di Axel Famiglini
Verso quale accordo?
A pochi giorni dallo scadere dei termini entro i quali le potenze del gruppo 5+1 e Teheran si sono prefissate di raggiungere un accordo sulla questione del nucleare iraniano, lo scenario internazionale appare permeato da nere nubi di tempesta all’orizzonte e connotato da preoccupanti ed importanti lacerazioni interne allo schieramento occidentale, tali da pregiudicare una serena ricomposizione della lunga vertenza atomica che per lunghi anni ha visto contrapposti da un lato Stati Uniti, Europa e Paesi del Golfo e dell’altro l’Iran degli Ayatollah, la Russia e la Cina. In un tale contesto, nel quale esistono serie differenze di vedute tra la presidenza Obama ed i principali alleati europei e mediorientali, nonché tra la Casa Bianca e la sua opposizione interna e la maggioranza repubblicana al Congresso, sulle modalità con le quali pervenire ad un “disgelo” con il regime iraniano, non appare arduo preconizzare che se vi sarà infine un riavvicinamento politico formale tra Washington e Teheran, questo rischi di concretizzarsi a scapito di consolidate alleanze che da decenni hanno costituito uno dei capisaldi con i quali gli Usa, l’Europa ed i Paesi arabi hanno impostato la propria politica estera mondiale.
Francia e Stati Uniti divisi sul Medioriente
La prima frattura che sembra giorno dopo giorno acuirsi sempre più è quella tra Europa e Stati Uniti. Le reazioni politiche seguite agli attentati terroristici compiuti in Francia da integralisti islamici nel gennaio 2015 hanno rappresentato un chiaro sintomo di questo crescente malessere esistente tra le capitali europee e Washington. Il sanguinoso attacco jihadista rivolto contro la redazione del settimanale satirico “Charlie Hebdo” ha sconvolto le coscienze dell’opinione pubblica occidentale ed in particolare l’Europa ha percepito per la prima volta, dopo anni di relativa calma, l’urgenza di fare fronte comune contro il terrorismo, sovente sollevando paragoni con quanto accaduto negli Usa nel nefasto giorno dell’undici settembre 2001. Forse non a caso proprio l’undici gennaio 2015 si è tenuta a Parigi una colossale manifestazione di protesta contro il terrorismo internazionale jihadista a cui hanno partecipato più di due milioni di persone e decine di delegazioni nazionali di altissimo profilo istituzionale provenienti da tutto il mondo con lo scopo di esprimere la propria solidarietà e vicinanza alla Francia e al governo d’Oltralpe. L’assenza di Obama e la mera presenza di personalità di basso rango politico espressa dagli Stati Uniti a fronte di un evento di dimensioni planetarie sono state rapidamente notate sia a livello mediatico che diplomatico e la spiegazione ufficiale tesa a giustificare l’assenza di Obama a causa di semplici ragioni di sicurezza non ha convinto né le cancellerie europee né gli osservatori internazionali più attenti. Dal 2011 la Francia, assieme al Regno Unito, ha tentato, pur con mezzi insufficienti e non senza drammatici scivoloni politici, di colmare in parte il vuoto lasciato dall’amministrazione Obama in Medioriente e nel Magreb, privilegiando una politica estera interventista, filo-araba (dato che, fra le altre cose, gli Arabi sono pronti a mettere mano al portafoglio per finanziare la stabilità dell’area) e fondamentalmente contraria alla strategia promossa dalla Casa Bianca volta a sposare qualunque forza locale che fosse risultata vincente nel corso dei marosi politici che hanno caratterizzato le “multiformi” primavere arabe nella regione, una tattica sostanzialmente finalizzata a garantire la prosecuzione del disimpegno americano nell’arco che va dal Nord Africa al Vicino Oriente. Tale politica “a stelle e a strisce” di progressiva dismissione del ruolo di “poliziotto del mondo” non è piaciuta né ai maggiori Paesi europei, i quali, dopo decenni di pianificazione strategica imperniata sulla permanenza di un’egemonia americana, hanno temuto per la tenuta dei propri interessi economici e geopolitici nell’area, né ai Paesi del Golfo, i quali non solo hanno visto minacciata la sopravvivenza dei propri tradizionali sistemi di governo ma hanno anche constatato che il vicino e storico rivale iraniano stava