di Paolo L. Bernardini

A Maid M.

Eugenio Montale morì a Milano il 12 settembre 1981. Un mese esatto prima di compiere ottantacinque anni. Io, allora adolescente, avrei dato ogni cosa per poterlo conoscere di persona, come ebbi la fortuna di fare con altri genovesi e liguri illustri, Edoardo Sanguineti, Luciano Berio, Fabrizio de Andrè, Renzo Piano, Vittorio Gassman e numerosi altri.

Ma non ce la feci.

Tra le sue ultime opere, in ogni senso e modo piene di quella libertà che dà solo, forse, il crepuscolo della vita, il Quaderno di quattro anni, del 1977: poesie che a quattordici anni divoravo, cercando, come tutti gli adolescenti, o quasi, un senso alla vita, e alla morte, allora ipotesi così remota, nella poesia.

Feci poco caso, a quel tempo, a quei versi buttati lì quasi casualmente, con sublime sprezzatura, di ardua interpretazione, idiosincratici anzi, con quel riferimento al “cibo” che sa, o mi sapeva, perlomeno, di taverne maleodoranti o mense miserabili.

Sono sempre d’avviso

Che Shakespeare fosse una cooperativa

Che per le buffonate si serviva

Di cerretani pari a lui nel genio

Ma incuranti di tutto fuorché dei soldi

Non può ingoiare troppo la sopravvivenza.

A volte digerisce un plotone, tale altra

Distilla poche sillabe e butta un monumento

Nel secchio dei rifiuti. Produce come i funghi

Puoi trovarne parecchi tutti’insieme, poi resti

A mani vuote per un giorno intero

O per un anno o un secolo. Dipende.

Cosa mi rimase, di queste “storie letterarie”, giusto il titolo della poesia?

Forse nulla, salvo, inizialmente, quell’uso singolare di “cerretano”, inteso come ciarlatano, che si vuole derivi da Cerreto di Spoleto, ove provenivano ambulanti poco raccomandabili, e già nell’Evo Medio. Di “cerretani” parla senza disprezzo Machiavelli, con molto invece Gozzano, “…ogni alloro è premio di colui…che sale cerretano alla ribalta”. E dire che in Italia ben nove comuni portano il nome di Cerreto e una vendita di frazioni, senza contare un passo appenninico da me varie volte valicato, e perfino un comune in Croazia, e due monti.

A chi dunque voleva riferirsi Montale parlando di un “cerretano” sodale di Shakespeare? Quale messaggio cifrato voleva far passare l’anziano poeta? Chi tra i possibili pretendenti alla “authorship” delle opere di Shakespeare poteva essere passato, per uno dei tanti Cerreto italiani, o perfino nato in uno di essi? Cerreto Guidi, magari, non lontano da quella Firenze ove nacque Michelangelo Florio?

In ogni caso, forse per un’innata antipatia per le Coop già allora dominanti nel territorio ligure e non solo, mi parve strano che proprio ad una “cooperativa” fosse assimilabile il bardo di Stratford, e dunque pensai che Montale, in genere d’umor malinconico, fosse stato proprio di pessima mina per buttar giù questi versi, e addirittura (farci) dubitare che niente meno che il padre della letteratura inglese altro non fosse che una bieca cooperativa, un associazione per scrivere, un’impresa commerciale, ove i libro contabili erano molto più abbondanti e importanti dei copioni.

Riflettei anche però, negli anni, sul verso iniziale: “Sono sempre d’avviso…” Ma allora non è una semplice boutade dettata da anzianità e cattivo umore e troppo lunga e amorosa frequentazione con Shakespeare stesso, splendidamente tradotto dal poeta genovese. No, in effetti l’idea è di lunga data: risaliamo al 1951, quando Montale sostiene che sotto il nome di Shakespeare vi sarebbe stato Lord Darby, e una “cooperativa [sic] di autori elisabettiani”. Orbene, dal 1951 occorre risalire ancora, e molto: alla giovinezza di Montale, addirittura al 1917, quando J. M. Robertson pubblicò Shakespeare and Chapman, sostenendo questa tesi, poi ripresa in The Shakespeare Canon (1922-1932), cui Montale fa riferimento nel 1951. La vera identità di Shakespeare evidentemente lo ha sempre ossessionato. E non poteva essere altrimenti, data la sua squisita sensibilità.

