Sarà la storia a formulare un giudizio sulla presidenza di Joe Biden ma, forse, la decisione di farsi da parte e designare la sua vicepresidente come sfidante di Trump verrà ricordata come una delle scelte migliori del suo mandato. Il problema vero è che Trump è arrivato alla Casa Bianca sfruttando una serie di gravissimi errori politici da parte della dirigenza democratica causati non solo da incompetenza ma anche da brama di potere e cinismo riguardo agli interessi strategici degli USA. I responsabili principali di questo fallimento drammatico che ha spalancato le porte a un personaggio come Trump si chiamano Hillary Clinton e suo marito Bill, Barack e Michelle Obama. Vediamo perché.

Il 2016 è stato un anno di svolte drammatiche, con i primi segnali della crisi della globalizzazione, una tragica ondata di attentati terroristici islamici, la marea montante dei populismi, la Brexit e, dulcis in fundo, la vittoria di Trump alle elezioni di novembre. Mentre l’affermazione dei populismi in Europa ha complesse motivazioni sociali, politiche ed economiche, negli Stati Uniti si sono evidenziate anche pesanti responsabilità della dirigenza del Partito democratico che hanno consentito a un personaggio come Trump, giudicato inadeguato e instabile dall’associazione degli psichiatri statunitensi, di arrivare a mettere il suo ditone famelico sul pulsante rosso che può scatenare uno scontro nucleare. Come è stato possibile che dopo due mandati di relativo successo (e anche molti fallimenti) Obama non abbia concesso il viatico per la successione all’incolore Biden, come sarebbe stato naturale, ma alla rampante Hillary Clinton? Eppure gli eventi hanno dimostrato che Joe era perfettamente in grado di battere Trump, come è puntualmente avvenuto.

Femminismo fasullo e brama di potere

La convention democratica di Chicago (19-22 agosto 2024) che ha incoronato Kamala Harris e Tim Walz è stata un grande successo mediatico e di pubblico, grazie a una regia ferrea che ha impedito sbandate e ha serrato le fila al centro riuscendo a cooptare nella kermesse i leader dell’ala progressista come l’anziano Bernie Sanders, Elizabeth Warren, Alexandria Ocasio-Cortez. Molti analisti hanno sottolineato il ruolo femminile nelle scelte principali. La dura, e a tratti feroce, campagna di pressione sul presidente, dato sicuramente come perdente contro Trump, è stata condotta dall’ex speaker della Camera Nancy Pelosi, mentre il discorso che ha dato la linea alla convention è stato pronunciato da Michelle Obama, non da suo marito. Anche l’ex segretaria di Stato Hillary Clinton, che aveva passato otto anni alla Casa Bianca come moglie del presidente, ha tenuto un intervento molto seguito che ha portato diversi analisti a dichiarare di aver conosciuto una Hillary “finalmente empatica” (e questo significa che prima non lo era).

Gli Obama sono stati il centro di gravità della convention e tutti i commentatori li hanno descritti come due idoli pop, belli, bravi, sexy e molto efficaci. Barack si è confermato come miglior oratore del Partito democratico mentre Michelle ha attaccato frontalmente Trump, accusandolo di «avere una visione limitata e ristretta del mondo, che lo faceva sentire minacciato dall’esistenza di due persone che lavorano sodo, altamente istruite, di successo e che sono anche nere». Durante il suo applauditissimo discorso Michelle non ha mai nominato Biden, né ha mai fatto comizi per lui da quando la famiglia del presidente ha ostracizzato la sua amica Kathleen Buhle, prima moglie di Hunter, figlio del presidente. Barack Obama, che ha avuto un ruolo importante nella decisione del ritiro, si è detto «orgoglioso di chiamarlo presidente, ma ancor di più di chiamarlo amico». Eppure, l’anziano Joe ha molti motivi per non fidarsi troppo della supposta amicizia di Barack.

Formalmente, le primarie democratiche del 2016 furono un scontro durissimo tra l’ex First lady e segretaria di Stato Hillary Clinton e l’ultra liberal Bernie Sanders ma, in realtà, i Clinton avevano messo in campo una macchina da guerra pronta ad annichilire ogni possibile avversario nel campo democratico. Obama, presidente uscente, non mosse un dito per incoraggiare il suo vice Biden a correre nonostante le sue notissime ambizioni. Senza il sostegno del presidente e non possedendo un proprio apparato personale che gli permettesse di sfidare la potenza politica, finanziaria e mediatica dei Clinton, Biden decise di non partecipare alle primarie lasciando campo libero a personaggi minori che non avevano nessuna possibilità di successo contro una determinatissima donna di potere come Hillary. Il senatore del Vermont Bernie Sanders (che si autodefinisce “socialista”) si batté fino all’ultimo per strappare la nomina, finendo le primarie con un dignitosissimo 43,1 per centro contro il 55,2 della segretaria di Stato. La campagna elettorale di Hillary tentò di far leva su femminismo e sulla democrazia americana (dopo un nero, finalmente una donna alla Casa Bianca), ma non riuscì a far breccia nei cuori delle elettrici e degli elettori. Sappiamo come è andata a finire.

Se Hillary Clinton non avesse scalzato Biden nella campagna del 2016, Trump non sarebbe mai diventato presidente. (La foto la ritrae all’interno della Casa Bianca con marito e figlia).