approfittando della situazione di caos generalizzato per colmare i vuoti creati dai mutamenti internazionali in corso, ponendosi in diretta collisione geostrategica con gli Stati che rappresentano la componente sunnita del mondo islamico. In un tale contesto la defenestrazione del governo dei Fratelli Musulmani in Egitto (sostenuto dagli Americani) e i differenti approcci espressi sulla crisi siriana e sui rapporti con il mondo iraniano ed i suoi alleati hanno via via allontanato i Paesi arabi e i loro alleati europei da Washington, iniziando a concretizzare politiche, pur limitate dai mezzi a loro disposizione, che in parte si discostavano da quelli che erano i piani americani per la regione. L’invasione dell’Iraq da parte dell’ISIS e la crescente tentazione americana di “cedere” la responsabilità del Medioriente all’Iran indubbiamente da un lato ha esacerbato le tensioni esistenti tra Americani, Europei ed Arabi e dall’altro ha costituito uno stimolo per “l’entente euro-araba” a proseguire ulteriormente lungo strade alternative rispetto a quelle solcate da Washington, pur conservando, prudentemente (dato che la forza militare americana è ancora considerata indispensabile), un’apparente condivisione di intenti mediatica e partecipando, più che altro simbolicamente, alle iniziative americane nel Medioriente. Il ruolo geopolitico giocato dalla Francia in Africa occidentale ha indubbiamente accresciuto il prestigio internazionale di Parigi a livello globale, parimenti rafforzando il ruolo francese sullo scacchiere mediorientale, incrementando la fiducia che le monarchie del Golfo nutrono nei confronti della Francia e contestualmente generando una crescente contrapposizione tra Washington e Parigi su come debba essere condotta la politica estera in Medioriente. In particolare ciò che sta mettendo da tempo in crisi la geopolitica di Washington nelle aree più calde del Vicino Oriente è il fatto che i Paesi arabi stiano utilizzando tutta la propria potenza finanziaria per “emancipare” dagli aiuti economici e militari statunitensi, ovviamente da sempre condizionati dai desiderata della Casa Bianca, Paesi chiave quali l’Egitto, trovando nella Francia un valido fornitore alternativo di materiali bellici. E’ probabilmente in tale contesto che va letta l’assenza del presidente Obama alla manifestazione parigina, dato che la Francia sta letteralmente mettendo i bastoni fra le ruote al governo americano, ponendo Riyad ed alleati nelle condizioni di condurre su numerosi fronti una propria politica estera autonoma all’interno di quella che i Paesi arabi ritengono essere la propria sfera di influenza.
Europa e Stati Uniti divisi sull’Ucraina
Gli ultimi fatti legati alla crisi ucraina hanno parimenti messo in luce le crescenti differenze createsi tra Europa e Stati Uniti. La ripresa delle ostilità nel gennaio 2015 fra i ribelli filorussi dell’Ucraina orientale, supportati con uomini, capitali e mezzi di ogni genere e sorta da Mosca, ed il governo di Kiev ha nuovamente messo in luce la debolezza militare dell’Ucraina nei confronti del vicino “orso” russo, conducendo, come già accaduto nell’agosto-settembre 2014, il Paese sull’orlo della capitolazione. In tale frangente gli Stati Uniti non hanno mancato di fare la voce grossa, minacciando di inviare armi e munizioni al governo di Kiev se Mosca non avesse fermato il conflitto. Al contrario la reazione dell’Europa è stata alquanto differente. L’Europa agli inizi della crisi probabilmente avrebbe abbandonato l’Ucraina al proprio destino se non ci fossero state alle sue spalle le ingenti pressioni americane volte a sostenere la rivoluzione del movimento “Euromaidan”. La Germania, Paese guida dell’Unione Europea, avrebbe forse accettato la proposta russa, veicolata tramite la Polonia, di spartizione dell’Ucraina. La politica delle sanzioni contro la Russia in effetti è emersa come il risultato di un’azione di mediazione tra un’Europa dipendente dal gas e dall’economia russa e gli Usa che necessitano di conservare, pur tra mille contraddizioni interne (giacché non è certamente il presidente Obama che detta la linea “interventista” sullo scenario europeo, quanto piuttosto gruppi di interesse Usa