Un’intesa dai risvolti inquietanti
Dopo una lunghissima ed estenuante maratona negoziale che ha visto coinvolte le potenze del cosiddetto gruppo “5+1” e l’Iran, nella giornata di martedi 14 luglio 2015 è stato annunciato a Vienna l’avvenuto accordo sull’annosa questione del nucleare iraniano. Se da un lato appare prematuro azzardare delle ipotesi troppo impegnative su quali possano essere le probabili linee di indirizzo della politica estera mondiale nel prossimo futuro a seguito della firma di tale intesa, dall’altro appare evidente che questo accordo, nel bene come nel male, sia caratterizzato da una portata di carattere indubbiamente storico. La vicenda del nucleare iraniano si è da tempo innestata in seno al tormentato scacchiere dei mutamenti geopolitici globali in corso che stanno pericolosamente minando l’ordine internazionale emerso nel corso del XX secolo ed, in particolare, alla conclusione della cosiddetta “guerra fredda”. Gli esiti derivanti dall’accordo sul nucleare iraniano sono certamente passibili di differenti interpretazioni e l’estrema complessità degli eventi in fieri sia in Medioriente che altrove lascia spazio a margini di analisi che solo il tempo permetterà di ridurre e di definire con maggiore chiarezza ed esattezza. I termini dell’accordo mediati dal Segretario di Stato americano John Kerry e dal ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif diminuiscono sensibilmente, perlomeno sulla carta e all’interno di un intervallo temporale di una decina d’anni, la capacità di Teheran di produrre uranio arricchito per scopi militari ovvero con la finalità di costruire una bomba nucleare. Tale elemento cardine dell’intesa era in effetti già riscontrabile nell’accordo quadro sottoscritto dalle parti in causa nel mese di aprile a Losanna (forse anche “grazie” all’offensiva a guida saudita sullo Yemen tesa, fra le altre cose, a fornire “rivelatori segnali politici di disappunto” ai negoziatori a Losanna e a produrre un cambiamento di strategia nella conduzione della battaglia a Tikrit e, più in generale, in Iraq) . Tuttavia ciò che rimane intatta è l’abilità scientifica e tecnologica che l’Iran conserva per produrre un’arma nucleare e la possibilità che Teheran possa riprendere senza particolari ostacoli la produzione massiccia di combustibile nucleare arricchito nel caso i patti sottoscritti con le potenze mondiali venissero improvvisamente meno. L’Iran sarà per di più preavvertito in caso di ispezioni le quali non saranno affatto automatiche ma assolutamente concordate, dando tutto il tempo a Teheran di nascondere eventuali “malefatte”. Inoltre il dato maggiormente problematico è di carattere politico. Russia e Cina, nonostante in apparenza si siano poste nel corso dei colloqui con Teheran nelle vesti di controparti, rappresentano in realtà degli importanti alleati dell’Iran, così importanti da aver permesso, fra altre cose, al regime degli Ayatollah, attraverso aiuti economici e materiali di vario genere, di subire i contraccolpi delle sanzioni economiche occidentali con minore intensità. Qui appare evidente un primo vulnus che ha caratterizzato le trattative sul nucleare iraniano, ovvero il fatto che Russia e Cina fossero in realtà presenti nella qualità di alleati di Teheran e non di avversari, rendendo il concetto di “5+1” una mera entità di facciata utile a celare a livello pubblico le reali relazioni in corso fra le maggiori potenze mondiali attorno alla questione del nucleare iraniano. Il risultato ottenuto è stato pertanto un compromesso emerso dalla sintesi di capacità diplomatiche, mire geopolitiche e problematiche interne ed esterne dei vari attori in gioco, in primis gli Stati Uniti e l’Iran che hanno condotto buona parte dei negoziati diretti. Il problema politico tuttavia non si esaurisce su questo aspetto. Dal 2011 le primavere arabe hanno posto sul tavolo delle trattative tutta una serie di novità derivanti dagli epocali mutamenti in corso in Medioriente ed in Nord Africa, in particolare l’ascesa della potenza iraniana e l’inevitabile scontro con le potenze sunnite, Arabia Saudita in testa, per l’egemonia regionale. Nel contempo si reso vieppiù evidente il desiderio di disimpegno degli Stati Uniti del presidente Obama dall’area e la crescente preoccupazione degli alleati degli USA situati sia nel Golfo Persico che in Europa per le ricorrenti minacce ai propri interessi