Si era negli anni che precedettero quelli della “perfida Albione”, di Mussolini in gara con l’Inghilterra, anche nel corso dei cambi, la famosa quota 90 (sulla sterlina) cui il Duce voleva portare la lira. Insomma, sarebbero stati anche tempi favorevoli sia per de-costruire l’identità di Shakespeare, prima operazione, e seconda, ancor più patriottica (ad uno sguardo superficiale, però), per (non solo) identificare Shakespeare con qualcun altro, ma anche con qualcuno, uno o più d’uno, che non fosse inglese…ma italiano!

E magari fiorentino, poi perfino di origini ebraiche! Siamo tra la Scilla di uno Shakespeare-non-Shakespeare inglese e collettivo, e la Cariddi di uno Shakespeare-non-Shakespeare italiano, e individuale (intuitivamente propenderei per una joint venture italo-inglese ove ognuno ci metteva del proprio, ma siamo nel regno o bosco delle ipotesi, qui particolarmente fitto).

Proprio a Scilla nasce Santi Paladino, nel 1902, giornalista, scrittore di fantascienza, figura ancora tutta da scoprire, che vide forse fanciullo il terremoto del 1908, e che nel 1927 avrebbe provocato da par suo un piccolo sisma sostenendo per primo che Shakespeare sarebbe stato in realtà Michelangelo Florio, figura di gran fascino, eretico in carcere e in fuga perpetua, fiorentino, ma vissuto per qualche anno a Londra, e padre di quel John che ora i “negazionisti”, ovvero coloro che credono che Shakespeare sia il nom de plume di qualcun altro, vedono come il vero autore, o l’autore principale, del corpus shakespeariano.

Ritratto di John Florio. Di William Hole – Queen’s Anna New World of Words, 1611, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=91425297

Che come Montale Paladino credesse a lungo a questa sua ipotesi è testimoniato dal fatto che la avanzò nel 1927, e la ribadì in un libretto del 1955, Un italiano autore delle opere shakespeariane: saggio, stampato a Monza. Due anni dopo avrebbe pubblicato con l’inverosimile pseudonimo di “Delta Billy” un romanzetto di fantascienza, “Oltre l’apocalisse”. Riprese anche l’articolo pubblicato nel 1927 già nel 1929, ampliandolo nel libretto Shakespeare sarebbe il [sic] pseudonimo di un poeta italiano (Reggio Calabria, Casa Edit. Borgia Edit. Tip., 1929).

Santi Paladino creò anche una “Accademia shakespeariana” per sostenere le sue tesi, che in teoria avrebbero dovuto esser gradite al Regime, il quale invece la fece brutalmente subito chiudere nel 1929, l’anno in cui era stata aperta. Ma allora i rapporti Italia-Inghilterra erano quasi idilliaci, e lo saranno ancora a lungo, con Churchill gran sostenitore di Mussolini: il 20 gennaio del 1927, ad esempio, Churchill tenne una (celebre) conferenza stampa a Roma alla presenza felice del Duce, e apertis verbis affermò: «Non posso fare a meno di essere affascinato, come è accaduto a tanta altra gente, dalle semplici e naturali maniere di Mussolini…Se fossi un italiano, sono sicuro che sarei stato con voi (riferendosi a Mussolini) con tutto il mio cuore, dall’inizio alla fine della trionfante lotta contro gli appetiti bestiali e le passioni del leninismo». Sul tema rimando al bel lavoro di Mario Josè Cereghino e Giovanni Fasanella, Nero di Londra (Chiarelettere, 2022).

Insomma, scrivere nel 1927 un articolo su “L’Impero” poi, ove si sostiene l’italianità e dunque la non-esistenza di Shakespeare come scrittore, poteva ben irritare il regime, molto più rispetto a critici inglesi che sostenevano che Shakespeare in realtà fosse un nom de plume sì, ma per nascondere l’identità di un altro inglese! Insomma un family business. Sostenuto in Inghilterra, e in America addirittura, da Delia Salter Bacon, singolare figura di intellettuale ancora poco studiata, prima che scoppiasse la guerra civile (la Bacon, nata nel 1811, morì nel 1859).

Paladino morì lo stesso anno di Montale, nel 1981. Ora, nel 2023, cade il quarto centenario del “first-folio”, la prima edizione delle opere di Shakespeare.