di carattere economico e militare), un importante ruolo geopolitico nell’area, ben sapendo però che da un lato l’Europa costituisce l’attore che possiede le vere leve economiche necessarie al fine di mettere in ginocchio la Russia e che dall’altro lo “spazio europeo” non è più rappresentabile come l’inerme distesa di macerie figlia della devastazione della seconda guerra mondiale. Non a caso, nel momento in cui gli Usa minacciavano di buttare ulteriore benzina sul fuoco di un conflitto le cui conseguenze sarebbero state pagate in gran parte dall’Europa stessa, oltreché dal popolo ucraino, la Germania e la Francia, con il malcelato consenso del Regno Unito, il quale da un lato fa la voce grossa e manda consiglieri militari in Ucraina e dall’altro gioca a fare l’equilibrista tra le due sponde dell’Atlantico, si sono opposte a tale politica, sforzandosi in tutti i modi di raggiungere un accordo con Putin, il quale, nonostante le sanzioni, il crollo del prezzo del petrolio, la crisi del rublo e la recessione economica, continua a fare il bello ed il cattivo tempo sullo scacchiere europeo. E’ certamente indubbio che nel momento in cui, nei fatti, l’Occidente abbia espresso “ab ovo” un sostegno formale euro-americano all’Ucraina, ciò debba prevedere l’invio di aiuti militari a Kiev ed appare altresì singolare che il governo di Washington, nonostante il parlamento americano si fosse espresso già favorevolmente in tal senso ed abbia ribadito tale concetto nuovamente solo pochi giorni fa, abbia annunciato l’intenzione di fornire equipaggiamenti bellici e consiglieri militari all’Ucraina solo nelle ultime settimane. Tuttavia, a quanto pare, la classe dirigente del Vecchio Continente non ha ritenuto essere nell’interesse europeo foraggiare un conflitto senza fine con la Russia ed è indicativo il fatto che mentre il presidente Hollande e la cancelliera Angela Merkel cercavano a Minsk un nuovo accordo per il cessate il fuoco, segretamente numerosi Paesi europei intavolavano trattative con il governo di Kiev al fine di inviare all’Ucraina materiale bellico, ufficializzando tali contratti di fornitura solo dopo che la situazione si fosse in qualche modo stabilizzata. Al momento non si può ancora dire se il nuovo accordo di Minsk reggerà o meno, tuttavia ciò che appare evidente è il diverso approccio europeo ed americano sull’intera questione ucraina e come tale approccio converga maggiormente più sulla linea prudenziale espressa dagli europei che sulla linea promossa dai “falchi” americani la quale, al di là della retorica sulla libertà e la democrazia, non sempre è connotata da interessi particolarmente edificanti, disinteressati ed attenti alle esigenze degli alleati europei, a cominciare dalla questione energetica. Se l’Europa, da un lato, si è mostrata inizialmente cinica, debole e titubante, arrivando quasi ad abbandonare vergognosamente al proprio destino ed al “manganello insanguinato” dei pretoriani di Putin a Kiev gli Ucraini scesi in piazza ricolmi di fiducia e di speranza con la bandiera dell’Europa in mano, dall’altro la stessa Europa ha saputo costituire una propria linea politica che, per quanto tesa alla prudenza e all’accomodamento con la Russia di Putin, è riuscita a mettere dei paletti di fronte ad una strategia americana la quale, per quanto gli Usa stessi abbiano effettivamente ed involontariamente salvato “l’onorabilità europea” all’inizio della crisi (basti pensare a quale sarebbe potuto essere lo sdegno e la reazione politica di Paesi connotati da una lunga storia di oppressione moscovita, quali la Polonia, la Lituania, l’Estonia e la Lettonia, di fronte ad un possibile voltafaccia europeo sull’Ucraina dopo che essi stessi avevano sempre visto nell’adesione alla UE una sorta di baluardo di difesa contro un possibile ritorno della Russia nelle vesti di potenza dominante), appare più che altro orientata a conservare in qualche modo un’egemonia che però non possiede più quella statura politica e quell’alone permeato di universale lungimiranza programmatica da poter essere coralmente accettata quale elemento qualificante da parte di tutti gli alleati europei di vecchia data.
Stati Uniti verso un’alleanza con l’Iran?
