Nella notte tra l’8 e il 9 maggio 2023, quaranta tra caccia ed elicotteri israeliani hanno bombardato la Striscia di Gaza in operazioni multiple per assassinare i dirigenti della Jihad islamica. L’operazione è proseguita anche il 10 e l’11 maggio. Finora, sono stati uccisi almeno 28 palestinesi, inclusi cinque capi della Jihad. Tra le vittime ci sono 6 donne e 4 bambini, mentre i feriti sono arrivati a 80, di cui alcuni molto gravi. Da Gaza sono stati lanciati circa 800 missili che hanno fatto una vittima e due feriti. Le incursioni aeree sono tuttora in corso, nel totale disinteresse dell’opinione pubblica.

Da molti decenni, purtroppo, il Medio Oriente si caratterizza per una serie di scontri, guerre civili, atroci attacchi terroristici, uso di armi chimiche. La cosiddetta società civile occidentale si è ormai assuefatta alle notizie orribili che provengono dall’area, mentre la stessa opinione pubblica araba rimane indifferente alla sorte dei palestinesi, ormai abbandonati alla disperazione di una situazione senza uscita. Mi permetto però di chiedere al lettore un attimo di pazienza e concentrazione per riflettere sul modus operandi delle forze armate israeliane (che, con tragica ironia, si autodefiniscono IDF, Israeli Defence Forces, Forze israeliane di autodifesa). Il nome in codice dell’operazione a Gaza è Shield and Arrow (Scudo e Freccia) e, a giudicare dai risultati, sembrerebbe coronata da successo visto che, al momento di scrivere, cinque pericolosi terroristi sono stati eliminati.

Bombe sulla Jihad

Come tutti sanno, negli ultimi anni la lotta contro la mafia in Italia ha colto successi significativi, incluso il recente arresto di Matteo Messina Denaro. Ma cosa direste se qualche ministro col pelo sullo stomaco proponesse di combattere il terrorismo mafioso bombardando i covi dove si nascondono i capi? Uno Stato di diritto non potrebbe mai accettare di ricorrere a mezzi così brutali che hanno inoltre la controindicazione di fare innumerevoli vittime collaterali. Eppure, è esattamente quello che Israele fa da anni, senza che ci siano proteste o vengano sollevati dubbi sulla liceità di tali operazioni. I cinque militanti accusati di terrorismo che, per la cronaca, si chiamavano Jihad Shaker al-Ghannam, Khalil Salah al-Bahtini, Tariq Mohammed Ezzedine, Ali Ghali e Ahmed Abu Daka, sono morti nel crollo dei loro appartamenti colpiti dai missili israeliani insieme alle loro mogli e figli. Sì, le donne e i bambini (o bambine, il dato non è stato reso noto) morti nel bombardamento erano mogli e figli dei jihadisti, una colpa terribile per l’esercito israeliano che va pagata con la vita. Questa si chiama “lotta al terrorismo”.

Bandiera della Jihad islamica in Palestina, un movimento che, molto velleitariamente, si ripropone la distruzione dello Stato di Israele (Foto di MrPenguin Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported).

Non dobbiamo poi meravigliarci che le Brigate al-Quds dichiarino: “Noi affermiamo che il sangue dei martiri rafforzerà la nostra risoluzione. Non abbandoneremo le nostre posizioni e, se Dio vuole, la resistenza continuerà”. A questi propositi ha risposto il testosteronico Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu secondo il quale “il Paese è preparato a tutte le possibilità” e ha aggiunto minaccioso: “Suggerisco ai nostri nemici di non metterci alla prova”. Durante la riunione di Gabinetto per affrontare i problemi di sicurezza, Netanyahu aveva detto: “Il nostro principio è chiaro: chiunque ci attacchi riceverà una risposta ancora più forte”. Una delle vittime del 9 maggio si chiamava Jamal Khaswan, un noto dentista che aveva anche la cittadinanza russa e che ha avuto la sfortuna di abitare vicino ai uno dei bersagli. Nell’attacco hanno perso la vita anche sua moglie Mervat e il loro figlio 21enne Youssef. Due altri figli sono sopravvissuti e le urla di disperazione di Diala, una bambina di 10 anni, di fronte alla sua casa distrutta hanno fatto il giro della rete.

Secondo la stampa israeliana i missili contro Israele sono stati lanciati principalmente dalla Jihad islamica, mentre Hamas, che controlla la Striscia di Gaza ed è legato a doppio filo all’Iran, si è limitato a parole di fuoco ma a pochi lanci, visto che conosce benissimo il divario esistente tra la potenza di fuoco israeliana e quella dei militanti palestinesi. Gli scontri erano iniziati dopo che il 2 maggio Khader Adnan, un dirigente della Jihad in carcere in Israele, era morto a causa di uno sciopero della fame durato 87 giorni. I razzi partiti dalla Striscia di Gaza sono arrivati a 800 ma hanno prodotto pochi danni perché la maggioranza è stata intercettata da Iron Dome, il moderno sistema antimissilistico messo a punto da Israele con un massiccio sostegno statunitense. Molti razzi sono ricaduti sul territorio di Gaza, mentre altri hanno colpito località disabitate. Ai morti e feriti palestinesi, a cui vanno aggiunti due altri militanti assassinati a Qabatya, nella Cisgiordania occupata, fanno da contrappeso un morto e due feriti nella cittadina israeliana di Rehovot (oltre a due persone che si erano ferite mentre correvano verso i rifugi). E questo dice tutto sui rapporti di forza nella regione.