Ne è passata di acqua sotto i ponti dell’Avon!

Nel frattempo la letteratura si è arricchita di opere che con molteplicità di argomenti non solo negano la “authorship” del corpus shakespeariano a Shakespeare, ma la attribuiscono a Giovanni (John) Florio, il figlio di Michelangelo. Lamberto Tassinari nel 2009, con un libro ponderoso e ricchissimo di argomenti; Saul Gerevini l’anno prima, e ora con perizia linguistico-filologica Laura Orsi, che sta per pubblicare una concordanza frutto di anni di lavoro, col padre Giuseppe Orsi, che riguarda la lessicografia di Florio e Shakespeare, ovvero la presenza di vocaboli del dizionario del primo nelle opere del secondo. Sarà una grande sorpresa, credo, per molti studiosi. Il libro è in uscita per inizio 2024 ma Laura Orsi ha già pubblicato diversi lavori a sostegno della propria tesi (vd. soprattutto L. Orsi, “William Shakespeare e John Florio: una prima analisi comparata linguistico-stilistica”, Atti e Memorie dell’Accademia Galileiana CXXVIII, 2015-2016, Parte III: Memorie della Classe di Scienze Morali, Lettere ed Arti, pp. 139-280).

Non solo, ma una giovane appassionata anglista, Marianna Iannaccone, si è data da un decennio allo studio approfondito di John Florio, ma cautamente ancora non si sbilancia su una eventuale identificazione di John con Shakespeare, come fanno i più “radicali” Gerevini, Tassinari, Orsi e come fece (ma per il solo Michelangelo) Palladini.

Iannaccone si pone sulle tracce sia del classico di Francis Yates, del 1934, sia su quelle più recenti di Carla Rossi, autrice di Italus ore, Anglus pectore, Nuovi studi su John Florio (Vol. 1, Londra, Thecla Academic Press, 2018). Per ora Marianna cerca di penetrare a fondo nella personalità del giovane Florio: di cui ha anche curato un’edizione delle poesie italiane e inglesi. La studiosa ha poi appena contribuito brillantemente al volume di Umberto Mojmir Ježek, Chi ha scritto Shakespeare? (Graus Edizioni, Napoli 2023), che mi ha dato peraltro l’occasione immediata per la stesura di questo intervento.

Che significato ha tutto questo?

Ora, personalmente mantengo una cauta neutralità, ma non posso non rilevare la pura e semplice grandiosità della questione. Ovvero, da un lato vi sono alcuni che vedono queste posizioni come “eresie”. Come ogni dogmatico, difendono il dogma come si difende l’esistenza di Dio. Così è, e al rogo chi lo nega. Ma pur con tutta la reverenza per Shakespeare, costui non è Dio e se liberamente qualcuno pone in dubbio l’esistenza di Dio, e nessuno porta più fascine ai roghi, ebbene non vi è nulla di male nel negare (attraverso argomentazioni storiche, linguistiche e insomma in maniera affatto argomentata) non tanto l’esistenza di Shakespeare, quanto il fatto che un attore illetterato e incapace quasi di firmare col proprio nome, sia stato l’autore di cotante opere.

Sono ipotesi di ricerca, fondamentali per gli “studia humanitatis”. Poi, certamente, tutto questo in tempi di Brexit assume un valore ideologico, ma non siamo neppure nel 1927. Insomma, un po’ di liberalismo sarà pur entrato nel circuito europeo dopo il tempo delle grandi dittature e di Auschwitz? O no?

Ci sarebbe da scrivere un libro imparziale sulla storia dei “negazionisti”, “revisionisti”, eretici impuniti che da tempo immemorabile negano che Shakespeare sia l’autore del corpus che gli viene attribuito. Perché dico imparziale? Perché vi sono autori che hanno dedicato importanti sezioni di libri a ridicolizzare costoro, ma con argomenti essi stessi ridicoli. Mi riferisco soprattutto a Bill Bryson, e al suo volume del 2007, poi tradotto in italiano nel 2008: Shakespeare: The World as Stage, New York, Harper Collins, 2007 (Il mondo è un teatro. La vita e l’epoca di William Shakespeare, traduzione di Stefano Bortolussi, Parma, Guanda, 2008). Un libro inconcludente, prima ammette tutte le scarse conoscenze che abbiamo di Shakespeare, poi demolisce le ipotesi che sotto il nome di Shakespeare si nasconda qualcun altro, una cooperativa, un individuo, un inglese, un italiano…