politico-economici generate dalla conseguente instabilità internazionale. L’opaca amministrazione Obama, mano a mano che si avvicinava la scadenza del secondo mandato presidenziale, a fronte di una politica estera isolazionista e per di più connotata da scarsi successi internazionali se non da veri e propri errori di valutazione forse non estranei ad eventuali pregiudizi ideologici propri della presidenza stessa, ha pervicacemente ricercato di pervenire a clamorose (e piuttosto vacue) “storiche intese” (non ultima quella con il decrepito regime cubano) che permettessero al presidente stesso di presentarsi di fronte al giudizio della posterità con un’eredità politica all’altezza dell’incarico ricoperto per ben otto anni ai vertici della Casa Bianca. Tale impostazione fortemente personalistica e mediatica ma scarsamente legata ai dettami tradizionali della politica estera americana ai quali erano abituati gli storici alleati di Washington ha sicuramente ispirato, grazie al ruolo svolto dal Segretario di Stato Kerry, la conduzione della trattativa sul tema del nucleare iraniano e ha molto probabilmente suggerito a Teheran l’opportunità di pervenire ad un accordo con una presidenza così incline a piegarsi alle più svariate concessioni, un’occasione forse ritenuta irripetibile dalle alte sfere del regime clericale dell’antico stato persiano. In tale maniera, se da un lato l’accordo sul nucleare iraniano, già nella sua prima bozza di aprile, ha dovuto effettivamente venire incontro alle notevoli riserve espresse sia da parte dei Paesi arabi che di Israele, incoraggiando in questo modo i negoziatori americani ad una trattativa più intransigente con Teheran (sovente sono emerse indiscrezioni nel corso della trattativa che denunciavano possibili clausole fortemente favorevoli a Teheran subitamente “rimbrottate” da Arabi ed Israeliani), dall’altro tuttavia la Casa Bianca è venuta meno all’iniziale promessa americana di proibire “tout court” all’Iran il possesso di tecnologia nucleare, di fatto, attraverso il voto favorevole del Consiglio di Sicurezza ONU e la non lontana fine delle sanzioni, legittimando Teheran nelle sue aspirazioni di veder riconosciuto il suo diritto a possedere capacità atomiche, inclusa la possibilità di continuare sia la ricerca scientifica che lo sviluppo di nuove tecnologie in tale settore. Non stupisce che lo stesso presidente Obama abbia voluto pubblicamente ringraziare il presidente russo Putin per lo sforzo che la Federazione Russa ha profuso al fine di pervenire a tale accordo, rendendo manifesta la spiccata dicotomia in essere tra la concezione “propagandistico-pubblicitaria” di Obama della politica estera e la consuetudine diplomatico-militare dell’establishment tradizionale “a stelle e a strisce”, una “separazione” che ha prodotto anni di stallo sullo scacchiere internazionale salvo l’intervento di altri attori internazionali volto a colmare il vuoto geopolitico prodotto, come in Libia, in Egitto e, più recentemente, in Yemen. In tale prospettiva l’Iran possiede a buon diritto tutte le ragioni per festeggiare l’accordo appena sottoscritto ed eventuali tensioni insite al regime degli Ayatollah, più che rappresentare vere e proprie difformità di vedute sulle trattative in corso, testimoniano forse lotte interne di potere sorte nella previsione di una prossima dipartita della massima guida spirituale e politica del Paese. Parimenti sia la Russia che la Cina escono vittoriose da questo lungo confronto, avendo supportato Teheran lungo la strada del ritorno alla legittimità internazionale, un ruolo, quello iraniano, fortemente accresciutosi negli ultimi anni in seno al nuovo “grande gioco” che sta sconvolgendo primariamente Siria ed Iraq e che rischia di deflagrare presso altre nazioni come recentemente accaduto in Yemen. E’ evidente che il successo dell’Iran nel ruolo di potenza emergente e la contestuale accettazione statunitense di Teheran quale attore stabilizzatore della regione rappresentino allo stesso modo per la nascente alleanza sino-russa una sorta di ingresso di favore verso l’articolata area dell’antica “mezzaluna fertile”. Tutto ciò ci permette di comprendere come l’accordo sul nucleare iraniano già da tempo possieda al suo interno un’importanza geopolitica di una tale rilevanza da far quasi mettere in secondo piano il tema cardine dell’accordo stesso, ovvero il programma nucleare in quanto tale.
