Quest’anno ricorre il centenario della morte di scrittori importanti come Franz Kafka o Joseph Conrad e di grandi musicisti come Giacomo Puccini e Gabriel Fauré. È stato inoltre un anno di votazioni che ha visto recarsi alle urne quasi la metà della popolazione mondiale (non tutte le elezioni sono state democratiche, purtroppo). Dal 6 al 9 giugno si sono anche tenute le elezioni europee che hanno visto l’avanzata delle forze di estrema destra, anche se la maggioranza continua a essere formata da popolari, socialisti e liberali. Far finta di niente e continuare con la stessa visione del passato sarebbe un errore imperdonabile perché quello che non è più lo stesso è il contesto globale e, se non si cambia radicalmente approccio, il 2024 potrebbe essere ricordato sui libri di storia come l’anno che ha segnato l’inizio della fine del progetto di Unione Europea.

L’angosciante fragilità dell’Europa

Mentre siamo di fronte a un’accelerazione della storia, con drammatiche sfide geopolitiche che incombono, diventa sempre più chiaro che si sta chiudendo il periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, da cui erano sorti l’ONU e quell’insieme di regole internazionali riconosciute che avevano impedito lo scoppio di un conflitto su vasta scala. È vero che il nostro continente ha conosciuto molti decenni di pace e sviluppo ma, se guardiamo gli eventi da un punto di vista globale, l’intero periodo post-bellico è punteggiato da conflitti che hanno insanguinato l’Asia, l’Africa, il Medio Oriente e l’America Latina. Le guerre balcaniche dell’inizio degli anni ’90 del secolo scorso hanno dimostrato che, anche nella civilissima Europa, certe antiche ferite non si erano mai rimarginate e che potrebbero ancora riaprirsi. Dal 24 febbraio 2022, con l’invasione dell’Ucraina ordinata da Putin, un conflitto di grandi dimensioni è esploso sul suolo europeo e ha modificato drasticamente i vecchi paradigmi. Dopo aver visto fallire il suo progetto di invasione lampo, la Russia sta riorganizzando la propria economia come economia di guerra e, se non ci sarà una reazione adeguata, anche l’Europa potrebbe trovarsi costretta a fare altrettanto.

 

Il tema della guerra e della pace non è però stato sollevato adeguatamente, se non come artificio retorico, durante la campagna per le elezioni europee. Anche se l’invasione dell’Ucraina ha mostrato le carenze e le arretratezze dell’esercito russo, nessun singolo esercito europeo è in grado di fronteggiare con successo le truppe di Mosca. Nonostante questo, la necessità impellente di armonizzare i sistemi d’arma e creare una forza europea di pronto intervento è rimasta una questione soltanto teorica. Da un punto di vista politico, le cose sono andate ancora peggio perché l’asse portante della UE, l’alleanza tra Francia e Germania, è uscito fortemente ridimensionato e ha visto un grave indebolimento sia di Macron che di Scholtz. Il risultato delle elezioni europee è stato un grande successo per Mosca e Pechino che, da sempre, puntano sul divide et impera. Richiedere la riduzione dei poteri della Commissione europea a favore di quelli dei singoli governi significa minare qualunque autorevolezza e credibilità del nostro continente e contribuire esplicitamente alla sua irrilevanza.

La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen aspira alla rielezione ma non sembra percepire la complessità del momento storico attuale (Foto © European Union, 2024).

Le dichiarazioni rassicuranti di Ursula von der Leyen sul fatto che «il centro tiene» dimostrano soltanto che non viene percepito il valore storico delle scelte che l’Europa è chiamata a compiere. La UE non può tornare al business as usual perché la situazione richiede scelte strategiche e un salto di qualità che la burocrazia di Bruxelles non solo non sembra in grado di fare ma nemmeno di valutare adeguatamente. Le emergenti forze di estrema destra sono concentrate soltanto su politiche nazionali e scioviniste e non hanno né programmi né prospettive per affrontare le grandi questioni geopolitiche di oggi. Le proposte dei vari partiti sovranisti sono una ricetta perfetta per la balcanizzazione dell’Europa, la sua trasformazione in Stati dominati da nazionalismi aggressivi e conflittuali che renderanno il continente un terreno di conquista per le forze esterne.

