Pace. Più tuonano vicino le esplosioni del conflitto, più se ne sente il bisogno, più se ne parla. Più chi ha a cuore i destini dell’umanità cerca di trovare vie di dialogo al fine di far tacere le armi. Più si presentano incombenti, ineludibili, le cause del conflitto. C’è ingiustizia a questo mondo.
Ci sono oggi anche i luoghi dove le differenze potrebbero essere discusse e appianate, ma evidentemente le varie articolazioni istituzionali sorte con la conferenza di San Francisco del 1945 non sono sufficienti.
Anche l’Unione Europea, esattamente come l’ONU, nasce col preciso intento di privilegiare le ragioni che uniscono i Paesi al fine di stornare le minacce di nuove guerre.
Anche le marce di Assisi che nascono dall’impegno al dialogo tra le religioni, si fondano sul comune impegno alla pace, riconoscendo in questa un valore supremo, irrinunciabile per tutte le religioni.
Ma tutto questo non è riuscito sinora a scalzare l’aggressività che caratterizza le istituzioni politiche di nazioni, imperi e gruppi di potere variamente conformati. E bisogna constatare che la storia è un seguito di guerre: così la si studia, ed è pure vero che sempre c’è stato anche l’anelito alla pace, ma questo non è mai stato sufficiente.
Dunque, pur coltivando l’ambizione alla pace e insistendo nella ricerca di quel che unisce attraverso i tanti strumenti di dialogo attivati in particolare dopo la Seconda guerra mondiale, perché non accettare il fatto che, così come si constata da Caino in poi, mai l’umanità è stata in grado di trovare condizioni in cui per i motivi più diversi, singole persone non compissero crimini contro i loro simili? Perché non accettare che la guerra, manifestazione collettiva dell’aggressività che cova nell’animo umano, forse un giorno potrà sparire (mai perdere la speranza) ma per ora dobbiamo accettare di convivervi, così come pur lottando contro il male è inevitabile accettare il fatto che questo persista nell’animo delle persone e nelle manifestazioni sociali?
L’accettazione della guerra non è in contraddizione con l’ambizione alla pace. Anzi, può portare a esplorare una via nuova: quella di trovare i modi per combattere le inevitabili guerre in modo diverso. Non inteso a cancellare l’altro, ma solo a convincerlo delle ragioni proprie. Come si fa in una disputa accademica. O come si fa in una partita di scacchi o in una competizione sportiva. Insomma mettere al bando non la guerra, ma il modo cruento di combatterla. Volgere gli organismi internazionali ad imporre il rispetto del quinto comandamento, lasciando bensì la libertà di muovere guerra, che comunque persiste “a prescindere”, ma con altri mezzi che siano giudicati leciti.
Così da accontentare i vari dittatori e fanatici che son sempre esistiti e a quanto pare sempre esisteranno, ma costringendoli a sfogare le loro ambizioni entro canali che richiedono sforzo, impegno, fatica ma non si traducono in uccisioni. Abolire non la guerra, che è impossibile, ma i suoi effetti nefasti, cioè le uccisioni e le distruzioni indiscriminate. Forse questo è possibile.
Non solo, ma la cibernetica e la robotica potrebbero consentire proprio di condurre guerre in forma di scontri gladiatori tra prodotti tecnologici delle varie parti in causa: un po’ come già avviene nelle contese in campo finanziario o politico. Così in ogni caso ci sarebbe bensì violenza e spettacolo, ma non si distruggerebbero se non le macchine preposte a questa bisogna.
Certo, si tratterebbe di accordarsi sulle condizioni finali dei conflitti così condotti e risolti: si tratterebbe sempre di manifestazioni di potere, di acquisizione di territori o ricchezze tangibili, propio come sono i risultati delle contese combattute sui mercati finanziari. Ci sarebbe sempre in fondo la prevaricazione del prepotente sul più debole. Ma almeno si salverebbe la vita e la libertà. Almeno il conflitto sarebbe convogliato entro i limiti di accordi condivisi.
Certo, dovrebbero essere condivisi tali accordi e tali limiti, ma la prospettiva di possibili vittorie potrebbe convincere tutti i facinorosi che comunque ne trarrebbero vantaggio e correrebbero meno rischi di perdere fama, gloria e stima – per dire, riferendosi alla guerra in Ucraina: ora Putin non può retrocedere perché perderebbe la faccia e si scatenerebbe la corsa alla successione, né Zelensky può arrendersi perché ci sono troppi morti, troppe ferite nel corpo della nazione che gridano vendetta. Ma se la disputa fosse stata condotta in modo tale che né l’uno né l’altro avessero sulla coscienza tanto sangue versato e tante energie sprecate, potrebbero seriamente pensare di accordarsi sulla base del modo in cui le rispettive forze si sono comportate sul terreno di una guerra che sarebbe somigliata più a un gioco, per quanto serio, che alla carneficina, sempre più crudele, che si sta protraendo.
Accordarsi su un nuovo tipo di guerra incruenta permettere anche a chi facinoroso non è di organizzarsi per contrastare meglio, con la l’intelligenza e la forza della tecnologia, chi si arma anzitutto di arroganza.
La condivisione di regole per confliggere senza uccidere sarebbe un primo passo verso una pace che, per quanto lontana nel tempo, sarebbe forse a quel punto possibile. L’istinto violento che cova negli animi non verrebbe represso, ma soltanto incanalato in modalità espressive più coerenti con un mondo civilizzato.
I pacifisti potrebbero continuare a parlare di pace, i guerrafondai di guerra, ma ci si farebbe meno male. I mercanti d’armi potrebbero continuare a vendere armi, ma sarebbero armi intese solo a distruggere altre armi, non a uccidere esseri umani. L’industria degli armamenti continuerebbe a essere un fattore trainante per la ricerca tecnologica. Il mondo degli affari continuerebbe a fare affari. Le élite continuerebbero a vivere nel loro iperuranio privilegiato.
Insomma, cambierebbe solo un particolare, ma non secondario: il rispetto per la vita verrebbe riconosciuto come prevalente su tutto il resto.
Certo, siamo sempre nel campo delle utopie, ma forse un gradino meno utopiche della pace perpetua pur con tanta buona volontà tratteggiata da Kant a suo tempo.
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