C’è chi ha suggerito che la guerra in Ucraina segnasse la fine della globalizzazione. E se invece segnasse una grande crepa nella geopolitica, nel modo stesso in cui la geopolitica è trattata e discussa, oltre che concretata nella dinamica dei rapporti internazionali?
Non s’è mai discusso tanto di geopolitica sui mass-media, quanto è avvenuto con questa guerra. Ha coinvolto in vario modo tutti i Paesi e tutte le opinioni pubbliche. Forse perché s’è ricominciato con tanta foga a parlare del rischio dello scontro globale nucleare, forse perché come mai dalla fine della seconda guerra mondiale un nuovo conflitto è divenuto una minaccia per tutta l’Europa e il vecchio continente ancora ha un ruolo rilevante per tutto il mondo. Fatto sta che si nota l’inevitabile separazione tra chi sta dall’una e chi sta dall’altra parte e tale divisione si manifesta nel desiderio che traspare implicito nel modo di porgere notizie e analisi. Una battaglia vinta dagli Ucraini sembra ad alcuni che apra la strada per la sconfitta di Putin, viceversa un lembo di terra sottomesso dalle truppe di Mosca sembra che abbia avvicinato per gli altri la vittoria finale contro l’imperialismo statunitense – come se gli Ucraini non fossero altro che fantocci manovrati ad arte da oltre oceano in funzione anti-russa, secondo l’interpretazione che Putin dà della guerra e che è seguita anche in Occidente da personaggi dall’indole più diversa.
Guerra fredda ma non tanto
Qui sta il busillis: sono in tanti a dare per scontato che questo non è un conflitto tra un invasore, la Russia, e un Paese invaso, l’Ucraina, ma solo il proseguimento di una rinata guerra fredda che vede la NATO sotto l’egida statunitense avanzare imperterrita, passo dopo passo verso oriente erodendo territori che invece sono legittima parte dell’impero russo. È una visione geopolitica del problema, che guarda al vasto fenomeno delle sfere di influenza e ritiene che tutto a questo sottostia in nome di una Realpolitik che, in quanto tale, prescinde per definizione da argomenti di carattere morale, etico, di rispetto delle identità, di rispetto della sovranità, di rispetto della vita stessa. Come se i morti, i palazzi sventrati, le città incendiate, le scuole e gli ospedali abbattuti fossero tutti epifenomeni: vittime collaterali, inevitabili e quindi anche trascurabili nella logica del più grande e prevalente scontro tra culture e strutture sovranazionali.
C’è chi assume questa prospettiva perché è visceralmente anti-NATO, chi lo fa perché vede come l’Europa resta schiacciata dal peso americano dal quale avrebbe potuto liberarsi (ma tralascia che in questo Putin è stato il miglior alleato dell’imperialismo USA), chi lo fa perché auspica un ritorno al totalitarismo, nero o rosso che sia, e sa che di questo il nuovo zar è divenuto il campione; chi lo fa perché è pregiudizialmente contrario all’Unione Europea.
A guardare dal punto di vista geopolitico per costoro suona legittima l’indignazione verso i Paesi occidentali che foraggiano Kiev: come ha più volte ribadito Putin, essi non fanno che giocare sulla pelle degli Ucraini, usati come carne da cannone per dar fastidio ai legittimi desideri di mamma Mosca, bisognosa dei suoi territori cuscinetto che ritiene per diritto naturale a lei soggetti.
Da quel punto di vista la NATO si è illegittimamente allargata verso Est, quando invece, dopo il 1991 e il crollo dell’URSS era cessata la sua ragion d’essere e quindi avrebbe dovuto sciogliersi. Il che potrà essere vero, ma non tiene conto che sono stati Paesi come la Romania, la Polonia, la Lituania, ecc. a chiedere di loro spontanea volontà di aderirvi – e se l’han fatto avran pur avuto le loro ragioni. Certo da parte loro è stata una scelta di campo, proprio come lo sono state le rivolte di piazza Maidan del 2014 e lo è stata la decisione di Svezia e di Finlandia di aderire alla NATO dopo l’invasione russa. Il tutto sarà stato favorito, promosso, magari manipolato da Washington, ma c’è qualcuno che veramente crede che basti una seppur ben oliata operazione coperta per spostare la propensione di governi preposti a difendere la propria sovranità nazionale?
