Il volume di Giorgio Gualdrini, Trittico delle cose ultime. Grünewald, Raffaello, Holbein, è il frutto di oltre un decennio di ricerca su tre celebri dipinti di straordinaria rilevanza. Come è richiamato nella Prefazione da Mons. Castellucci: «Questo volume attiva il cervello e il cuore, emoziona e commuove, fa riflettere e ragionare. Il fascino drammatico della Crocifissione di Grünewald a Colmar, insieme alla Madonna Sistina di Raffaello a Dresda e al Cristo nella tomba di Hans Holbein a Basilea, magistralmente scandagliati dall’autore di questo libro, in compagnia di centinaia di altre opere menzionate e inquadrate, spesso con poche incisive parole, rende l’opera dell’architetto Gualdrini un poema della bellezza sofferente. Di questo “trittico” l’Autore indaga non soltanto i più profondi significati, sotto il profilo iconografico e simbolico, ma anche l’inesauribile “storia degli effetti” generata dai tre dipinti lungo i secoli nei diversi ambiti della cultura umana: artistico, letterario, filosofico, biblico, teologico, spirituale. Le diverse tappe di questo intenso e affascinante percorso interpretativo sono scandite dalle incalzanti domande di senso, punti interrogativi conficcati nella linea d’intersezione tra la terra e il cielo, tra il “tempo penultimo” e il “tempo ultimo”. Meditando e contemplando queste tre icone della modernità, l’opera alimenta e orienta il nostro pensiero verso le “cose ultime”, ma ci sollecita anche a riconsiderare la dignità delle “cose penultime”, nella consapevolezza che la personale “coscienza della fine” genera un proprio modo di “stare al mondo”».

Oltre alla Prefazione di Mons. Erio Castellucci, il volume reca una Postfazione di Piero Stefani e Note di lettura di Gabriella Caramore e Maurizio Ciampa.

Traiamo di seguito un’ampia citazione dalla Prefazione di Mons Erio Castellucci, teologo e saggista, arcivescovo di Modena, abate di Nonantola e vescovo di Carpi nonché vicepresidente della Conferenza episcopale italiana, pubblicata anche sulla rivista il Regno, n 8 del 15/04/2023:

Capita raramente che nello stesso libro s’intreccino le vicende e i ricordi personali con la critica letteraria e artistica, la teologia con la filosofia, la Bibbia con la storia civile: e il tutto con un’accuratezza, una documentazione e una scorrevolezza eccezionali. Leggendo questo Trittico delle cose ultime dell’architetto Giorgio Gualdrini, ho pensato più volte al genere letterario dello Zibaldone; genere che, a dispetto del senso peggiorativo assunto dal termine, indica leopardianamente una raccolta densa di pensieri fondati, suggestivi e stimolanti; oggi si direbbe un brainstorming.

Questo volume attiva il cervello e il cuore, emoziona e commuove, fa riflettere e ragionare. Lo si può leggere anche come una raccolta di «trattatelli», di nuovo in senso totalmente positivo: ciascun capitolo infatti tratta in maniera monografica un argomento, per cui il lettore interessato a un tema specifico lo può leggere anche come se fosse un volumetto a sé stante.

La lettura integrale tuttavia, benché impegnativa, ripaga abbondantemente l’impegno; il corredo iconografico, che comprende anche i ritratti e le fotografie di molti degli autori menzionati, rende ancora più appassionante l’opera. Ciascun lettore, come sappiamo bene dall’ermeneutica filosofica antica e moderna, mette anche sé stesso nel testo che legge. L’autore, certamente, ne è il padre; ma poi il testo è un figlio che incontra tanti amici, i quali ne attivano significati e intenzioni che sfuggono allo stesso padre.

L’intentio auctoris rimane un punto di riferimento imprescindibile per l’interpretazione del testo; il quale tuttavia s’apre ad altri sensi, che vengono estratti via via dai lettori. Spero così che l’architetto Gualdrini mi perdoni, se propongo l’individuazione di un fil rouge, all’interno della sua straordinaria opera, senza averne verificato con lui la plausibilità.

Si tratta della relazione tra bellezza e sofferenza, che mi sembrano le due grandezze, anzi direi i due misteri principali trattati nel volume. Due misteri o uno solo? Non anticipiamo la conclusione, che il lettore scoprirà da solo leggendo il libro.

Quale bellezza salverà il mondo?
Da parte mia, vorrei unicamente offrire uno spunto, a partire da un famo-issimo passaggio di Dostoevskji, autore amatissimo anche dall’architetto Gualdrini e più volte citato nel suo libro. Si tratta della domanda sulla bellezza salvifica, posta e ripetuta con sarcasmo dal giovane Ippolit, agnostico e malato di tisi, al principe Myškin, che lo aveva accolto in casa sua e assistito, in quel magnifico romanzo che è L’idiota: «“È vero, principe, che voi diceste un giorno che il mondo lo salverà la bellezza? Signori – gridò forte a tutti – il principe afferma che il mondo sarà salvato dalla bellezza. E io affermo che questi giocosi pensieri gli vengono in mente perché è innamorato. Signori, il principe è innamorato; poco fa, appena è entrato, me ne sono convinto. Non arrossite, principe, se no mi farete pena. Quale bellezza salverà il mondo? Me l’ha riferito Kolja… Voi siete un cristiano zelante? Kolja dice che vi qualificate cristiano”. Il principe lo considerava attentamente e non gli rispose».

Il grande scrittore russo era attratto dalla bellezza; ma nessuno meglio di lui ha descritto le zone più brutte e tenebrose del cuore umano, come dimostra- no i suoi Racconti del sottosuolo e l’impressionante romanzo Delitto e castigo.