Altrettanto indicativa rispetto il dissenso politico e strategico che sta maturando tra le più importanti potenze europee e gli Stati Uniti è la situazione sul campo di battaglia tra Siria ed Iraq. Contrariamente a quanto dichiarato negli ultimi mesi da parte americana ed irachena, i successi della coalizione internazionale “anti-ISIS” non sono stati particolarmente eclatanti. Alla fine di gennaio lo stesso Pentagono ha dovuto ammettere che i bombardamenti aerei compiuti in massima parte da velivoli americani avevano permesso la riconquista di appena l’un percento del territorio occupato dall’ISIS in Iraq nel corso della loro sorprendente campagna estiva intrapresa meno di un anno fa. La stessa caduta della città di Kobane, per mesi punto nevralgico ideale e mediatico della lotta contro il cosiddetto “Stato Islamico”, più che essere stata causata dalla rotta incontrollabile delle milizie dell’ISIS, si è concretizzata attraverso una sorta di ritirata strategica dei miliziani di Al-Baghdadi i quali, invece di continuare a morire a centinaia sotto le bombe della Coalizione per conservare il controllo di un obiettivo di scarso valore strategico, hanno apparentemente preferito disperdere le forze sul territorio e preservare uomini e mezzi per concentrarsi verso obiettivi più cogenti, come la paventata controffensiva irachena prossima ventura. Nel frattempo le forze curde hanno continuato a guadagnare terreno, tuttavia l’ISIS appare ancora in grado di sostenere la pressione proveniente sia dai curdi iracheni che da quelli siriani senza subire eccessive perdite territoriali, nonostante lo “Stato Islamico” stia accusando una certa diminuzione del numero di reclute in viaggio verso il sedicente “Califfato”, fatto certamente dovuto anche ad un più attento controllo del confine posto tra Siria e Turchia da parte delle autorità di Ankara, da lungo tempo pressate in tal senso dalla Comunità internazionale. A sua volta la Turchia pare abbia raggiunto un accordo con gli Usa sull’addestramento sul proprio territorio dei ribelli siriani moderati in funzione anti-ISIS (iniziativa a cui parteciperà anche personale britannico), tuttavia la Turchia ha parimenti fatto ben capire a Washington che i ribelli siriani posti sotto la propria tutela saranno comunque autorizzati da Ankara a combattere non solo le soldataglie di Al-Baghdadi ma anche le truppe del regime di Assad. Ciononostante la recente controffensiva promossa dal governo iracheno finalizzata sia alla riconquista di Tikrit che all’apertura di una testa di ponte verso Mosul ha in realtà messo ben in chiaro quali siano le forze di terra in campo che realisticamente appaiono in grado di minacciare la sopravvivenza del mostro politico plasmato da Al-Baghdadi, ovvero le milizie sciite filo-iraniane supportate, organizzate e, di fatto, guidate da Teheran attraverso l’impiego di propri militari inviati sul terreno e di ufficiali di lunga esperienza nello scenario mediorientale quali il famoso generale Suleimani, tristemente noto alle forze americane per il suo ruolo attivo nel corso dell’insorgenza irachena al tempo dell’occupazione anglo-americana del Paese. In tal senso suscita certamente stupore il fatto che gli Americani in questi mesi abbiano lasciato crescere a dismisura la presenza militare iraniana in Iraq, di fatto arrivando a far concretizzare ciò che da lungo tempo i Paesi del Golfo temevano, ovvero che gli Stati Uniti, più che riassumere il proprio ruolo storico in Medioriente dopo la rotta dell’esercito iracheno, stessero semplicemente gestendo un “interim” per poi cedere la “palla mediorientale” al controllo di Teheran. Nel caso iracheno, nonostante i moniti del generale Petraeus, recentemente ribaditi sulla stampa, relativi alla possibile settarizzazione del conflitto iracheno a tutto vantaggio della componente sciita, gli Usa nei fatti hanno lasciato campo libero all’Iran il quale ha riorganizzato le milizie sciite nel ruolo di forza militare nazionale irachena ai danni dell’esercito regolare il quale ancora non appare in grado di reggere il confronto con le forze dell’ISIS e dei loro alleati tribali sunniti. Ciò si è reso vieppiù evidente nel corso della recente battaglia per Tikrit, durante la quale la stragrande maggioranza delle truppe presenti era costituita da forze irregolari sciite guidate direttamente da ufficiali iraniani, fra i quali lo stesso Suleimani. Il fatto che gli Americani abbiano permesso all’Iran di occupare una così vasta fetta dello scenario militare iracheno ha portato via via i Paesi arabi a ritenere che gli Stati Uniti non solo sarebbero ormai pronti a firmare un’intesa sul nucleare iraniano con il regime degli Ayatollah ma addirittura a consegnare la gestione sul terreno della crisi mediorientale agli uomini di Teheran, materializzando così uno degli incubi più spaventosi che sta scuotendo da anni il sonno delle monarchie del Golfo (sono in tal senso indicativi i recenti “mal di pancia” degli Emirati Arabi Uniti che avevano temporaneamente sospeso i raid contro l’ISIS dopo la tragica uccisione del pilota giordano catturato dai miliziani di Al-Baghdadi).
