di Axel Famiglini
La guerra in Ucraina ha raggiunto un punto di apparente stallo che, al momento attuale, sembra dimostrare una sostanziale parità fra gli schieramenti in campo. Tutti i conflitti sono puntualmente accompagnati dalla propaganda bellica che viene impiegata dalle parti in lotta sia a fini interni che con lo scopo di danneggiare e screditare l’avversario. Appare in tal senso evidente che ciò che viene a volte presentato, a livello mediatico, quale dato indicativo dell’andamento oggettivo del conflitto in realtà costituisce una visione non rispondente, in tutto o in parte, allo scenario reale riscontrabile sul campo di battaglia. Quando la guerra in corso giungerà al suo termine, probabilmente verremo a poco a poco a conoscenza dei veri numeri delle vittime civili e militari nonché dei mezzi distrutti e danneggiati e dei danni materiali ed economici subiti da entrambi gli schieramenti.
Ciò che attualmente sembra lecito poter dire è che il crescente supporto militare occidentale indirizzato a favore dell’Ucraina, per quanto viziato da una produzione industriale che non sembra poter tenere il passo con la domanda di rifornimenti bellici, è al momento controbilanciato da un abnorme utilizzo di armi e munizioni, spesso obsolete, di fabbricazione sovietica e prelevate dai più remoti magazzini siberiani della Federazione Russa, le quali vengono impiegate a profusione sui campi di battaglia ai danni delle forze ucraine e ciò anche per sopperire all’inadeguatezza strategica e tattica dei comandi militari dell’esercito moscovita. Oltre a questo si assiste all’ordalia di migliaia di carcerati russi i quali, in cambio di una promessa di grazia concessa dopo un periodo di servizio fra gli “irregolari” della Wagner, tentano la sorte nelle trincee del Donbass svolgendo la semplice funzione di “carne da cannone”. A livello economico l’isolamento della Russia è in parte calmierato dalle economie degli ex-satelliti sovietici ancora compiacenti nei confronti di Mosca, tuttavia sono stati quali India e Cina che permettono alla Russia di continuare il conflitto senza affondare nella completa insolvenza finanziaria. In particolare il principale e di gran lunga più importante sostenitore della politica e dell’economia russa è rappresentato dalla Cina di Xi Jinping. Le ragioni di un tale fervore cinese nei confronti dell’ingombrante ed irrequieto vicino russo sono molteplici. La Cina e la Russia sono caratterizzate da sistemi politici autocratici assai simili ed entrambe coltivano una volontà di autoaffermazione globale che è andata via via in rotta di collisione con l’Occidente ed i suoi interessi in seno a numerosi scenari internazionali.
Dal momento che la rete di alleanze occidentale è assai più vasta di quella di cui possono godere Cina e Russia, appare evidente che si creino convergenze fra Pechino e Mosca, essendo entrambe consapevoli che da sole sarebbero assai meno forti sia sul piano diplomatico che geostrategico. In tale ottica la Cina ha il pieno interesse che la Russia non imploda perché in caso contrario si troverebbe sostanzialmente isolata e priva di alleati di rilievo all’interno dell’agone internazionale. Il tracollo della Russia potrebbe costituire altresì un grave pericolo per la Cina perché una Federazione Russa allo sbando ed in piena disintegrazione rischierebbe di tramutarsi in una fonte di grave instabilità per la sicurezza delle frontiere cinesi nonché in una potenziale incubatrice di forze deflagranti, sempre latenti e mai veramente sopite, che rischierebbero di minare la solidità della stessa Cina, a cominciare dal terrorismo di stampo islamista fino alla riedizione, in chiave contemporanea, di sperimentazioni statuali centroasiatiche, eventualmente supportate dal tornaconto di attori esterni. L’interesse della Cina nei confronti della sopravvivenza della Russia è connotato anche da ragioni meno cristalline.
La Russia, storicamente, ha sempre reputato la Cina quale potenziale terreno di conquista e ciò sin dal tempo degli zar, fino ad arrivare all’epoca dell’Unione Sovietica, quando la Cina riuscì ad evitare di entrare nell’orbita di Mosca come invece accadde alla vicina Mongolia. La Cina, dal canto suo, memore dell’atteggiamento colonialista che ha sempre contraddistinto il modus operandi russo in Asia, non si fa certo illusioni sulle reali ragioni che si celano dietro alle attuali profferte di eterna amicizia che giungono dal Cremlino e gioca la sua partita con l’obiettivo di ottenere un giorno la supremazia non solo sul mondo occidentale ma anche su quella Russia che ha sempre operato con prepotenza in tutte le circostanze in cui le è stato possibile farlo. La Cina in particolare guarda con interesse alla Siberia e ai territori a lei sottratti da Mosca a seguito dell’infausta stagione delle guerre dell’oppio e dei cosiddetti “trattati ineguali”, una pagina buia della storia cinese che ha visto Pechino più volte soccombere a seguito di cocenti sconfitte ed umilianti prevaricazioni.