La difficile posizione di Francia e Regno Unito
L’aspetto economico legato alla fine delle sanzioni appare altrettanto importante di quello geopolitico e militare. Tale imprescindibile elemento, in particolare per le economie occidentali, ha indotto tutti gli attori coinvolti nella trattativa a plaudere al raggiungimento dell’intesa. Le enormi potenzialità ancora inespresse od embrionali del mercato iraniano hanno spinto numerosi attori economici europei ed americani ad esercitare numerose pressioni sui rispettivi governi affinché si pervenisse ad un accordo. Tale situazione ha certamente messo in grave difficoltà i governi francese e britannico che se da un lato si sono sempre schierati con i Paesi arabi contro le ambizioni geopolitiche iraniane, dall’altro hanno dovuto cedere alle pressioni di chi premeva per la riapertura delle porte dorate dell’antica Persia. La necessità di tutelare i propri alleati mediorientali e i relativi interessi nazionali presso gli stati sunniti hanno ad ogni modo indotto la Gran Bretagna a svolgere alcune azioni sul piano diplomatico, denunciando in aprile in sede ONU le manovre iraniane tese ad accaparrarsi illegalmente forniture correlate ad attività di carattere nucleare e condividendo nel corso delle ultime battute della trattativa l’assunto volto a sostenere il principio che piuttosto che pervenire ad un cattivo accordo fosse stato meglio non raggiungere alcun accordo. Naturalmente tutto questo non ha creato in seno alla diplomazia americana dubbi tali da indurre ad adottare un atteggiamento meno “frenetico” nei confronti di un possibile accordo con Teheran. Parimenti neppure la notizia contenuta in una relazione dell’AIEA relativa al fatto che l’Iran avesse aumentato del venti percento la propria riserva di combustibile nucleare durante l’ultimo anno e mezzo di negoziazioni ha scalfito la macchina mediatico-diplomatica del presidente Obama. Il governo francese ha a sua volta fatto sue le perplessità dei Paesi arabi, sottolineando, sia prima che dopo la firma dell’accordo, la necessità di verificare se i vasti capitali iraniani collocati all’estero che verranno “scongelati” dopo la revoca delle sanzioni saranno impiegati da Teheran per inondare il Medioriente con fiumi di liquidità volti a supportare il terrorismo sciita e i numerosi clienti iraniani della regione, a cominciare dal regime del presidente Assad in Siria fino ad arrivare ad Hezbollah in Libano e agli Houthi in Yemen. Da questo punto di vista sia Londra che Parigi sicuramente renderanno disponibili ai Paesi arabi i prodotti della propria industria militare (ovviamente non gratuitamente) per tutelarli dalla sdoganata minaccia iraniana ed in particolare Londra ha richiesto che sull’embargo alle forniture di armi e tecnologie missilistiche all’Iran ci fosse il massimo rigore possibile, fatto che deve aver contrariato non poco Mosca la quale non vede l’ora di poter vendere in ingenti quantità e alla luce del sole i propri ritrovati bellici all’alleato iraniano. Non possiamo dimenticare che la stessa Federazione Russia ha annunciato nel corso delle fasi finali dei colloqui l’intenzione di consegnare all’Iran il sistema di difesa missilistico S-300, fatto che certamente può già suggerire quale spirito di pacifica collaborazione aleggi attorno al contributo russo nella risoluzione della vicenda iraniana. Se la Russia ad ogni modo persegue coerentemente una propria linea di condotta politica, Francia e Regno Unito avranno sicuramente un bel daffare a spiegare a Paesi del Golfo ed Israele il loro insuccesso nel “riorientare” l’accordo sul nucleare iraniano. Infatti in questi mesi non è mancato chi avesse auspicato che i Paesi europei coinvolti, non dovendo aspirare ad alcuna ossessiva “eredità di sorta” come il presidente Obama, potessero in qualche modo calmierare l’ostinazione della diplomazia americana, fatto che però si è verificato solo in piccolissima parte. Da questo punto di vista occorrerebbe però ammettere che né Londra né Parigi allo stato attuale mai avrebbero avuto la forza politica per opporsi all’intesa, preferendo al contrario limitare od evitare eventuali danni su fronti di loro interesse (leggasi in particolare: ingresso delle imprese nazionali in Iran) ed unirsi al coro di giubilo, magari “facendo le corna in tasca”. Allo stesso modo sia Londra che Parigi, per quanto da dietro le quinte si siano giustificate adducendo il fatto di essere state messe in disparte nel corso delle trattative nonostante avessero ufficialmente preso parte ai negoziati, hanno sentito ugualmente l’urgenza di difendere un’intesa che fa parte a tutti gli effetti del loro percorso diplomatico, che influenza la loro credibilità e