Stati Uniti, Iran, Arabia Saudita e Yemen
Il rapido susseguirsi degli eventi in Yemen sembrerebbe confermare tali timori. La recente espulsione dalla capitale Sana’a del legittimo governo yemenita filo-saudita e filo-occidentale per opera delle milizie ribelli degli Houthi di fede sciita ed eterodirette dall’Iran potrebbe apparire agli occhi dei più sospettosi come una mossa iraniana volontariamente assecondata da Washington, da anni impegnata con forze speciali nel Paese nella lotta contro Al-Qaeda, tesa a mettere in difficoltà l’Arabia Saudita nel proprio “giardino di casa” (non si può in tal senso dimenticare l’incognita rappresentata dalla vicina minoranza sciita presente in seno al Regno dei Saud e l’eventuale effetto domino che potrebbe essere innescato su di essa se lo sciismo filo-iraniano prendesse politicamente piede nel vicino Yemen) e a condurre all’interno della sfera di influenza iraniana uno dei Paesi chiave per il controllo del Medioriente. Indubbiamente lo Yemen ora è diventato un nuovo importante campo di battaglia in seno allo scontro tra Sauditi ed Iran per il controllo del mondo arabo e proprio nelle ultime ore si sta affiancando alla “proxy war” in corso un intervento militare vero e proprio a guida saudita direttamente supportato dalle monarchie del Golfo ed alleati e lanciato dopo la pressante richiesta di assistenza militare espressa da parte del governo yemenita deposto. E’ altresì indicativo che gli Stati Uniti, pur supportando a parole l’azione di forza saudita (la quale rappresenta un evidente monito nei confronti di Teheran e delle sue ambizioni regionali, in particolare nell’ottica di un possibile “sdoganamento” dell’Iran quale legittimo e riconosciuto attore regionale da parte degli Usa), nei fatti si stiano limitando a fornire un diplomatico “supporto logistico e di intelligence” ed è parimenti interessante notare che la crisi yemenita generata dalle milizie filo-iraniane stia facendo risalire i prezzi del petrolio, una vera e propria manna dal cielo per Putin.
Francia, Regno Unito, Paesi Arabi e la questione siriana
La situazione, con il legittimo presidente dello Yemen messo pericolosamente alle strette, certamente non preoccupa solo i Paesi arabi ma anche i Paesi europei che possiedono interessi nell’area come il Regno Unito, il quale gioca un ruolo di primo piano nell’opera di stabilizzazione politica del Paese assieme ai Sauditi. Se inoltre consideriamo la situazione in Siria, le divergenze tra Francia e Regno Unito da un lato e Stati Uniti dall’altro appaiono quanto mai evidenti. E’ stato recentemente pubblicato un articolo a firma del ministro degli esteri francese Fabius e del ministro degli esteri britannico Hammond nel quale è stata messa nero su bianco la posizione dei due Paesi sulla Siria. In buona sostanza sia Parigi che Londra sostengono, come ripetono sovente i Paesi Arabi e la Turchia, che Assad, reo di aver distrutto il suo Paese ed ucciso il suo popolo solo per conservare la poltrona, non abbia alcun futuro politico in Siria e che, per quanto un dialogo con gli uomini del regime sia necessario per evitare la dissoluzione dello stato siriano come tragicamente accaduto in Iraq nel 2003, Damasco necessiti di un governo di unità nazionale che veda tutte le componenti moderate in lotta contro Assad sedute attorno ad un unico tavolo. Oltre a ciò l’Unione Europea, sempre su iniziativa anglo-francese, ha posto sanzioni contro alcuni soggetti vicini al regime siriano che non solo organizzano il commercio di petrolio tra l’ISIS ed il governo di Assad ma addirittura agevolano la gestione congiunta di alcuni impianti per lo sfruttamento degli idrocarburi fra gli uomini di Al-Baghdadi e quelli del regime, fatto che ha indotto lo stesso ministro degli esteri britannico Hammond a dichiarare che il conflitto in corso tra il regime di Damasco e l’ISIS sia una semplice “farsa”, in tal senso confermando indirettamente che l’ISIS stesso, più che essere un mostro politico foraggiato dall’integralismo sunnita, sia stato alimentato ad arte da Assad con il tacito consenso dei suoi alleati russi ed iraniani col mero fine di apparire agli occhi del mondo come l’unica possibile alternativa politica da supportare di fronte ai barbarici gruppi integralisti in realtà da lui stesso finanziati attraverso l’acquisto dei prodotti petroliferi posti sotto il controllo degli jihadisti.
Parimenti non convincono in alcun modo né Londra né Parigi e né i ribelli siriani moderati i colloqui di pace organizzati dalla Russia a Mosca nel gennaio 2015, palesemente orientati ad imbastire un supporto politico a favore di Assad. Tanto meno trovano reale condivisione da parte di Regno Unito, Francia e ribelli “anti-Assad” gli sforzi dell’inviato dell’Onu Staffan De Mistura, il quale, fondamentalmente, si sarebbe fatto semplicemente circuire dal regime siriano attraverso finte profferte di pace formulate da parte di Damasco.