Il fatto che oggi la Russia e l’Occidente si trovino coinvolti in un logorante conflitto destinato ad indebolire entrambe le parti sia militarmente che economicamente, non può che beneficiare la Cina la quale da un lato potrà fronteggiare nell’Indo-Pacifico un Occidente meno forte che sta focalizzando ingenti risorse nel conflitto in Europa orientale, dall’altro sarà nella posizione di legare letteralmente alla catena una Russia che, a mano a mano che la guerra si protrae, sarà sempre più dipendente dalla linfa vitale che Pechino sta già copiosamente elargendo a Mosca per permetterle di sopravvivere all’isolamento economico e politico impostole dal mondo occidentale.
L’interesse cinese non sta ovviamente nell’eliminazione della statualità moscovita ma nel suo asservimento, ovvero nella sua trasformazione a mero satellite da utilizzare sia in chiave di stato cuscinetto in funzione antioccidentale sia quale ricco bacino di materie prime e di terre fertili da colonizzare a vantaggio delle aziende e dei lavoratori cinesi. La Cina sta parimenti ricercando la parità strategica nucleare con gli Stati Uniti d’America e ciò grazie all’aiuto russo che forse rappresenta, al tempo presente, la più importante contropartita che Mosca è stata costretta ad offrire a Pechino in cambio della sua assistenza economica, commerciale e finanziaria. All’attuale ritmo di sviluppo delle testate nucleari, la Cina potrebbe superare le mille unità nel giro di un decennio, senza contare l’eventualità che tale processo conosca una probabile accelerazione negli anni a venire. In tale scenario c’è da chiedersi se gli Stati Uniti rischieranno una guerra nucleare con la Cina quando quest’ultima tenterà l’invasione di Taiwan, il che dovrebbe allo stesso modo suggerire un’attenta riflessione al governo di Taipei su quale può essere il valore concreto delle rassicurazioni che provengono da Washington in merito alla protezione americana della sovranità dell’isola.
Ci troviamo in realtà di fronte ad uno scenario nel quale, presto o tardi, la Cina potrà beneficiare non solo di un arsenale atomico intercontinentale nazionale di tutto rispetto ma avrà de facto a disposizione anche quello del futuro satellite russo, assieme al quale potrà contare su un deterrente nucleare a cui l’Occidente probabilmente non potrà replicare.
In tale contesto si può riscontrare un mutamento nell’atteggiamento degli stati del Golfo Persico nei confronti dell’Occidente che potrebbe rappresentare l’ennesima cartina di tornasole di un processo di traslazione delle alleanze internazionali già in atto da alcuni anni, il quale potrebbe aver conosciuto un’accelerazione proprio in concomitanza con l’attuale conflitto ucraino. La crescente permeabilità dell’Arabia Saudita alle azioni promosse dalla diplomazia cinese ha portato ad un riavvicinamento, un tempo impensabile, tra Riyad e Teheran. La stessa Arabia Saudita ha espresso il desiderio di aderire, quale partner di dialogo, all’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, un elemento che ulteriormente mette in evidenza come la politica saudita mostri una crescente insofferenza nei confronti di un Occidente, in primis gli Stati Uniti d’America, sempre meno in grado di risultare determinante sullo scacchiere mediorientale. A loro volta le monarchie del Golfo stanno progressivamente riallacciando relazioni diplomatiche con il presidente siriano Assad, ad ulteriore dimostrazione del totale fallimento occidentale in quel teatro di guerra. La stessa Siria potrebbe essere presto riammessa in seno alla Lega Araba.
Non meno importante la decisione dell’Opec di tagliare la produzione petrolifera di oltre un milione di barili al giorno, una mossa che porterà ad un aumento dei costi per gli idrocarburi e di cui indubbiamente beneficerà la Russia di Putin alle prese con la necessità di spostare il proprio mercato di riferimento dall’Europa al continente asiatico e di calmierare le perdite subite per via del mancato consueto accesso ai tradizionali acquirenti europei. Occorre altresì mettere in evidenza che l’isolazionismo americano delle presidenze Obama e Trump, unito al ridotto interesse degli Stati Uniti per le risorse petrolifere mediorientali, ha indubbiamente posto in allarme i Paesi del Golfo i quali vedono minacciato il loro ruolo geopolitico ed economico di esportatori di petrolio a cui conseguentemente seguiva una non meno importante protezione armata occidentale. Nel momento in cui gli Stati Uniti possono godere di una sostanziale autonomia energetica che permette loro di focalizzare la propria attenzione primariamente sul Pacifico, i Paesi del Golfo stanno iniziando a vedere nella Cina un possibile sostituito agli Usa, soprattutto per il fatto che Pechino, diversamente dagli Americani, ha assoluta necessità del petrolio della penisola arabica. Allo stesso tempo le politiche di transizione ecologica che pervadono lo scenario europeo, per quanto controverse e non prive di zone d’ombra, non sono mosse solo da un impianto ideologico di stampo ecologista ma anche dalla necessità di svincolare il continente europeo dai ricatti geopolitici dei produttori di idrocarburi, ovvero la Russia di Putin ma anche le ambigue “petrocrazie” mediorientali, caratterizzate, da un punto di vista diplomatico, da relazioni che si presentano apparentemente cordiali nei confronti dell’Europa, le quali, tuttavia, sono però macchiate dal sospetto, da parte occidentale, di un supporto strumentale al terrorismo islamico.