che comunque possiede importantissimi risvolti economici per le rispettive economie nazionali. Non è un caso che il ministro degli esteri britannico Hammond da un lato abbia criticato l’atteggiamento di ostinata chiusura di Netanyahu nei confronti dell’intesa ma dall’altro il giorno successivo aver espresso tali critiche si sia recato in Terra Santa per spiegare “di persona” al primo ministro israeliano le ragioni di tale accordo e probabilmente fornendo determinate informazioni e rassicurazioni in merito di cui al momento non è dato sapere. Parimenti lo stesso Cameron starebbe compiendo una medesima azione di rassicurazione nei confronti degli alleati arabi, adducendo il fatto che se da un lato l’intesa raggiunta dovrebbe aver eliminato il rischio di attività militari nucleari iraniane, dall’altro però appare comunque ben chiaro che l’attuale strategia geopolitica di destabilizzazione messa in atto da Teheran nella regione non permetta alcuna alleanza politica con il regime degli Ayatollah. La posizione del Regno Unito si è ulteriormente complicata a causa del recente attentato a Sousse in Tunisia durante il quale sono stati uccisi trenta turisti britannici da miliziani aderenti all’ISIS. La strage ha posto sotto pressione il governo Cameron, già da lungo tempo attaccato sulla sua politica estera sia in patria che all’estero (soprattutto dagli Stati Uniti), in particolare rispetto alla scelta finora adottata di bombardare il sedicente “Stato Islamico” in Iraq ma non in Siria, tattica promossa sia per evitare altri eventuali tragici rovesci di carattere parlamentare già sperimentati in passato da Cameron stesso proprio sulla crisi in Siria e che per far si di non rischiare di avvantaggiare, a causa dei bombardamenti contro l’ISIS, le truppe del regime di Assad ai danni dei ribelli moderati siriani supportati dal Regno Unito. La questione relativa all’eventuale risposta militare da dare all’ISIS è stata posta al Parlamento dal ministro della difesa Fallon, scaricando ufficialmente la responsabilità dell’attuale strategia politica di non intervento in Siria sull’opposizione laburista la quale fino a tempi assai recenti non ha mai concesso il proprio voto favorevole presso l’aula parlamentare al fine di autorizzare raid aerei in territorio siriano da parte della RAF. Il partito laburista questa volta non ha escluso una possibile collaborazione con il governo sul tema, in particolare a fronte della strage occorsa e della conseguente esigenza di elaborare una risposta all’atto terroristico compiuto ai danni di cittadini di Sua Maestà. I dubbi tuttavia serpeggiano in entrambi gli schieramenti politici. Infatti la partecipazione britannica alla coalizione a guida americana anti-ISIS risulta essere assai scarsa in termini di mezzi e uomini impiegati ed un’estensione dei raid aerei in Siria fornirebbe un ben misero contribuito militare, sottraendo, oltretutto, allo scenario iracheno risorse belliche finora impiegate nel solo Iraq. Rimane altresì in essere il problema dell’auspicata caduta del presidente Assad e di quale tipo di impatto possa produrre sia da un punto di vista geopolitico che militare bombardare l’ISIS ma non il regime. Nell’attesa di capire quale sia la migliore strategia adottabile nel più ampio contesto internazionale e nella sopravvenuta necessità di fornire una risposta al terrorismo islamico che uccide cittadini britannici all’estero e che ne recluta a centinaia in Patria, il governo Cameron, appena riconfermato nelle ultime elezioni politiche di maggio, sta prendendo tempo vagliando le numerose posizioni critiche presenti nel suo stesso partito ed attendendo che il Labour in autunno elegga un nuovo leader il quale a sua volta chiarisca quale sia la posizione ufficiale del suo partito sul tema. Non è un caso che proprio in questi ultimi giorni sia emersa agli onori della cronaca la notizia, seguita da polemiche senza fine, che renderebbe nota la presenza di personale militare britannico temporaneamente integrato e dislocato presso le forze armate americane e canadesi (una pratica di condivisione di personale militare tra forze armate in realtà consueta fin dagli anni ’50 con gli Stati Uniti ed il Canada e che più recentemente è stata estesa alla Francia), il quale avrebbe partecipato, sotto il comando militare del Paese ospite, ad azioni di bombardamento contro l’ISIS in Siria. Ciò rende l’idea di come la questione siriana e l’eventuale partecipazione ufficiale del Regno Unito ad operazioni militari in quel Paese possiedano innanzitutto un’importante connotazione politica che è da lungo tempo divenuta terreno di scontro presso la Camera dei Comuni sia per motivazioni di politica interna che estera.