Sic brexit gloria mundi…E allora tutte o quasi le implicazioni generali della non-esistenza di Shakespeare in quanto autore delle opere che gli sono state così dogmaticamente attribuite si amplificano: fino a delineare un conflitto tra British Isles e Continent che si risolverebbe alla fine a favore di quest’ultimo, “il padre della vostra letteratura o Angli era italiano, e quindi la vostra letteratura, tutta la vostra letteratura, è una parte della letteratura italiana, ovvero europea continentale, neo-latina, solo in altra lingua”.

Non è pinzillacchera.

Detto altrimenti, e brutalmente:

Per quanto voi siate usciti dall’Europa, l’Europa è entrata indelebilmente in voi”.

Uno scrittore e mente libera francese, Robert Richard, accademico e autore di diverse opere, tra cui Le corps logique de la fiction (L’Hexagone, 1989), e L’émotion européenne: Dante, Sade, Aquin (Varia, 2004), ha dedicato, sulla rivista “Liberté” (Volume 52, numéro 3-291, 2011, pp. 90-100) una lunga recensione, col titolo L’homme qui était Shakespeare al lavoro di Tassinari del 2009. Uno scritto ove Richard riassume anche bene e sinteticamente i termini della questione, e le varie identificazioni di Shakespeare che si sono succedute. E così, in bel francese, conclude:

Si Lamberto a raison — si, comme il le maintient, Florio est effectivement celui qui a été Shakespeare, alors les conséquences que cela aurait sur l’interprétation du corpus shakespearien seraient énormes. L’œuvre ne serait plus un phénomène à débattre uniquement entre Brits de bonne famille, mais un corps ayant été infecté par un virus venu de loin, venu du continent. Je vous l’avoue: un Shakespeare européen, voilà ce qui m’allume, moi! Cela causerait un séisme violent dans les études shakespeariennes. Cela dit, si vous me demandiez, en me regardant droit dans les yeux, si je suis, moi, convaincu que Florio est «nostre homme» (pour parler comme Raphaël Confiant), je serais obligé de vous répondre que non. Cela pour une raison bien simple : je ne possède tout simplement pas l’expertise me permettant d’émettre un jugement, quel qu’il soit, sur cette histoire. Aussi me suis-je contenté ici de faire état de ce débat. Je peux toutefois témoigner du fait que voici un ouvrage, celui de Tassinari, dont l’érudition et la passion pour le détail — le détail qui pointe, le détail qui démontre — ont de quoi impressionner…”

Se Richard nel 2011 e io modestamente nel 2023 siamo d’accordo nel mantenere una posizione neutra, entrambi perché non addentro abbastanza all’intricata questione, aspettiamo tra l’altro il grande convegno (che sto organizzando all’Insubria di Como) per il quarto centenario della morte di John Florio, nel 2025, per fare finalmente il punto sulla questione: Chi ha scritto le opere di William Shakespeare?

Perché è chiaro che se si pone la questione, si attende anche una risposta che per un po’ almeno rimanga l’ultima. Ma nel porre tale questione non vi è alcun male. In fondo ce la siamo posta per Omero. E se Shakespeare si dissolvesse, rimarrebbero le (sue? di chi?) opere, come rimane l’Antico Testamento indipendentemente sia da chi fossero i suoi autori, sia dal fatto che Dio esista o meno (sia, finalmente, dal fatto che Dio lo abbia scritto Egli medesimo dettandolo ai vari casuali e spesso anonimi Suoi scrivani).

In tempi di post-postmodernità, dissolvere un autore non farebbe che dare un risalto ancora maggiore, posto che ve ne sia bisogno, in questo caso, al corpus delle sue opere. L’Antico Testamento, i poemi “omerici”, e moltissimi altri scritti di culture orientali e occidentali non hanno un autore. Forse meglio così (anche nella tradizione inglese: chi ha scritto Sir Galvano e il Cavaliere Verde?).

In qualche modo sono le opere che hanno scritto Shakespeare, e non il contrario. Già di per sé questo è qualcosa di meraviglioso. Chi dorme sui canoni è già nella tomba.

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