Oggi si è tornati a discutere di un interessante saggio del 2012 dello storico australiano Christopher Clark, docente di Storia a Cambridge, in cui i governanti europei che stavano portando i loro Paesi alla Prima guerra mondiale venivano definiti “sonnambuli”. In contraddizione con la vulgata tradizionale, Clark ha sostenuto che non c’è un unico Paese su cui si può far ricadere la responsabilità per lo scoppio della Grande guerra ma che ogni singola nazione, senza rendersene conto, si avviò verso il disastro. Il panorama di oggi non è molto dissimile da quello del 1914, con l’aggiunta che c’è già un conflitto che insanguina l’Europa.

Una doppia dinamica

Illudersi che si possa ricostruire ancora una maggioranza a Bruxelles con popolari, socialisti e liberali senza porre il problema di superare la prassi paralizzante del voto all’unanimità e di rilanciare la prospettiva di un’unione vera che includa bilancio, esercito e politica estera comuni, dimostra solo l’incapacità di leggere i segni dei tempi. Per garantire la propria stabilità e la crescita economica, dal 1945 in poi l’Europa aveva affidato agli USA il compito di difenderla e si era avvantaggiata delle forniture energetiche a lungo termine della Russia. Questi due puntelli non esistono più. Già dai tempi delle due amministrazioni di Barak Obama è stato chiaro che l’interesse predominante degli Stati Uniti non era più l’Europa ma l’Indo-pacifico, dove era necessario fronteggiare la nascente potenza cinese. Il candidato repubblicano Trump ha dichiarato pubblicamente che, in caso di rielezione, permetterà a Putin di fare ciò che vuole con quei Paesi europei che non spendono abbastanza per la propria difesa. Secondo i sondaggi, ci sono buone probabilità che il bizzarro e vendicativo immobiliarista ritorni alla Casa Bianca per altri quattro anni e questo per l’Europa significa non soltanto perdere la stella polare ma trovarsela non proprio come avversario ma, certamente, non come alleato.

La politica estera americana non ha però soltanto il problema Trump perché, anche con l’amministrazione Biden, ha evidenziato delle gravi criticità, soprattutto per quanto riguarda il Medio Oriente e la politica verso il cosiddetto Sud globale. Il premier israeliano Netanyahu ha ripetutamente umiliato con dichiarazioni sferzanti Biden, impotente di fronte alla tracotanza di Tel Aviv e ai crimini di guerra commessi a Gaza. Tollerare di fatto i bombardamenti indiscriminati sui civili palestinesi che sono compiuti, ricordiamolo, con bombe americane, ha polverizzato la credibilità americana e la sua pretesa di essere il faro della battaglia in favore di diritti civili. Il Sud globale guarda ormai altrove. Nonostante i toni trionfalistici della premier italiana Giorgia Meloni, la riunione del G7 ha dimostrato ancora una volta che i Paesi aderenti rappresentano una piccola percentuale della popolazione mondiale e anche il loro ruolo economico, eccezion fatta per gli USA, diminuisce anno dopo anno.

Foto finale del summit dei BRICS del 2023 a Johannesburg in Sud Africa con i rappresentanti di Brasile, Cina, Sud Africa, India e Russia (Ufficio Stampa del Primo ministro dell’India).

Il gruppo dei BRICS è molto più rappresentativo dell’economia mondiale perché, dopo gli stati fondatori Brasile, Russia, India e Cina, si è aggiunto il Sud Africa e, nel 2024, hanno aderito anche Egitto, Etiopia, Iran ed Emirati Arabi Uniti. I BRICS rappresentano il 45 per cento della popolazione mondiale e circa il 28 per cento dell’economia globale. Nel 2014 questo raggruppamento ha fondato la Nuova Banca di Sviluppo, una struttura finanziaria alternativa al Fondo Monetario Internazionale dominato dagli Stati Uniti. Ci sono ancora molti altri Paesi in Asia, Africa e America latina che vogliono unirsi a questo raggruppamento. Questi sono i processi a lungo termine che stanno avvenendo sotto i nostri occhi e di cui bisogna tener conto. È vero che sommando le varie economie europee il nostro continente rappresenta la principale potenza economica mondiale ma non avendo nessuna forma di unità politica, né piani per raggiungerla a breve termine, rischia di veder prevalere i singoli egoismi nazionali. Alle difficoltà attuali si aggiungono le elezioni francesi del 30 giugno (che potrebbero portare al potere il partito di Marine Le Pen) e quelle, ancora più importanti, del 5 novembre negli Stati Uniti in cui c’è il pericolo concreto di un ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Stiamo vivendo un momento storico delicatissimo ma, purtroppo, non si vede in giro nessun Carlo Magno in grado di far battere di nuovo il cuore della vecchia Europa.

(L’immagine di copertina è una mappa dell’Europa nel 771 realizzata da Richard Ishida – r12a@w3.org)

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