L’evoluzione dello scenario siriano
Lo scenario siriano ha subito numerosi mutamenti nel corso degli ultimi mesi. Turchia, Qatar ed Arabia Saudita, posti di fronte con sgomento all’avanzata geopolitica e militare del comune nemico iraniano, già pronto a sguinzagliare i propri tentacoli lungo tutto il Medioriente a seguito dell’ormai inevitabile accordo sul suo programma nucleare, hanno recentemente saputo mettere da parte le antiche rivalità in territorio siriano (cosa che però non è piaciuta all’Egitto, a causa del ruolo dei Fratelli Musulmani, spingendo Il Cairo a minacciare, forse con scarso successo, di costituire una propria opposizione siriana in terra damascena), di fatto cementando una nuova alleanza di milizie ribelli in Siria, il cosiddetto “Esercito della Conquista”, che, assieme ad Al-Nusra (gruppo affiliato ad Al-Qaeda in probabile collaborazione con Qatar e Turchia), ha inflitto al regime di Assad una sconfitta dietro l’altra nel nord del Paese, liberando la provincia di Idlib dalle truppe del governo di Damasco. Attorno ad Aleppo i ribelli anti-Assad starebbero promuovendo a loro volta una controffensiva volta a cacciare le truppe siriane dalla porzione di città da queste occupata mentre nel sud del Paese l’esercito regolare starebbe arretrando sotto i colpi delle locali truppe anti-regime. I guai per Assad non finiscono qui perché l’ISIS, con il quale il regime intrattiene rapporti a dir poco ambigui se non di comodo, si è più volte dimostrato in grado di penetrare quasi all’interno del cuore di Damasco, mettendo a ferro e a fuoco il campo profughi di Yarmouk, ed è riuscito oltretutto a strappare capisaldi importanti per il governo centrale come l’antica città di Palmira. E’ noto che Assad abbia più volte utilizzato l’ISIS come “foederatus” utile a controbilanciare la pressione esercitata dai gruppi ribelli laici e dalle milizie islamiche-moderate. Parimenti l’ISIS e Damasco hanno a più riprese commerciato in prodotti petroliferi ed energia ed è noto che lo stesso Assad sia stato nei fatti un prezioso finanziatore del sedicente “Stato Islamico”, avendo intessuto importanti rapporti commerciali e di collaborazione economica con quest’ultimo. Il problema che tuttavia è emerso via via che l’ISIS acquistava peso politico e militare è che il mostro creato da Al-Baghdadi e progettato negli ambienti dell’insorgenza irachena, forse addirittura con l’iniziale celato beneplacito dello stesso regime siriano, più che costituire un mero gruppo ribelle con finalità terroristiche, mirava a controllare un territorio da utilizzarsi quale fonte di sostentamento economico per un certo numero organizzato di persone, di fatto trasformando ciò che inizialmente si era presentato come un gruppo ribelle posto in opposizione al governo di Damasco in un’entità parastatale con finalità che vanno ben oltre lo scenario della guerra civile siriana.
L’ISIS, terrorismo islamico internazionale e fenomeni tribali
La storia dell’ISIS e del terrorismo islamico è strettamente correlata alla dimensione tribale che costituisce tutt’oggi il cardine di vasta parte della società mediorientale (e non solo). In tale ottica ciò che in Occidente viene definito con il termine di “gruppo terroristico”, da un punto di vista islamista è probabile che le caratteristiche intrinseche di tale entità non differiscano assai dalla concezione arabo-musulmana di quello che rappresenta il nucleo fondante di quel antico mondo tribale risalente ai primordi dell’Islam che l’integralismo, principalmente di fede sunnita, vorrebbe riportare in auge, moralmente accompagnato da una lettura letterale se non totalmente distorta del Corano. Ciò che forse nel mondo occidentale non si è completamente compreso è che il fallimento ideologico dei regimi nazionalisti e autocratici (alcuni dei quali laici) presenti nel Vicino Oriente, fallimento successivo ai conflitti arabo-israeliani combattuti decenni or sono nella regione, ha fornito nuova forza vitale alle ideologie islamiste già in precedenza presenti nell’area mediorientale e nel Magreb, le quali, a poco a poco, non hanno fatto altro che riproporre in seno alla propria organizzazione interna gli elementi base del loro antico modello di società ideale, nella quale, tanto per fare un esempio, la tristemente nota cellula di Al-Qaeda forse non rappresenta altro che l’embrione di quel nucleo tribale che avrebbe dovuto costituire il mattone base di un nuovo mondo dominato da una società islamica integralista. Questa visione ancora elitaria promossa dalla famigerata organizzazione di Osama Bin Laden ha poi subito, a causa dell’intervento anglo-americano in Iraq, un processo di “democratizzazione”, nel senso che è stata resa accessibile, per via dell’insorgenza in corso, ad un numero sempre crescente di persone, trasformando così la cellula-tribù di Al Qaeda in un gruppo tribale vero e proprio, ovvero ciò che diventerà l’ISIS, a sua volta aperto ad un’idea di adesione internazionale per l’edificazione di una nuova società di stampo tribale mondiale (con tutte le accezioni negative che questo comporta) grazie alla presenza presso le comunità immigrate di religione musulmana stanziate nel mondo occidentale di nuove forme di “segregazione culturale”, impersonate dalla discutibile teoria del multiculturalismo che ha costituito uno dei cardini delle cosiddette “politiche di integrazione” di numerosi Paesi europei e che ha permesso la conservazione e la trasmissione dei valori sociali e culturali dei Paesi d’origine presso tali comunità. L’ISIS, in definitiva, rappresenta un gruppo di matrice tribale che, da un punto di vista ideologico, ha rifiutato la modernità in quanto espressione della civiltà occidentale ma che nel contempo ha assai abilmente utilizzato tecniche e