 Israele combatte o alleva terroristi?

 Dopo le incursioni aeree, tuttora in corso, possiamo trarre due conclusioni di massima. La prima è che la superiorità militare e tecnologica dello Stato ebraico è schiacciante. Tramite la sua rete satellitare e spionistica Tel Aviv conosce sia la Striscia di Gaza che la Cisgiordania centimetro per centimetro. Individua e segue i singoli spostamenti di tutti i militanti, sa dove dormono e dove risiedono e, grazie alla sua impunità internazionale, riesce a eliminarli a colpo sicuro, senza preoccuparsi troppo delle vittime collaterali. Il secondo punto è forse ancora più importante perché la linea delle ritorsioni brutali viene applicata dalla nascita dello Stato di Israele, nel 1948, ma in tanti decenni non ha debellato in alcun modo il terrorismo. Tanta violenza è crudele e inumana ma, soprattutto, è completamente inutile perché non fa altro che alimentare la spirale di odio. Le case dei palestinesi accusati di terrorismo vengono rase al suolo, i loro oliveti vengono estirpati e i campi devastati. Sono misure inconcepibili in qualunque nazione civile e questo non fa altro che accrescere ulteriormente la rabbia e la violenza.

A parte alcuni casi gravissimi, lo Stato di Israele ha abolito la pena di morte dal 1954 ma, in realtà, le esecuzioni avvengono quasi tutti i giorni e sotto gli occhi di tutti. Sono semplicemente esecuzioni extra-giudiziali, contro adolescenti che tirano pietre, militanti sospettati di voler compiere attentati, vittime collaterali di operazioni dell’esercito, oppure giornalisti che intendono testimoniare la ferocia dell’occupazione militare israeliana. L’11 maggio 2022 veniva assassinata a Jenin in Cisgiordania Shireen Abu Akleh, una giornalista palestinese naturalizzata americana che lavorava come corrispondente della rete televisiva Al Jazeera. Secondo un’indagine condotta dalla TV statunitense CNN, Abu Akleh sarebbe stata deliberatamente assassinata da un cecchino dell’esercito israeliano e il giorno dei suoi funerali la polizia israeliana ha aggredito con calci e manganellate le persone intorno alla bara.

Shireen Abu Akleh (1971-2022), nata a Gerusalemme in una famiglia araba cristiana, dal 1997 era la corrispondente in Palestina dell’emittente araba Al Jazeera. Stava svolgendo il suo lavoro nel campo profughi di Jenin, la scritta Press ben in evidenza, ma questo non ha impedito a un cecchino israeliano di colpirla a morte.

La scelta deliberata di privilegiare l’uso della forza militare a scapito di qualunque approccio negoziale si è ulteriormente rafforzata dall’insediamento dell’ultimo governo di Benjamin Netanyahu, il più a destra da sempre (vedi il mio articolo del 31 gennaio 2023). La presenza di ministri apertamente razzisti nel governo di Tel Aviv ha fatto sì che anche l’Unione Europea, non certo un leone nelle questioni internazionali, prendesse una posizione netta a questo proposito. La rappresentanza UE in Israele ha infatti cancellato la cerimonia diplomatica prevista per la Giornata dell’Europa del 9 maggio alla quale avrebbe dovuto partecipare Itamar Ben Gvir, ministro per la Sicurezza nazionale e capo del partito di estrema destra Otzma Yehudit. La delegazione della UE ha scritto su twitter: “Sfortunatamente, quest’anno abbiamo deciso di cancellare il ricevimento diplomatico poiché non vogliamo offrire una piattaforma a qualcuno le cui opinioni contraddicono i valori rappresentati dalla UE”. Meglio tardi che mai, potremmo dire.

Come se non bastasse l’aggressione russa all’Ucraina, il clima in Medio Oriente rischia di tornare rovente ancora una volta perché diverse svolte recenti hanno modificato il contesto politico. In primo luogo, il riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita mediato da Pechino ha rafforzato Teheran, che ha stretti legami politici ed economici sia con Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, che con la Jihad islamica. Questo è un colpo alla strategia israeliana di isolare l’Iran tramite gli “Accordi di Abramo”. Un ulteriore smacco è la riammissione del dittatore siriano Assad (in ottimi rapporti con gli ayatollah) all’interno della Lega araba, che ha solo un ruolo formale ma consente al governo di Damasco di rientrare nel giro dei Paesi arabi. Se aggiungiamo anche le crescenti tensioni interne ad Israele, che da mesi vede scendere in piazza ogni sabato decine di migliaia di cittadini che contestano il governo Netanyahu, abbiamo una miscela esplosiva. Il Ministro della sicurezza nazionale è un estremista fanatico che farà tutto meno che gettare acqua sul fuoco. Il rischio è che, per distogliere l’attenzione dalle difficoltà del governo, Itamar Ben Gvir lanci operazioni che radicalizzino ulteriormente le forze palestinesi, con risvolti drammatici per tutti.

(La foto di copertina è tratta da un articolo di Simonetta Clucher dell’8 novembre 2020 apparso sul sito sullestradedelmondo.it)

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