Mentre l’Occidente sembra voler lasciare il Medioriente al suo destino, una mossa per la verità assai poco lungimirante visto il valore geostrategico del territorio, stanno già subentrando ad esso la Russia e la Cina, di fatto generando una saldatura tra Pechino, Mosca e le monarchie del Golfo in seno alla quale l’Iran giocherà il ruolo di luogotenente dell’asse Mosca-Pechino in area mediorientale. Il nuovo ruolo iraniano nella zona del Golfo produrrà ripercussioni nel conflitto attualmente in corso in Yemen (in merito al quale i Sauditi stanno già scendendo a patti), in Libano, nonché genererà ulteriore pressione su Israele, la cui situazione politica non solo non appare delle migliori per valutare con lucidità la situazione in corso e le eventuali contromosse da mettere in atto ma sembra addirittura favorire quelle fazioni interne che paiono ricercare in tutti modi lo scontro contro terzi anche con il fine di distogliere l’opinione pubblica dai problemi domestici.
Allo stesso modo sul fronte occidentale, il desiderio di Biden di porre rimedio a dodici anni di “inazione totale” dei suoi due predecessori, di stroncare ed archiviare le pesantissime ed imbarazzanti ingerenze russe nella politica americana e di far dimenticare il catastrofico ritiro dall’Afghanistan, sta portando ad una pericolosa chiusura sul fronte della diplomazia, fatto che sta sempre più conducendo la Russia fra le braccia di una Cina che da molto tempo trama vendetta contro l’Occidente e che, alla fine, reclamerà pure la pelle dell’obliquo orso russo. Il presidente Biden si dovrebbe al contrario chiedere se per salvare il prestigio, l’onore e la faccia degli Stati Uniti si debba necessariamente permettere alla Cina di stabilire il proprio impero “euroasatico” con una Russia ridotta a mero orso da circo, ovviamente il tutto arricchito dal più grande arsenale atomico che si sia mai visto nella storia dell’umanità. La guerra ucraina andrebbe al contrario disinnescata al più presto, da un lato garantendo l’indipendenza e la sicurezza del legittimo territorio ucraino, dall’altro mettendo la Russia nelle condizioni di non dover stipulare un devastante ed innaturale matrimonio con Pechino che produrrebbe ripercussioni sull’intero piano della stabilità globale per i decenni a venire. La Russia, come la Turchia sul fronte mediorientale, rappresenta uno stato cuscinetto che ha storicamente garantito la sicurezza dell’Europa, evitando la diretta esposizione delle frontiere centro-europee rispetto a quanto sta al di là della Russia stessa. Periodicamente la Russia ha cercato di espandersi verso ovest e tali tentativi sono stati contenuti e contrastati, riportando la Russia, al momento opportuno, entro confini politicamente accettabili.
In questo frangente è bene che “la storia si ripeta”, aiutando l’Ucraina a difendersi e ricercando contestualmente una pace giusta che permetta un accomodamento duraturo tra le parti. Una chiusura completa al dialogo da parte occidentale e la ricerca a tutti i costi di una vittoria totale sul campo di battaglia, fino all’umiliazione dell’avversario da portare a trofeo quale coronamento supremo di una delle prossime controffensive ucraine, possono produrre reazioni e scenari progressivamente sempre più inquietanti, fra i quali il peggiore potrebbe rappresentare l’utilizzo dell’arma nucleare tattica da parte russa ed una potenziale apocalisse atomica a seguito della quale tutte le parti in lotta risulterebbero sconfitte. Se Occidente e Russia, pur nel sostanziale disaccordo in numerosi ambiti, non sapranno capire dove risieda il loro vero interesse comune nel lungo periodo, il vero vincitore di questo scontro, presumibilmente, sarà uno solo, ovvero la Cina di Xi Jinping.
In quest’ottica appare interessante l’opera di mediazione francese che, pur con fatica e non senza ostacoli e contraddizioni, si è progressivamente delineata nel corso del conflitto, la quale deriva dalla necessità storica della Francia di recuperare il terreno perduto in Africa ed in Medioriente e di evitare lo strapotere della Nato e degli Usa in Europa. Se si formasse un gruppo di nazioni veramente interessate a porre termine alla guerra e pronte a riconoscere alla Francia un ruolo di coordinamento, si potrebbe avviare un percorso virtuoso che conduca verso serie trattive di pace, le quali potrebbero trovare sponda sia in Russia che negli Usa, un’eventualità che l’improvvisa emersione di documenti classificati americani, giunti alla luce del sole proprio in questo particolare frangente, sembrerebbe rendere plausibile.
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