Il presidente Biden ha dichiarato di non avere nessuna intenzione di allargare la guerra tra Israele e Hamas ma i ripetuti bombardamenti sui centri radar e missilistici dei guerriglieri Houthi in Yemen potrebbero portare proprio a ciò che si intendeva evitare. Il Mar Rosso rischia di diventare una zona di guerra con conseguenze drammatiche sul flusso commerciale che passa per il canale di Suez. L’Europa e l’Italia non hanno nessuna strategia per affrontare la situazione e corrono il pericolo di pagare un alto prezzo economico e politico. Un nuovo saggio offre un’analisi molto approfondita sui grandi cambiamenti che hanno modificato radicalmente il Medio Oriente dove le monarchie del Golfo giocano un ruolo determinante, inconcepibile fino a qualche anno fa.
I due autori sono profondi conoscitori del Medio Oriente e, in particolar modo, dell’area del Golfo. Cinzia Bianco collabora con lo European Council on Foreign Relations e il Middle East Institute di Washington D.C., mentre Matteo Legrenzi insegna Scienza politica all’Università Ca’ Foscari di Venezia ed è research associate al Dipartimento di politica e relazioni internazionali dell’Università di Oxford. Vista la gravità della crisi in corso, potremmo dire che questo è il libro giusto al momento giusto perché fornisce una chiave di lettura, chiara e rigorosa, su un’area geografica che ha una grande rilevanza per la nostra economia ma di cui abbiamo una visione che risale a decenni fa. Dopo l’invasione russa dell’Ucraina il mondo è cambiato molto velocemente e in Medio Oriente si sono modificati completamente i rapporti di forza che vedono alcune delle monarchie del Golfo giocare un ruolo che si è allargato al Mediterraneo, all’Africa orientale e all’Asia sud-occidentale.
I nuovi boss
La posizione centrale della Penisola Arabica, all’incrocio tra Europa, Asia e Africa, conferisce ai Paesi che la costituiscono un’importanza strategica significativa nell’era della globalizzazione. Vero e proprio crocevia di infrastrutture critiche a livello globale, attraverso il Mar Rosso e nelle acque territoriali delle monarchie del Golfo scorrono i cavi sottomarini che connettono le reti informatiche di Europa e Asia. Il progressivo disinteresse degli Stati Uniti verso il Medio Oriente che, a partire dall’amministrazione Obama, hanno mostrato di orientarsi sempre più decisamente verso l’Asia, ha convinto le monarchie del Golfo a ridisegnare le proprie alleanze ed elaborare una propria strategia regionale a prescindere dalle scelte americane. Per decenni le monarchie del Golfo hanno avuto politiche estere totalmente appiattite sulla linea della Casa Bianca ma, dopo le primavere arabe del 2011, sono diventate attori di primo piano nelle dinamiche geopolitiche di tutto il Mediterraneo allargato. Questo ha colto l’Italia, ma anche l’Europa, completamente impreparate.
Una delle prime figure a emergere è stato il principe degli Emirati Arabi Uniti (EAU) Mohammed bin Zayed che, nel 2015, ha visto nella nomina di Mohammed bin Salman a viceprincipe ereditario dell’Arabia Saudita un’occasione imperdibile per rafforzare i rapporti tra i due Paesi. La stampa internazionale ha contribuito alla fama della coppia, rinominando il primo MbZ e il secondo MbS. Entrambi i principi avevano l’obiettivo comune di impedire che il principe della corona saudita Mohammad bin Nayef, più vicino a Turchia e Qatar, diventasse re e operavano affinché MbS ne prendesse il posto. «La strategia emiratina – scrivono gli autori- passa dagli Stati Uniti dove sia MbZ che il suo influente ambasciatore Yousef al-Otaiba cominciano a preparare il terreno per un endorsement americano alla figura di Mohammad bin Salman. Sfruttando le strette relazioni personali di vecchia data con Donald Trump – dal 2016 presidente degli USA – e il suo genero-consigliere Jared Kushner, gli emiratini riescono a organizzare un pranzo privato, scavalcando il protocollo, tra MbS e Trump nello Studio Ovale a marzo del 2017».
