I problemi della povera gente saranno in tanta parte risolti nella società di domani: e su quest’opera mondiale di buona volontà umana non potrà non scendere la benedizione pacificante del Padre che è nei Cieli”. Così Giorgio La Pira concludeva nel 1950 l’introduzione al suo volume dal titolo “L’attesa della povera gente”, oggi riedito da Libreria Editrice Fiorentina: opportunamente, perché consente di respirare un poco ancora l’atmosfera di quel tempo che appare lontano anni luce, eppure ha tanto da insegnare soprattutto al nostro tempo.

L’affermazione citata dimostra quanto grandi fossero le speranze: ma stavano al pari con l’impegno di coloro che come La Pira si impegnarono a rigenerare l’Italia dopo il disastro bellico nella prospettiva di un mondo in cui, pur mentre si consumavano le prime battute della guerra fredda, prevalevano in tanti le aspettative generate dalla costituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite con l’acquisizione di quella “globalizzazione” che allora voleva dire aspettarsi che potesse prevalere la collaborazione tra i popoli, e non i tentativi di sopruso cui la storia ci ha abituati.

La Pira con la sua visione cristiana e la sua indefessa attività sia a livello nazionale sia sul piano internazionale incarnava come pochi l’impegno per la pace nella nazione e tra i popoli.

L’attesa della povera gente di cui parla è quella di poter lavorare: per vivere una vita sicura, tranquilla non afflitta dal bisogno, ma soprattutto perché il lavoro è “essenziale strumento di espressione della persona” (pag. 48) e il modo col quale la persona contribuisce alla “elevazione materiale e spirituale” degli altri, della società nel suo complesso. Riecheggiano qui i termini contenuti nel quarto articolo della Costituzione italiana, che lo stesso La Pira contribuì a formulare essendo stato parte dell’assemblea costituente: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

Con varie argomentazioni di carattere economico, La Pira sostiene una politica intesa a portare al pieno impiego, spiegando come i livelli di vita in quel periodo in Italia erano in media di poco al di sopra di quello che era considerato il livello minimo di consumo calorico al giorno per persona, cioè 2000 calorie. Ovviamente aleggia nel suo argomentare anche la preoccupazione per quel che accadde negli anni Venti, quando la grandi masse di disoccupati disperati contribuirono a quel disordine sociale sul quale giocò il fascismo per prevalere: ma non ne parla in modo esplicito. Esplicita è l’umana preoccupazione per le condizioni di vita delle persone, unita alla coscienza che è possibile attuare un tipo di economia nella quale tutti possono prosperare. E questo grazie all’intervento dello Stato, ma all’uopo “bisogna dare una frustata energica a tutto l’apparato economico-finanziario dello Stato, bisogna svegliarlo del sonno e dalla pigrizia in cui è immerso, ricordandogli che a quel sonno e a quella pigrizia corrispondono: a) il disastro morale di due milioni di disoccupati, b) una riduzione del reddito nazionale di almeno 600 miliardi all’anno” (pag. 39).

L’essenza dell’argomento è che ovviamente i privati non sono di per sé interessati al benessere dei lavoratori, lo Stato invece è interessato proprio a questo e con la sua opera diretta può indirizzare l’opera dei privati mentre anche direttamente si impegna a creare lavoro e quindi a stabilire un tipo di concorrenza con la quale i privati dovranno misurarsi.

È questione di stabilire quali sono i fini e quali sono i mezzi: e se il fine è la pace sociale, il benessere delle persone allora alla politica spetta di metter in campo tutte le strategie necessarie per indirizzare l’economia verso tali finalità. Attraverso piani volti a ottenere gli obiettivi: “Non bisogna lasciarsi impressionare dalle parole «pianificare» significa mettere ordine, orientare verso uno scopo, significa che l’intero sistema economico e finanziario di uno Stato – anzi, l’intero sistema economico e finanziario mondiale – non può essere lasciato a se stesso, ma deve essere indirizzato in vista di scopi proporzionati all’occupazione e ai bisogni essenziali dell’uomo”. (pag. 33).

Insomma, siamo ben lontani dalla logica del laissez faire, della privatizzazione a tutti costi che ha invaso la scena economica mondiale in particolare dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso. Oggi basta voltarsi indietro e osservare i risultati: la politica tratteggiata da La Pira, e realizzata in particolare da personaggi quali Enrico Mattei, portò l’Italia dalle condizioni di relativa povertà (nel ’50 i livelli di alimentazione della Germania occidentale, per quanto questa fosse stata martoriata molto più dell’Italia negli ultimi mesi della guerra, erano più alti che nel nostro paese) al cosiddetto boom economico. E tra gli elementi che contribuirono in modo decisivo a tali sviluppi va ricordato il piano Fanfani per permettere a tutti di avere una casa, realizzato con la spesa pubblica, che come risultato sortì un cospicuo miglioramento dei livelli di vita delle famiglie – e promosse il costituirsi di famiglie nuove. Per contrasto oggi si risalta l’affanno consumistico fondato sui tentativi dei singoli di emergere in contesti fortemente competitivi in cui la ricchezza viene distribuita in modo sempre meno equanime e lo sviluppo demografico indica come sia sempre più estranea ai giovani l’idea di costituire famiglie e di generare figli.

Si usa attribuire la decadenza morale e civile di praticamente tutte le società contemporanee alla “globalizzazione”. Ma fenomeni quali la delocalizzazione sono sempre avvenuti laddove ha imperato la logica del laissez faire: si consideri come la Gran Bretagna tra il XVIII e il XIX secolo perse la sua industria tessile che non poteva reggere la concorrenza di quella indiana. Il problema non è la globalizzazione, bensì il laissez faire, la mancanza di obiettivi ragionevoli della politica economica, posti e perseguiti su orizzonti temporali ragionevoli. Come ha scritto La Pira: bisogna “partire dall’occupazione, non dal denaro; partire dall’uomo, cioè dal fine, non dal denaro, cioè dal mezzo”.

Nel momento in cui la speculazione finanziaria si è dispiegata per ogni dove, dal gioco d’azzardo sulle monete a quello sui derivati a quello sulle criptovalute, generando moneta per mezzo della moneta e sottraendo capitali immensi agli investimenti reali – a parte quelli dedicati ad acquisire terreni e imprese redditizie distogliendoli dagli scopi di rilevanza sociale – le osservazioni di La Pira tornano quanto mai utili ancor oggi.

Giorgio La Pira, L’attesa della povera gente.

LEF, pagine 98, euro 15,00

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