostiene Andreotti (all’epoca ministro degli Esteri), sarebbe stata evitabile se gli Stati Uniti avessero acceduto a negoziare un accordo di compromesso con la Siria, già impostato dalla diplomazia italiana per risolvere il dirottamento della nave passeggeri Achille Lauro. Quel dirottamento invece si risolse più tardi e in Egitto dove i terroristi palestinesi che si erano impossessati della nave accettarono di lasciarla: ma nel frattempo avevano ucciso un turista statunitense, Leon Klinghoffer. Nella base aerea statunitense di Sigonella pochi giorni dopo ci furono attimi di tensione tra militari italiani e statunitensi: l’aviazione americana aveva dirottato l’aereo sul quale viaggiavano i responsabili del sequestro della nave e volevano arrestarli, il governo italiano presieduto da Craxi (Andreotti agli Esteri) si oppose, per via degli accordi stabiliti con i palestinesi allo scopo di mettere fine al sequestro della nave. Fortunatamente il governo statunitense cedette. Ma si era spinto sull’orlo di una gravissima crisi internazionale: grazie alle sue conoscenze nel governo USA Andreotti ricucì i rapporti stressati con l’alleato americano. Con cui mantenne ottimi rapporti anche mentre infuriava lo scontro tra USA e Libia, per quanto con quest’ultima pure avesse un fecondo dialogo aperto.

C’è una misura nelle cose

Andreotti, e in generale la DC, ha sempre preferito la mediazione allo scontro: sia in politica interna, sia in politica estera. Sia per quel che attiene alla situazione strategica, sia per quel che attiene alla situazione economica. Parlando dell’azione di De Gasperi negli anni ’40 e ’50 egli ricorda, con riferimento alla diffusa idea della “lotta di classe”: «Il mondo si divideva in borghesi e nel resto; vi era una contrapposizione tra socialità e borghesia. De Gasperi non partecipò di questo manicheismo, anche di nomenclature. La linea ispiratrice della sua azione di governo fu quella delle riforme: lo sforzo perché nella politica tributaria ci fosse maggiore giustizia, si creassero condizioni di vita possibili, per far sì che i beneficiari della riforma agraria non si trovassero dinanzi a un pezzo di terra inerte, ma avessero, tramite gli enti di riforma, i sostegni necessari al loro lavoro» (De Gasperi, Palermo, 2006, pag 147).

La riforma agraria promossa da De Gasperi nel 1950 consentì la riduzione dei latifondi e il sorgere di cooperative di piccoli proprietari, fondandosi sull’idea di un’equa distribuzione delle ricchezze tra coloro che fossero meglio in grado di utilizzarle non per fini speculativi.

Era un’Italia molto diversa da quella attuale, e la DC poté accompagnare e favorire la trasformazione di quel Paese, piuttosto arretrato, in una potenza industriale moderna che siede tra i grandi del mondo. Proprio grazie a una politica fatta di moderazione e di buon senso comune, informato alla dottrina sociale della Chiesa, non a visioni ideologiche.

Le polemiche

Oggi che le ideologie sono cadute, ci troviamo in un periodo in cui gli scontri politici avvengono con inusitata acredine su questioni quali la misura in cui gli Stati possano o debbano sostenere i cambiamenti di sesso delle persone; e i modi in cui affrontare la pandemia, anziché essere oggetto di ampie intese nell’interesse comune divengono occasioni di sontri di parte in cui personaggi che dovrebbero avere esperienza scientifica divengno demagoghi arruffapopolo; e in Parlamento si sentono discorsi in cui l’eloquio a volte mostra carenze non solo lessicali ma anche sintattiche; e la polemica si confonde talvolta con l’insulto. Perché anche la forma conta nel dialogo tra più voci e, quanto minore la capacità espressiva, tanto più difficile è l’intesa.

In compenso impera la dietrologia e grazie al web si moltiplicano le voci di chi annuncia verità nascoste e spaccia le proprie fantasie per rivelazioni clamorose

Realismo e buon senso

Nei suoi diari del 2000, Andreotti scriveva, il giorno 5 settembre: «Chi governa in realtà il mondo? Di fatto chi governa è il petrolio. Con buona pace dell’energia nucleare» (2000 Quale terzo millennio?, Milano, 2007, pag 117).

Un pizzico di sano realismo in un Paese che ama vivere di illusioni, sogni e sparate arroganti di presunti esperti. Dopo il disastro di Chernobyl del 1986, nel 1987 l’Italia volle chiudere le sue centrali elettronucleari: è rimasto l’unico Paese al mondo privo di capacità elettronucleari proprie. E il mondo oggi funziona sempre e tutto sulla base dell’energia che produce e consuma. Altro è muoversi sulla base della prudenza, altro è farlo spinti dalla paura.

All’Italia oggi manca quel pizzico di sano realismo, quell’attenzione al dialogo, quella capacità di tenere le porte aperte e di agire con moderazione e lungimiranza. Tutte cose di cui ha molto bisogno perché la sua posizione nel Mediterraneo, lingua di terra protesa tra l’Europa e l’Africa, ne fa, da sempre, un luogo di incontro e pertanto anche di potenziale scontro.

Quel che le manca oggi è una politica come quella che seppe tessere Andreotti, conscio della relativa debolezza e della forte dipendenza estera del nostro Paese, ma anche desideroso di parlare il linguaggio della pace, avendo così vicino e presente il rischio gravoso dello scontro e dello sfilacciamento dei rapporti internazionali.

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