Gli Usa ed il dialogo con il regime di Damasco
E’ in tal senso balzata subito agli occhi dei più attenti osservatori la contrapposta dichiarazione di Kerry (già non eccessivamente freddo nei confronti dei colloqui di Mosca) di alcuni giorni fa incentrata sul fatto che gli Usa intendano trattare direttamente con Assad, alludendo nei fatti ad una sua permanenza in carica. Da questo punto di vista tali asserzioni, per quanto successivamente ridimensionate da fonti del governo americano, lasciano in effetti presagire che i rapporti tra Washington, l’Iran ed alleati siano andati ben oltre a quanto si è lasciato semplicemente trasparire tra le righe nei comunicati stampa o nelle velate allusioni provenienti dai palazzi di Washington, subito prontamente smentite o corrette a beneficio delle orecchie degli alleati arabi. E’ in tal senso emblematica la notizia dell’annunciata collaborazione militare (anch’essa in precedenza negata) tra le forze aeree americane e la coalizione a guida iraniana impegnata nell’assedio di Tikrit contro l’ISIS che certamente offre una eccellente cartina di tornasole su quali siano state in realtà le mosse dell’amministrazione americana nei confronti dell’Iran negli ultimi mesi. Ovviamente tale coacervo di ambiguità non lascia perplesso solo il Golfo Persico ed i suoi alleati europei ma sta mettendo da lungo tempo in agitazione il governo israeliano capitanato da “Bibi” Netanyahu.
Israele “contro” Obama
E’ noto che Israele rappresenti forse il maggior oppositore, assieme ai Sauditi, nei confronti di un qualunque accordo sul nucleare iraniano e questo perché gli Israeliani temono che gli Iraniani stiano fondamentalmente ingannando l’Occidente sugli scopi del loro programma atomico il quale sarebbe finalizzato alla realizzazione delle prima bomba atomica nelle mani degli Ayatollah pronta ad essere utilizzata quale “spada di Damocle” da porsi sopra la testa di Israele. Da questo punto di vista Israele ha potuto beneficiare dell’ormai vasta opposizione interna al presidente Obama rappresentata in primo luogo dal Partito Repubblicano che ha recentemente riottenuto la maggioranza al Congresso e che non perde alcuna occasione per mettere i bastoni fra le ruote della Casa Bianca, in particolare nel momento in cui la lobby ebraica residente negli Stati Uniti da anni preme sulla politica americana affinché si diffidi il più possibile delle presunte buone intenzioni di Teheran. Le tensioni e le divisioni interne alla classe politica americana sono così intense e deflagranti che per la prima volta nella storia degli Usa il Congresso degli Stati Uniti ha invitato ufficialmente un primo ministro estero, ovvero lo stesso Netanyahu in piena campagna elettorale (il quale non ha certamente perso tempo per non farsi sfuggire questa ghiotta ed irripetibile occasione), sostanzialmente per affermare che la politica del presidente Obama sull’Iran fosse totalmente errata e che richiedesse un radicale cambio di rotta, pena una “guerra totale” dei Repubblicani ed “alleati” contro la Casa Bianca. Tale situazione ha messo chiaramente in luce quale stato di confusione “l’obamismo” abbia creato nell’agone politico degli Stati Uniti e di quanto poco rispetto il presidente goda presso i suoi avversari politici (basti ricordare la lettera dei senatori repubblicani indirizzata all’Iran nel tentativo di scavalcare e delegittimare la Casa Bianca). Come se ciò non fosse bastato la vittoria elettorale di Netanyahu (contrariamente alle indicazioni dei sondaggi) alle elezioni politiche, le accuse da parte di certi ambienti israeliani nei confronti degli Stati Uniti di aver cercato di manipolare l’opinione pubblica di Israele contro lo stesso Netanyahu e le controaccuse americane nei confronti dei servizi segreti israeliani di aver sottratto informazioni di intelligence Usa al fine di influenzare gli orientamenti politici dei legislatori americani sul tema del nucleare iraniano con lo scopo di condurli verso posizioni filo-israeliane certamente rappresentano uno dei momenti più bui delle relazioni israelo-americane e ciò a causa di una Casa Bianca che sta effettivamente sovvertendo a tutto campo decenni di tradizione politica “a stelle e a strisce” nel Medioriente e nel mondo.