Eppure tutto questo sul piano geopolitico ad alcuni suona primariamente come una provocazione antirussa: non esistono i popoli, non esistono volontà sovrane – ed è curioso che siano proprio molti di ambito sovranista che nella pletora dei social portano avanti questa linea di pensiero. Esistono solo macrotendenze geopolitiche che comportano rischi e conseguenze.
Dunque seguendo tale logica l’invasione in Ucraina è la legittima risposta di Mosca all’arroganza occidentale: la difesa di popoli del Donbass che, tradizionalmente parte dei territori russi, sono stati inglobati in un Paese che s’è rivelato assurdamente prono alle mazzette statunitensi che ne hanno solleticato il revanscismo.
Liberatori Wagner
Di qui la legittima discesa in campo della Wagner, composta bensì da mercenari che si ispirano già nel nome a uno dei campioni dei miti nordici che tanto commossero la Germania degli anni Trenta, ma che in questo caso specifico svolgono un’opera di repulisti antinazista agendo agli ordini di Putin, divenuto campione del mondo multipolare che si erge contro l’imperialismo del dollaro.
E non ci sono popoli che tengano, non famiglie straziate dalla guerra perché le loro case sono distrutte o perché i loro figli sono stati strappati dai villaggi della Siberia per esser mandati a combattere senza sapere bene che diamine stiano facendo.
Putin nei suoi discorsi si profila come la guida di coloro che negli anni hanno cercato di erigere un argine contro l’arroganza statunitense: si presenta come il campione dei pellerossa sconfitti dai soldati blu, il faro su cui si orientano gli orfani delle guerre neocoloniali (Cuba, Nicaragua, Cambogia, Laos, Vietnam, Irak, Afghanistan, ecc.), il leader cui anche la Cina può guardare con serena fiducia ora che deve difendere il proprio nuovo e vasto potere economico che di per sé solo gli USA potrebbero minacciare, il porto sicuro cui gli ayatollah iraniani possono dirigersi per non sentirsi soli di fronte alle oscure trame sioniste-statunitensi volte a sobillare le loro giovani perché facciano della rivolta del hijab una spina nel fianco del regime, la punta di diamante dei Paesi non allineati che dovrebbero finalmente vedere possibile sganciarsi dal peso dei poteri economici postcoloniali, grazie alla protezione dei liberatori della Wagner.
Dugin alla riscossa
La geopolitica ammannita sui social da mani avide di passare messaggini accattivanti abbraccia, forse pure inconsapevole, le tesi di Alexandr Dugin sulla “quarta teoria politica” e preconizza l’emergere dell’Eurasia trionfante in una alleanza Russo-Cinese-Iraniana col supporto esterno dei Paesi arabi e dell’India per affossare finalmente la talassocrazia anglosassone che ormai ha fatto il suo tempo.
E se nel mentre scorre sangue russo e ucraino nelle steppe pontico-caspiche, tanto è colpa della NATO, loro che ci possono fare? Putin ha invaso solo per difendersi, mica per far del male a qualcuno. Anzi, lui gli Ucraini li vuole proteggere: anche quelli che gli esibiscono il dito medio, perché sono solo fratelli deviati dalla propaganda occidentale. Come deviate dal malcostume degenere sono le ragazze che gettano il velo alle ortiche a Teheran: povere fanciulle ignare di star cadendo nella bocca dell’orco. Meglio impiccarne qualcuna prima che il morbo si diffonda e faccia peggio. Intanto l’alleanza Teheran-Mosca è sempre più solida: testimoni ne sono i droni che con pochi soldi permettono di bloccare luce e acqua nelle città ucraine: legittimi bersagli di guerra in quanto infrastrutture di valore strategico, a differenza del ponte tra Crimea e Russia che è invece usato solo per i turisti russi in vacanza e quindi va rispettato.