Hillary Clinton è certamente una persona di grandi capacità e preparazione, con una comprovata esperienza internazionale e una vasta rete di relazioni personali. Ha sempre assunto posizioni molto dure in politica estera, incluso il fermo sostegno alla fallimentare politica mediorientale di George W. Bush che, eliminando la brutale dittature dell’iracheno Saddam Hussein, ha offerto il Medio Oriente su un piatto d’argento alla teocrazia degli ayatollah iraniani. Ambiziosa e determinatissima, ha cercato di presentarsi come “una di voi” agli elettori che faticavano però a riconoscersi nel personaggio. La First lady è rimasta a fianco del marito dopo diversi scandali sessuali non tanto per amore coniugale ma per amore del potere e per il suo desiderio spasmodico di diventare la prima donna a conquistare la Casa Bianca. Ovviamente, Hillary non era a capo di una setta di pedofili con sede a Washington, secondo le accuse farneticanti dell’allora candidato Donald Trump, ma non è riuscita a tenere sottotraccia la sua spietatezza politica, e il fatto che abbia usato il sistema di comunicazione del dipartimento di Stato come una messaggeria personale, correndo anche seri rischi di sicurezza, non ha migliorato la sua immagine.

Prima donna presidente?

Nell’arco di un mese, Kamala Harris si è trovata al centro di una serie di sconvolgimenti politici, la rinuncia di Biden, il fallito attentato a Trump, la convention che l’ha designata come candidata democratica alla presidenza. Anche se con colpevole ritardo, la scelta del vecchio Joe ha cambiato le carte in tavola e ha messo in seria difficoltà la campagna repubblicana che aveva incentrato tutta la sua strategia sugli attacchi a un vecchietto confuso e insicuro che, secondo tutti i sondaggi, avrebbe clamorosamente perso le elezioni. Parte di questa strategia puntava sulla designazione di J.D. Vance, avvocato, scrittore di successo e politico, come suo vicepresidente. Vance ha avuto un’infanzia durissima, una madre pluridivorziata e tossicodipendente ed è cresciuto con i nonni di cui ha poi adottato il cognome. È stato considerato un successore ideologico di paleoconservatori come Pat Buchanan, anche se ha preso posizioni non ortodosse per i repubblicani come sul salario minimo e sulla sindacalizzazione dei lavoratori. Sicuramente è un uomo tutto d’un pezzo, e questo potrà creare serie difficoltà a Trump che ha invece bisogno di una campagna duttile, che si adatti agli sviluppi imprevedibili della realtà. Nel nuovo contesto, il duo Trump-Vance risulta sempre più “strambo” (come è stato felicemente etichettato dal candidato alla vicepresidenza Tim Walz) e molto distante dalla sensibilità della classe media.

Trump non riesce a seguire i consigli dei suo strateghi che lo hanno scongiurato di attenersi ai punti programmatici e non prodursi costantemente in insulti e improperi che rischiano di diventare controproducenti. L’ex presidente è molto nervoso perché l’asse portante della sua campagna contro “sleepy Joe” è ormai un’arma spuntata da quando il vecchio della sfida per la Casa Bianca è diventato lui. Nei sondaggi Kamala Harris ha iniziato a sopravanzarlo, anche in due degli stati in bilico ma questo non significa nulla, visto che nelle elezioni del 2016 Hillary Clinton risultava essere in vantaggio di cinque punti e non è per nulla scontato che un istrione come Trump non riesca a inventarsi qualcosa per capovolgere la situazione. Certo, l’accusa alla Harris di aver fatto carriera politica grazie al sesso orale non sembra la strategia migliore per conquistare l’elettorato tradizionale, ma con Trump non si può mai dire.

La convention di Chicago che ha incoronato Harris e Walz ha anche segnato il tramonto dei clan e delle dinastie ma non possiamo dimenticare che gli artefici del

David Plouffe guidò con successo la campagna del 2008 che portò Obama alla Casa Bianca e il Partito democratico spera che ottenga lo stesso risultato con Kamala Harris.

successo politico della vicepresidente e della strategia anti Trump sono gli stessi Obama e Clinton che con le loro scelte sbagliate aprirono le porte della Casa Bianca a “the Donald”. Kamala Harris ha unificato dietro di sé un Partito democratico che sembrava rassegnato e spento ma è una candidata sotto tutela che, finora, non ha brillato granché e non ha evidenziato qualità autonome di leadership. Non è casuale che David Plouffe, il manager che coordinò la campagna presidenziale di Obama nel 2008, sia appena stato cooptato da quella di Harris. Anche se il Partito democratico ha invertito la rotta che lo conduceva verso una sconfitta sicura mancano certezze su quello che potrà avvenire a novembre poiché, a parte l’aspetto caratteriale, Trump sa di non potersi permettere una sconfitta visto che con tutti i procedimenti giudiziari in corso ha bisogno dello scudo presidenziale per evitare guai personali e certamente venderà cara la pelle.

Gli Stati Uniti sono un Paese radicalmente diviso e con una bassissima affluenza alle urne, per cui tutti gli analisti concordano che le elezioni saranno vinte con margini risicati (è difficile ipotizzare che, in poco più di due mesi, la neo candidata riuscirà a trascinare alle urne milioni di elettori in più). L’ago della bilancia rimangono i sette stati in bilico (Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Georgia, Arizona, Nevada e North Carolina) in cui potrebbero vincere sia i democratici che i repubblicani e che quindi faranno la differenza. In caso di vittoria, Harris sarà in grado di mostrare le qualità umane e politiche per guidare la più importante democrazia del mondo? Nei quasi quattro anni in cui è stata vicepresidente non ha evidenziato qualità da leader carismatica ma ci si può augurare che sappia scegliere consiglieri adeguati e che ne segua i buoni consigli. Visto che l’alternativa è un personaggio anziano, umorale e vendicativo, dovremmo accontentarci di quel che passa la convention.

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