Sunniti contro Sunniti: il caso libico
Le divisioni politiche non riguardano solo l’establishment americano o i rapporti tra Paesi europei, gli Stati Uniti ed Israele ma anche lo stesso mondo sunnita. La chiave di volta di questo pluriennale scontro interno ai due maggiori contendenti del Golfo, l’Arabia Saudita ed il Qatar, è a tutt’oggi collocata in Libia. Lo scenario libico, dopo il collasso del governo rivoluzionario nell’estate 2014 a seguito della sconfitta elettorale delle forze islamiste e del rifiuto dell’esito emerso dalle urne da parte di queste ultime, è connotato dalla presenza di due governi e due parlamenti, uno a Tobruk, sostenuto da Paesi del Golfo, Emirati Arabi Uniti in testa, Egitto (attualmente impegnato in un’ operazione militare nel Paese e sponsor convinto del generale Haftar) ed Occidente, l’altro a Tripoli, sostenuto dal Qatar e da quella Turchia che inizialmente era stata tenuta in disparte nel corso dell’attacco occidentale del 2011 che portò alla caduta del regime di Gheddafi. Pare che lo stesso Sudan abbia inviato armi alle milizie islamiche operanti a Tripoli ed è noto quanto il Sudan sia vicino alla Cina. In mezzo a tale caos costituito da una miriade di milizie direttamente connesse alla dimensione tribale della regione, sono recentemente emersi gruppi locali di ex-gheddafiani, ex combattenti jihadisti ritornati in patria, supportati da altri gruppi jihadisti di varia provenienza, alcuni dei quali in qualche modo in connessione con il “Califfato” tramite elusivi “inviati speciali” di Al-Baghdadi, i quali hanno autonomamente dichiarato la propria adesione al ISIS, di fatto sfruttando un “marchio di successo”, quello del sedicente “Califfato”, con il quale non hanno, allo stato attuale, una reale connessione diretta ma che tuttavia ritengono vantaggioso utilizzare quale “brand” per attrarre finanziamenti e nuove reclute da tutto il mondo musulmano. Da questo punto di vista appare evidente che lo stesso gruppo terrorista di Boko Haram abbia annunciato la propria affiliazione all’ISIS in Nigeria per le medesime ragioni così come hanno fatto i terroristi che hanno attaccato il museo del Bardo a Tunisi. Nel medesimo contesto la Russia di Putin, alla perenne ricerca di nuovi alleati (in ultimo pare in atto un “abboccamento” con l’assai poco desiderabile regime della Corea del Nord), sta tentando in qualche modo di sfruttare la confusione esistente in Medioriente e nel Magreb per allargare la propria sfera di influenza, in particolare in Egitto e presso il governo di Tobruk, quest’ultimo assai deluso dallo scarso aiuto militare che starebbe ricevendo da parte europea. Occorre ricordare che la stessa Russia, come accaduto alla Turchia, venne politicamente e militarmente tenuta fuori dalla Libia nel corso dell’attacco a guida anglo-francese del 2011. In particolare l’Egitto di Al-Sisi starebbe mal sopportando la dipendenza finanziaria che lo lega ai Paesi del Golfo e la recente accoglienza trionfale accordata al presidente Putin in visita ufficiale nel Paese del Nilo vuole forse sottolineare un tale clima di malessere. D’altra parte, tuttavia, il cordone della borsa egiziano è stabilmente in mano agli Arabi e di conseguenza le più lucrose commesse militari a favore del Cairo sono andate non ai Russi ma agli ormai onnipresenti Francesi. E’ interessante notare che l’Italia, Paese fino a pochissime settimane fa fondamentalmente assente sullo scenario internazionale, nonostante quattro anni di totale instabilità lungo vasti tratti dell’arco del Mediterraneo, a fronte della minaccia rappresentata dall’ISIS in Libia pare essersi ridestata, arrivando addirittura ad ipotizzare un intervento militare, caldeggiato dalla Francia che da lungo tempo sta chiedendo all’Italia un maggior impegno nell’area, essendo i Francesi già dislocati attorno ai confini esterni della Libia al fine di bloccare eventuali infiltrazioni terroristiche verso gli altri Paesi della “Françafrique”. La questione libica richiede indubbiamente grande prudenza nel senso che se da un lato i sostenitori arabi del legittimo governo libico e l’Egitto vorrebbero giungere ad una resa dei conti finale con gli islamisti che controllano Tripoli (si legga, fra tutti, i “Fratelli Musulmani”), finanziati ed armati da Qatar e Turchia, dall’altro l’Occidente, a ragione, sostiene che si debba trovare un accordo con queste fazioni dato che, al di là delle etichette politico-religiose, le “fazioni islamiche” spesso non rappresentano altro che meri gruppi tribali libici che dovranno un domani contribuire alla ricostruzione del Paese. In tal senso il campo occidentale confida che l’attuale mediazione a guida Onu possa ricomporre una situazione che tuttavia potrebbe altresì richiedere una missione militare stabilizzatrice, erroneamente non prevista da Francia e Regno Unito dopo la caduta del regime di Gheddafi nel 2011, in un contesto nel quale le istituzioni statali sono in buona misura scomparse.
E’ opportuno un accordo con l’Iran in questo momento?