Su questo brano sono state scritte molte pagine e sono state offerte diverse interpretazioni. Per inquadrarlo nel modo giusto, e cercare di comprendere «quale bellezza salverà il mondo», è utile tenere presente che per Dostoevskij il principe è un uomo «assoluta- mente buono» (Leone Ginzburg), in cui non c’è traccia di egoismo, di superbia o di peccato. Si potrebbe forse dire, ed è stato detto, che Myškin per lo scrittore è Gesù che si ripresenta dopo oltre 18 secoli.

Quale bellezza, allora, salverà il mondo?

Nell’ambiente filosofico antico, greco e romano, la bellezza era essenzialmente armonia, cioè ordine delle parti. Mentre nel mondo mitologico non era tematizzata l’idea della bellezza – nella mitologia prevaleva l’istinto, il disordine – in quello filosofico venne molto apprezzata e approfondita. Per usare i termini di Nietzsche, il dionisiaco non apprezza la bellezza come invece fa l’apollineo. La bellezza dei filosofi è prima di tutto un ordine esteriore, che poi verrà chiamato estetico, presente nei corpi grandi o piccoli, come l’uomo e il cosmo, unito a un ordine interiore o etico, presente nella mente e nello spirito.

I due maggiori filosofi greci, Platone e Aristotele, presentano da due differenti punti di vista questa idea «armoniosa» del bello. Platone ritiene che le cose visibili siano belle nella misura in cui imitano, sempre in maniera imperfetta, le idee celesti; e viceversa, quindi, nella bellezza delle cose l’uomo trova il punto di partenza per il «ricordo» e la contemplazione delle sostanze ideali (cf. Fedro 251a).

Aristotele propone d’individuare la bellezza nella proporzione: il bello è per lui ordine, grandezza adatta a essere abbracciata da un solo colpo d’occhio (cf. Poetica 1450b-1451a). E lo stesso Aristotele impostava la sua etica sull’i- dea del «giusto mezzo» (mesotes), dell’equilibrio e armonia tra i due estremi da evitare (cf. Etica Nicomachea 1106a-b).

La bellezza come armonia

Cicerone, che è latino ma spesso pensa alla maniera greca, interpreta molto bene i due livelli del bello, quello estetico e quello etico, quando scrive: «Come nel corpo esiste un’armonia di fattezze ben proporzionate, congiunta con un bel colorito, che si chiama bel- lezza, così per l’anima l’uniformità e la coerenza delle opinioni e dei giudizi, congiunta a una certa fermezza e immutabilità, che è conseguenza della virtù, contiene l’essenza stessa della virtù, si chiama bellezza» (Tusculanae disputationes IV , 13,31).

La bellezza/pulchritudo per Cicerone è il contrario della frantumazione, della dispersione: la bellezza interiore, in particolare, è unità delle funzioni dell’animo – intelletto, volontà, affetti – che si manifesta nell’armonia che l’uomo sperimenta dentro di sé.

La bellezza intesa come armonia ha poi avuto, nel mondo antico, diverse espressioni, le più note delle quali sono la musica, la matematica e l’arte figurativa. Sembrano tre discipline molto diverse tra di loro, ma in realtà anticamente erano molto unite. Se qualcuno ha letto – o tentato di leggere – il trattato De musica di sant’Agostino, si sarà imbattuto in un inaffrontabile testo d’aritmetica, quasi interamente dedicato a stabilire le proporzioni numeriche tra i suoni.

Del resto le tre espressioni – musica, matematica e arte figurativa – erano legate al canone detto «sezione aurea» o «canone di bellezza», la proporzione numerica che dava la costante di 1,618 come numero che stabiliva il rapporto tra le parti. Già i babilonesi e gli egiziani utilizzavano questo rapporto nella pittura e nell’architettura e i greci lo utilizzarono nella geometria. Nel Rinascimento, poi, divenne un canone diffuso nella pittura: pensiamo a Leonardo Da Vinci, che lo applica tra l’altro a due famosissime opere: il volto della Gioconda e l’uomo di Vitruvio.

Al di sotto di queste armonie c’è un presupposto derivante dalla filosofia: la realtà è ordinata, è armonia, è logos.

[…]

Giorgio Gualdrini, Trittico delle cose ultime. Grünewald, Raffaello, Holbein.

Pazzini Editore, pagine 560, euro 32,00

L’Autore: Giorgio Gualdrini è architetto e si è dedicato prevalentemente a interventi di restauro e di recupero nei centri storici. Nel 1990 si è aggiudicato il Primo Premio al “Concorso Nazionale per il riassetto del presbiterio della Cattedrale di Faenza”. Nell’anno 2000 ha redatto il progetto di restauro e allestimento del Museo Diocesano nel Palazzo Episcopale di Faenza seguito dalla pubblicazione dei volumi Museo, arte sacra, città (2011), Dalle chiese al museo (con A. Tambini, 2012) e The Diocesan Museum. Artworks and places, in Religion and Museums. Immaterial and material Heritage, a cura di V. Minucciani (Allemandi, Torino, London, New York, 2013). Ha affiancato all’attività professionale una personale ricerca sull’arte figurativa, con frequenti incursioni anche nel campo della filosofia e della teologia. Ha pubblicato fra gli altri: Lo spazio dell’incontro con l’altro. Architettura e rito (1995). Al restauro in architettura ha dedicato il libro Ritornare ad Itaca? (1999). Ha inoltre affrontato i temi della storia urbana e del paesaggio ed ha scrutato il rapporto fra i bambini e la città pubblicando Appunti per una urbanistica raccontata ai ragazzi (1990), con prefazione scritta dall’architetto Giovanni Michelucci.

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