tecnologie del mondo moderno per conseguire obiettivi di stampo barbarico e medievale. In quest’ottica la lotta al terrorismo globale promossa dall’amministrazione americana, tesa a colpire meramente i singoli leader senza analizzare l’intero contesto del bacino di reclutamento di matrice tribale nella sua più ampia complessità, ha forse peccato di scarsa prospettiva storica e sociologica, non riconoscendo al terrorismo un’origine legata prima al disagio e alle aspirazioni politiche delle élite del mondo arabo e poi al malessere socio-economico delle masse musulmane. Oggi come oggi, qualora la forza delle armi riuscisse a debellare l’ISIS, le problematiche sociali che hanno permesso il diffondersi di questa piaga molto probabilmente non scomparirebbero, essendo queste presenti “in interiore homine” presso i popoli del Medioriente e del Nord Africa, come bene si è visto quando sono venuti meno i regimi che governavano quelle aree a seguito del deflagrare delle primavere arabe. In realtà sconfiggere l’ISIS e tutte le sue possibili metamorfosi presenti e future significa in primo luogo ridistribuire ricchezza e responsabilità politiche, in un’ottica tribale, nei territori oggi devastati dai conflitti e dalle rivoluzioni, tenendo però ben presente che tale fardello, più che spettare all’Occidente, rappresenta un onere che sta in capo alle classi dirigenti di quei Paesi, le quali, nei decenni passati, hanno fatto cattivo gioco puntando comodamente il dito contro un Occidente “cinico e baro” per tentare in tal modo di giustificare di fronte agli indigenti e alle minoranze la presenza di favolose fortune entrate miracolosamente nelle tasche di poche “fortunate” famiglie grazie alla vendita degli idrocarburi e all’accumulo indiscriminato di ricchezze. Oggi di quel dito puntato contro il mondo occidentale paghiamo tutti le conseguenze, Paesi mediorientali inclusi, le cui aristocrazie regnanti sono viste dagli integralisti islamici come “colluse” con gli “infedeli”.
Assad rischia di fare la fine di Romolo Augustolo?
Tornando al conflitto siriano, il regime di Damasco ha pertanto utilizzato l’ISIS a suoi fini, perlomeno finché all’ISIS è tornata comoda questa politica, giacché l’ISIS comunque ambisce a guadagnare una completa supremazia nella regione e ad eliminare tutti i possibili avversari che non si vogliano piegare di fronte al progetto del “Califfato universale”. Perciò non appena più conviene, l’ISIS, come se si trattasse di un’antica tribù barbara collocata lungo il limes romano, lascia i suoi “acquartieramenti” e attacca le truppe del regime come più gli piace e pare. Non si può comunque escludere che il regime stesso si autoinfligga qualche “utile” sconfitta, come quella presso le preziose rovine romane di Palmira o addirittura presso lo stesso campo profughi palestinese di Yarmouk (dominato da fazioni anti-Assad), al fine di suscitare il timore internazionale nei confronti del destino delle opere d’arte presenti (e, a maggior ragione, lo sdegno corale in caso di danneggiamenti e distruzioni) e/o indurre mutamenti strategici e di alleanze sullo scacchiere internazionale. E’ emblematico il caso, emerso a mezzo stampa nel giugno scorso, di un attacco organizzato dalle truppe dell’ISIS finalizzato a bloccare una delle ultime arterie di comunicazione e rifornimento dei ribelli siriani impegnati nei combattimenti ad Aleppo. In tale frangente non è apparso certamente un caso che contemporaneamente all’offensiva dei miliziani di Al-Baghdadi, l’aviazione del regime bombardasse le medesime posizioni ribelli poste sotto assedio da parte dei fanatici dell’ISIS. E’ peraltro noto che solo una piccola percentuale delle operazioni militari condotte dal governo di Damasco sia stata scatenata contro l’ISIS stesso. Ciò detto, il deterioramento della situazione per il regime siriano, determinato sia dai numerosi rovesci militari subiti che da crescenti discordie interne alla cerchia politico-militare del regime e alla comunità alawita di appartenenza del presidente (quest’ultima pesantemente gravata sia dai costi umani del conflitto che in termini di danni economici), rischia prima o poi di far terminare la parabola politica del clan Assad, prima circoscrivendone l’influenza all’interno del territorio di appartenenza degli alawiti stessi e poi ponendo un termine al suo “regno” o tramite un colpo di stato interno al regime stesso oppure attraverso una vera e propria deposizione più o meno cruenta per opera di qualche suo alleato o “foederatus” come l’ISIS stesso. Le difficoltà del regime di Damasco, il quale rischia di fare la fine di Romolo Augustolo e dell’Impero Romano d’Occidente, sono ben note all’indispensabile alleato iraniano il quale, dopo aver promesso un sostegno incondizionato (non si sa fino a che punto) alla Siria di Assad, ha via via aumentato la propria assistenza al governo di Damasco, di fatto, a mano a mano che negli anni l’esercito regolare siriano si assottigliava in termini di coscritti e mezzi militari, arrivando progressivamente ad assumere il diretto controllo delle operazioni belliche tramite propri ufficiali impegnati sia nelle sale di comando che sul terreno (una delle ragioni dei malumori interni al regime siriano è stata proprio il graduale esautoramento dei comandanti dell’esercito regolare a beneficio di quelli iraniani imposti dall’alto) e attraverso milizie sciite arruolate in ogni dove in uno scenario che parte dall’Afghanistan (nel quale, fra le altre cose, i Talebani si starebbero scontrando contro i gruppi locali che avrebbero giurato fedeltà all’ISIS), coinvolge il Pakistan (addirittura probabilmente l’India) e che giunge tramite l’Iran e l’Iraq sino al Mediterraneo, aggiungendo a queste il fondamentale ruolo di Hezbollah a sostegno di Damasco.