La cornice internazionale attorno alla quale viene in questi giorni dipinto l’accordo di massima sul nucleare iraniano che dovrebbe condurre verso una normalizzazione dei rapporti con Teheran non appare pertanto delle più rosee. La Russia, pur attanagliata dalla crisi economica, continua a mostrare i muscoli e ha sistematicamente minacciato di violare lo spazio aereo-navale di numerosi Paesi europei sia al fine di tastare il livello di reazione delle rispettive forze armate “nemiche” che per tenere alta la tensione in seno a quella che non appare altro che una classica guerra di nervi. A riprova di ciò è notizia recente la minaccia di Mosca di trasformare la Danimarca in un bersaglio nucleare in caso di conflitto tra Russia ed Occidente. Inoltre le repubbliche baltiche appaiono particolarmente sotto pressione ed il timore che quanto accaduto in Ucraina orientale possa riproporsi all’interno del proprio territorio nazionale ha indotto la Lituania a reintrodurre la coscrizione obbligatoria. Se da un lato la Russia ancora spadroneggia sullo scenario internazionale pur nella consapevolezza di essere per il momento costretta a trattare con la Germania, dall’altro un altro alleato di Mosca, l’Iran, sta guadagnando terreno in Medioriente, minacciando di sovvertire l’ordine geopolitico dell’area a vantaggio di una nuova egemonia iraniana nella regione. Secondo alcuni critici “ottimisti”, l’Iran starebbe fondamentalmente facendo il passo più lungo della gamba, non possedendo né le risorse né i mezzi per giocare a lungo un ruolo di primo piano in seno alle vaste e complesse crisi che attanagliano il Vicino Oriente. L’Iraq e la Siria, nonché lo Yemen, potrebbero trasformarsi a lungo andare in una sorta di “Vietnam iraniano”, alimentando conflitti settari senza fine tra la componente sciita spalleggiata da Teheran e quella sunnita. Ciononostante la paura e la preoccupazione dei Paesi arabi è alta, soprattutto per il fatto che se l’Iran dovesse trovare un accordo con gli Stati Uniti, allora i Paesi del Golfo potrebbero vedersi costretti ad affrettare la propria corsa per dotarsi di armi nucleari. Se da un lato il Regno Unito gioca a fare il “pontiere” evitando però di farsi coinvolgere il più possibile dalle “strane” manovre dell’amministrazione Obama (non senza ricevere continue critiche ed accuse di disimpegno da parte di Washington a partire dai tagli al settore della difesa fino allo scarso impiego di uomini e mezzi nelle operazioni attive contro l’ISIS), dall’altro la Francia, a cui piace fare la parte del “giocatore libero”, sta mostrando molta riluttanza nei confronti di un accordo con l’Iran che sta scontentando un po’ tutti (in particolare i propri “clienti” arabi), soprattutto nell’ottica di quella che rischia di appalesarsi come una rivoluzione copernicana dei rapporti internazionali mediorientali. La recente intenzione espressa dal governo canadese, più vicino agli umori americani di quanto lo sia l’Europa, di estendere i raid aerei contro l’ISIS in Siria, per quanto giustificati sul piano legale dal fatto che il Canada non riconosca Assad quale presidente legittimo, potrebbe rappresentare un ulteriore segnale relativo all’imminenza di un accordo diplomatico tra Stati Uniti ed Iran. Ovviamente se di accordo si tratterà, più o meno tutti gli attori europei coinvolti nella trattativa, non avendo i mezzi politico-militari per opporsi a tale decisione, faranno buon viso a cattivo gioco, nel senso che se da un lato è probabile che plauderanno all’accordo per garantirsi una fetta del mercato iraniano, dall’altro presumibilmente continueranno a sostenere i propri alleati arabi in ciò che rischia di trasformarsi in una guerra vera e propria tra Sciiti e Sunniti lungo tutto lo spazio mediorientale, una vasta porzione di mondo nella quale l’Iran, ormai sguinzagliato e liberato dalla propria catena, oltreché “benedetto” ed “incoronato” dalla politica americana, si sentirà legittimato a fare il bello ed il cattivo tempo in un territorio che comprende, tanto per iniziare, Iraq, Siria, Libano e Yemen nel quale l’ISIS e i suoi affiliati in realtà appaiono sempre più essere un’utile pedina da impiegarsi quale arma di ricatto (si vedano a tal proposito i mostruosi crimini commessi contro i prigionieri e le antichità mesopotamiche da parte dei miliziani di Al-Baghdadi) nei confronti di un Occidente che precipitò nell’abisso della prima guerra mondiale attraverso dinamiche non troppo dissimili da quelle determinate dalle continue crisi internazionali che si stanno sempre più frequentemente e pericolosamente presentando al nostro orizzonte.
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