Due mesi dopo Trump sceglie l’Arabia Saudita per il suo primo viaggio all’estero come presidente e riconferma il proprio sostegno a MbS. Nel giugno del 2017 le pressioni su Mohammed bin Nayef lo costringono ad abdicare così che Mohammed bin Salman diventa principe ereditario dell’Arabia Saudita e uomo forte del regno. La sua posizione non è stata scalfita neppure dallo scandalo dell’uccisione del giornalista saudita Jamal Khashoggi, assassinato da emissari sauditi nel 2018. L’amministrazione Biden aveva però iniziato a trattare con grande freddezza l’uomo forte di Riad, che non si era più recato negli USA. L’invasione russa dell’Ucraina e la conseguente necessità di sostituire il greggio russo con quello di altri produttori aveva però costretto Biden, nel luglio del 2022, a un viaggio in Arabia Saudita dove era stato ricevuto proprio da Mohammed bin Salman. Il presidente statunitense aveva richiesto a MbS di aumentare la produzione di greggio per calmierare il prezzo del petrolio e ridurre le entrate russe. Ma Riad aveva rifiutato e, cosa ancora più grave, aveva iniziato a collaborare con la Russia all’interno di un vasto gruppo informale, denominato OPEC+. Non poteva esserci segnale più chiaro del fatto che Arabia Saudita e Stati Uniti avevano ormai un’agenda diversa.
Lo scontro col Qatar
I Paesi che fanno parte del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, sono molto diversi per storia, dimensioni geografiche, popolazione e ricchezza. Mentre il Kuwai e l’Oman, sono più defilati e meno assertivi, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti sono molto attivi politicamente e hanno da sempre forti divergenze col Qatar a causa delle diverse posizioni verso la Fratellanza Musulmana. Questa potente e ramificata organizzazione dell’islam politico è apertamente sostenuta dal Qatar, che ha pensato di servirsene per riempire il vuoto di potere che si era venuto a creare dopo le primavere arabe del 2011, ma è considerata un’organizzazione terroristica da sauditi e EAU. Nel 2013 sauditi ed emiratini cercarono di sfruttare le difficoltà nella transizione del potere qatarino dall’emiro Hamad bin Khalifa al figlio Tamim bin Hamad, imponendo una serie di accordi che miravano a ridimensionare sempre di più l’assertiva politica di Doha.
Nel 2017, sotto l’influenza determinante di Mohammed bin Zayed, Arabia Saudita, Bahrein ed Egitto (noti come Quartetto) cercano di dare la spallata finale. Il Qatar viene accusato di «sostenere e finanziare il terrorismo, sia quello jihadista sunnita che quello delle milizie sciite proxy dell’Iran, un’accusa di forte impatto sull’opinione pubblica occidentale. In realtà, il principale nodo restava sempre il sostegno alla Fratellanza Musulmana e il rifiuto di Doha di allinearsi alle politiche saudite-emiratine. Questo emerge chiaramente dalle principali richieste fatte al Qatar dal Quartetto nel 2017: la chiusura di Al Jazeera, l’espulsione di ogni membro della Fratellanza Musulmana e di Hamas, la rottura della relazione strategico-militare con la Turchia e la promessa di aderire alle linee politiche del CCG».
Ma l’offensiva non piega l’avversario e, alla fine, grazie all’appoggio di Turchia e Iran, il Qatar riesce a resistere al blocco economico e dello spazio aereo e alle minacce di invasione. Le conseguenze più immediate della crisi del 2017 sulla geopolitica regionale sono l’avvicinamento tra Qatar e Iran e il consolidamento dell’alleanza tra Qatar e Turchia. Il contrario di quello che avevano sperato MbZ e MbS. Tra il 2017 e il 2020, le esportazioni turche verso il Qatar crescono del 48%, e contestualmente aumentano gli investimenti qatarini nell’economia turca nei settori bancario, manifatturiero, immobiliare, turistico, mediatico. La Turchia, rafforzata da questo fondamentale e generoso sostegno, può imbarcarsi con maggiore sicurezza in operazioni militari e strategie geopolitiche lunghe, complicate ed estremamente dispendiose. Il cambiamento del contesto geopolitico ha quindi portato Sauditi ed emiratini a fare marcia indietro. Nel dicembre del 2020 Riad è costretta a chiedere al Kuwait di riaprire i canali con Doha. Inizia una serie di colloqui che portano alla firma dell’Accordo di al-Ula, siglato al termine di un summit annuale del CCG tenutosi nell’omonima località saudita.