La fine delle vittime
Nel bailamme delle guerra si ravvisano solo le due posizioni contrapposte: le singole vittime scompaiono. Lo scontro è geopolitico e la geopolitica tutto giustifica poiché campeggia sui terreni dei grandi schieramenti e della fasi epocali. E allora sotto a combattere: mobilitiamo le riserve dalla Russia profonda e glie la faremo pagare ai manovratori angloamericani del popolo ucraino, agitiamoci sui social in ossessive ripetizioni di denuncia delle menzogne americanofile pagate in dollari mentre con la bava alla bocca attendiamo che yen, rupie, rubli e copeche ne sostituiscano i fasti a partire dal mercato del petrolio, la cui carenza pian piano strangolerà l’odiata Unione Europea nella sua sfarfalleggiante disunità sempre prona ai comandi d’oltre oceano.
Social poco socievoli
Se questa è geopolitica, forse è meglio lasciar perdere. C’è stato chi di fronte alle immagini di ospedali distrutti dalle bombe moscovite ha preso a dire che era propaganda inscenata da Ucraini che volevano farsi passare per vittime mentre erano i persecutori, che le donne incinte trascinate fuori da reparti maternità sventrati erano in realtà attrici figuranti: speriamo che se ne ricordino i propalatori di messaggini pro Putin, perché sono stati loro nei primi mesi di guerra a dire che erano tutte falsità ucraine e i Russi non c’entravano niente.
Certo, lo hanno fatto perché è quasi inevitabile in un conflitto parteggiare per una delle parti in causa. E gli Stati Uniti da decenni hanno fatto tutto il possibile per farsi conoscere come aguzzini, non come salvatori, nel fuoco dell’anticomunismo consumando il credito conquistato dai loro soldati sulle spiagge della Normandia. E chi non sa farsi un’idea propria e non ha mai desiderato un’analisi critica della realtà, inevitabilmente cede a quel che gli resta più comodo credere per cullare i pregiudizi.
Geopolitica, virologia e “social”
Con la guerra in Ucraina la geopolitica è diventata, almeno per la platea dei social, quel che la virologia è stata quando era in auge la pandemia del Covid-19: uno spettacolo da fomentare sui mass-media per fare audience.
A questo punto l’unico auspicio plausibile è che gli avidi spettatori di questo dramma possano consumarsi nella propria miopia e alla fine annoiarsi al punto tale da chiedersi se non vi sia altro, oltre alla propria visione ideologizzata. E che possano pure porsi il problema, se veramente l’invasione in Irak e misfatti simili da parte statunitense giustifichino altri speculari misfatti compiuti per giunta senza neppure quel briciolo di giustificazione strappata con l’inganno al consesso delle Nazioni Unite.
Imperialismo rivisto
La geopolitica di personaggi quali Mackinder e Haushofer si fondava sulla visione del mondo imperniata sull’imperialismo in vigore nei loro Paesi e da loro abbracciata. La geopolitica dei “social” è figlia di un impegno da discussione nel bar sotto casa, forse accompagnata da allegre sbornie, certamente amplificata dagli strumenti di comunicazione attuali. In ogni caso implica uno schieramento di parte che, abbracciando il “grande gioco” bellamente ignora le sofferenza che la guerra comporta.
C’è solo una voce che contro tutto questo cumulo di degenerazione s’è levata, quella di papa Francesco e in generale dei pastori delle Chiese cristiane (con la significativa eccezione dei vertici della Chiesa moscovita). Son queste le voci che hanno richiesto una pace fondata sulla giustizia e sul rispetto, anzitutto della vita.
La guerra in Ucraina non ha segnato e non segnerà la fine della globalizzazione, semmai una qualche sua contrazione o riorientamento. Quel che chiamiamo mondo occidentale da tempo s’è esteso a tante parti dell’Asia e le contese commericali che hanno luogo in Africa e Sudamerica non esulano dalla logica della globalizzazione.
E se questa guerra mai finirà, come pare sia finita la pandemia, confidiamo che con essa anche questa ubriacatura di geopolitica d’accatto possa sciogliersi nella sentina del dimenticatoio, e magari lasciare posto a qualche sentimento di pietà e compassione per chi è vittima di ingiustizie e di violenza, ché di queste non purtroppo non mancheremo mai sulla faccia della Terra.
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