I tentacoli di Teheran
La “longa manus” iraniana che ormai determina i destini di intere nazioni rappresenta l’elemento principale che ha fatto infuriare i Sunniti di tutta la regione, nei fatti suggerendo più volte agli Americani, i quali in Medioriente di fatto tengono il piede in due scarpe, di insistere presso il governo iracheno affinché il comando delle operazioni, solitamente preteso dagli Iraniani come accaduto nella prima fase della battaglia per la liberazione di Tikrit, venisse assunto, almeno a livello nominale, viste le deboli forze irachene in campo, dal governo di Baghdad, condizionando la partecipazione di velivoli americani ai combattimenti in corso all’accoglimento di questa richiesta. Purtroppo tale premura statunitense rappresenta una mera foglia di fico perché come si è ben visto nella regione di Anbar e a Ramadi, l’esercito regolare iracheno non appare assolutamente in grado, al contrario di quanto progettavano gli Americani in particolare rispetto al calendario preventivo per la riconquista di Mosul, di fare fronte alla minaccia rappresentata dall’ISIS. Nella realtà le uniche forze militari che attualmente possano confrontarsi con l’ISIS in Iraq, oltre i Curdi, sono le milizie sciite guidate e supportate con uomini e mezzi direttamente da Teheran le quali, nei fatti, hanno già da tempo scavalcato qualsiasi istituzione militare irachena nella scelta sia degli obiettivi che della strategia, tramutando il già fragile governo iracheno in un completo fantoccio degli Iraniani. Tale situazione ha già suscitato le proteste della Francia la quale ha dichiarato che i raid aerei francesi in Iraq contro l’ISIS (peraltro assai simbolici nei numeri) vanno a sostegno solo di un un governo iracheno inclusivo ed internazionalmente riconosciuto, facendo in tal modo comprendere che Parigi non intende supportare un esecutivo eterodiretto da forze settarie. Tuttavia a fronte del fatto che la strategia sul terreno in pratica venga dettata dai generali iraniani e visto che gli Stati Uniti si prestano contestualmente a coordinare l’assistenza aerea alle offensive programmate dagli ufficiali iraniani in Iraq, è ovvio che in realtà, nonostante il comodo paravento offerto da un evanescente governo iracheno, esista da molti mesi una diretta collaborazione tra Teheran e Washington che, guarda caso, ha prodotto, quale esito delle negoziazioni, questo accordo sul nucleare il quale, fra le altre cose, sgrava parzialmente dal fardello delle sanzioni i più grandi manovratori del terrorismo iraniano, tra i quali il novello architetto del nuovo Medioriente visto da Teheran ovvero il generale Qassem Suleimani.
L’incognita curda
La vicenda dei Curdi appare altrettanto emblematica. Sia i Curdi siriani che i Curdi iracheni rappresentano la seconda forza che si è rivelata in grado di tenere testa all’ISIS, purché supportati dai bombardamenti della coalizione internazionale a guida americana. In particolare in Siria i Curdi hanno recentemente mietuto numerose vittorie contro le truppe degli integralisti islamici di Al-Baghadadi, arrivando a minacciare la stessa capitale morale del cosiddetto “Califfato”, Raqqa, per quanto poi l’ISIS stesso abbia organizzato una serie di sanguinose controffensive che hanno in parte riequilibrato la situazione, arrivando a minacciare nuovamente la stessa Kobane. Tuttavia i Curdi in primo luogo ambiscono alla costituzione di un proprio stato sovrano e l’altissimo tributo di sangue pagato da questo popolo coraggioso è finalizzato fondamentalmente a questo scopo esclusivo. E’ assai improbabile che i Curdi, contrariamente a quanto sperano i sostenitori internazionali della dottrina “no boots on the ground”, impieghino le proprie milizie per procedere alla riconquista di tutti i territori occupati dall’ISIS, in particolare a fronte di una disponibilità di uomini e mezzi che è forse non sufficiente a perseguire tale obiettivo. Inoltre i Curdi non possiedono alcun interesse alla conservazione dell’unità territoriale sia dell’Iraq che della Siria, visto che ciò colliderebbe con le loro aspirazioni indipendentiste. Gli stessi ribelli siriani, pur collaborando con i Curdi nella lotta contro l’ISIS, hanno più volte denunciato violenze compiute dai Curdi stessi contro la popolazione araba, per quanto occorra ricordare che la “diffidenza” dei Curdi verso la popolazione non curda possa nascere anche dal fatto che l’ISIS sia solita infiltrare i gruppi di profughi che ritornano nelle proprie