Libia, bel suol d’amore
La Libia, che per l’Italia riveste un’importanza strategica, dal punto di vista energetico e come base di partenza dei migranti, è certamente tra i Paesi della regione in cui le monarchie del Golfo, anche se su fronti opposti, sono state maggiormente impegnate dal punto di vista geopolitico e geoeconomico, con impatti che hanno modificato profondamente gli equilibri e le dinamiche dell’area. Questo sviluppo ha già reso, di fatto, le monarchie del Golfo degli interlocutori necessari per l’Italia, nonostante la riluttanza di Roma nell’accettare questa nuova realtà geopolitica. Secondo gli autori, una consapevolezza approfondita delle dinamiche relative all’interesse delle monarchie per la Libia sarebbe condizione necessaria per un’eventuale inversione di rotta da parte del Belpaese.
Bianco e Legrenzi affermano che: «a differenza delle posizioni ultra-conservative tenute in Bahrein, Egitto, Giordania e Tunisia, le monarchie del Golfo guardarono subito alla
primavera libica come un’opportunità per rimpiazzare un rivale di lunga data (Gheddafi) con un nuovo regime a loro alleato. Gheddafi non era stato solo un profondo critico della legittimità delle monarchie del Golfo, ma anche un nemico personale di alcuni regnanti, avendo frequentemente lanciato accuse pubbliche e ordito attentati contro alcuni di essi, incluso un attentato fallito contro il re saudita Abdallah, quando era principe ereditario, nel 2003». Facendo leva sui suoi stretti legami con la galassia islamista, il Qatar concentrò il proprio supporto su gruppi armati legati alla Fratellanza Musulmana, come le Brigate di Tripoli e le milizie afferenti alla città di Misurata, ma anche a organizzazioni collegate ad al-Qa’ida, come il Gruppo libico islamico di combattimento, il cui leader, Abdelhakim Belhaj, divenne poi presidente del Consiglio militare di Tripoli grazie all’appoggio qatarino. Infine, l’impero mediatico di Al Jazeera divenne una cassa di risonanza per idee e gruppi islamisti rivoluzionari libici.
Sauditi ed emiratini avevano invece puntato sul generale Khalifa Haftar e il suo Esercito Nazionale Libico, appoggiato anche da Egitto, Francia e Russia. Haftar presentava la sua campagna come un’offensiva per liberare il territorio dalle forze terroristiche e puntò decisamente sulla capitale Tripoli. L’offensiva di Haftar su Tripoli provocò però la reazione di Doha e Ankara. Il Qatar infatti intensificò l’invio di armi alle milizie che controllava tramite la Turchia. Tuttavia, la svolta giunse solo con la decisione del presidente Erdoğan d’intervenire militarmente in Libia e dell’emiro Tamim di contribuire finanziariamente all’operazione. Come riportano fonti d’intelligence, oltre alla missione stessa, Doha contribuì anche a finanziare l’invio di circa 3.800 mercenari siriani da affiancare alle forze di Tripoli. La cooperazione triangolare si consolidò poi con la firma di diversi patti strategici tra governo di Tripoli, Qatar e Turchia, a cavallo tra il 2019 e il 2020, incluso un accordo di demarcazione delle zone economiche esclusive tra Ankara e Tripoli che teoricamente garantiva alla Turchia sovranità su spazi marittimi rivendicati anche da Egitto e Grecia. La Libia entrava ufficialmente da protagonista nella disputa multilaterale sul Mediterraneo orientale.
In questo nuovo contesto l’Italia, che era il Paese di riferimento in Libia, ha visto lentamente i vari governi che si sono succeduti a Tripoli uscire dalla propria orbita ed entrare in quella turco-qatarina che consolida sempre di più la propria presa sull’area. L’Eni è ancora una presenza ben radicata ma è fortemente indebolito dal fatto che l’Italia non ha mai schierato proprie truppe sul terreno per difendere i propri interessi nazionali e d’altronde, considerato il clima politico che domina Roma, ipotizzare l’invio di militari non in missioni di pace ma per rafforzare la propria influenza è fantapolitica. L’Unione Europea non ha mostrato molta più decisione anche se in «due dei documenti programmatici pubblicati nel 2022 – la strategia energetica REPowerEU e la proposta di partenariato strategico con il Golfo – l’UE ha parlato di come trasformare le monarchie del Golfo in un hub di approvvigionamento di energie rinnovabili e, in particolare, idrogeno verde. In questo senso, Arabia Saudita ed EAU sono stati impegnati in prima fila in dialoghi strategici con la Grecia e altri paesi del Mediterraneo orientale, per iniziare a progettare infrastrutture tipo gasdotti riconvertibili».
Cinzia Bianco, Matteo Legrenzi
Le monarchie arabe del Golfo
Nuovo centro di gravità nel Medio Oriente
Il Mulino, pp. 248 euro 16
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