abitazioni dopo la fine dei combattimenti per far si che gli uomini dello “Stato Islamico” possano tornare allo scoperto al momento ritenuto più idoneo. A questo proposito è recente la notizia secondo la quale pare che gli Stati Uniti si siano opposti alla consegna diretta ai Curdi iracheni degli aiuti militari provenienti dai Paesi arabi probabilmente al fine di evitare di causare un eccessivo allarme nella vicina Turchia, la quale sta giocando un intricatissimo gioco di equilibri che naturalmente non contempla la creazione di uno stato indipendente curdo che verrebbe ad incidere profondamente sull’integrità del proprio territorio nazionale. Gli stessi Turchi hanno nelle ultime settimane rivisto le regole di ingaggio delle proprie truppe schierate al confine con la Siria nell’ipotesi che si renda necessario un intervento militare di Ankara in Siria sia contro l’ISIS che (soprattutto) per evitare che i Curdi possano proclamare un proprio stato indipendente da un momento all’altro. Gli stessi Paesi europei non vedrebbero con favore un mutamento dei confini degli stati mediorientali sorti dopo il crollo dell’Impero ottomano ed in particolare il Regno Unito, il quale cerca in tutti i modi di non urtare la suscettibilità di Ankara, auspicherebbe un maggior impegno turco per la stabilizzazione dell’area per quanto si renda necessario in qualche modo ricompensare i Curdi per l’alto tributo di sangue finora versato. In realtà ciò che appare altrettanto vero è che se da un lato gli Americani vorrebbero che le armi inviate a favore delle milizie curde venissero consegnate prima al governo di Baghdad e poi da questo distribuite ai Curdi stessi, dall’altro i Paesi arabi probabilmente preferiscono indebolire il governo sciita di Baghdad scavalcandolo e rinforzando in questo modo i Curdi, mettendo contemporaneamente i bastoni fra le ruote dei piani dell’Iran sciita ed agevolando così le aspirazioni secessioniste del popolo curdo. In definitiva i Curdi hanno assunto anch’essi la funzione di “foederati” (supportati da volontari occidentali, probabilmente incanalati dall’intelligence americana a fini militari o più puramente propagandistici), ovvero di pedine da manovrarsi nel “grande gioco” internazionale in corso in Medioriente. Seguendo le medesime logiche Israele sta supportando le milizie ribelli anti-Assad al confine con la Siria al fine di creare un cuscinetto con Hezbollah e le ambizioni dell’Iran nell’area, salvo subire qualche “effetto collaterale” causato dalle interazioni non propriamente benevoli tra Al-Nusra e la comunità dei Drusi, le cui rimostranze stanno dando non pochi grattacapi al governo israeliano.
Mancanza di strategia
Nel caos generale di una strategia “a stelle e a strisce” confusa e contorta, lo stesso Obama, pur continuando ad aumentare il numero di addestratori in Iraq nonostante la contestuale sorprendente mancanza di reclute da istruire, ha nuovamente dichiarato con grande candore di non possedere ancora una strategia completa per combattere l’ISIS e nel contempo lo stesso piano di addestramento dei ribelli siriani da impiegarsi contro lo Stato Islamico, già di per sé gravemente deficitario, si sta rivelando un fiasco totale dato che i ribelli siriani, supportati in ampia misura dai Paesi del Golfo e dalla Turchia, sono in primo luogo interessati a combattere Assad, aspetto che gli Americani al momento non contemplano dovendo ingraziarsi gli Iraniani affinché questi riportino ordine sul terreno in Iraq. Non è in tal senso strano che la partecipazione ufficiale del Regno Unito (assieme alla Francia) ad entrambi i programmi di addestramento risulti alquanto limitata, sebbene recentemente potenziata, visto che l’amministrazione americana manca del tutto di una strategia coerente e credibile ed in Siria i Britannici già da tempo possiedono propri canali di supporto ed interazione con i ribelli anti-Assad assieme ai Francesi e ai Paesi arabi. In questo scenario estremamente frastagliato dove si nota drammaticamente la mancanza di un “direttore d’orchestra” che riporti ordine in un caos sempre crescente, sono le “milizie tribali”, i “barbari” del nostro tempo, che si sono tramutate nei veri esecutori materiali di un conflitto in essere fra potenze che coinvolge vaste porzioni di mondo per la supremazia politica, economica e militare. In un contesto nel quale si stanno scontrando sfere di influenza opposte, vediamo gli Stati Uniti da un lato ormai propensi a cedere all’Iran la “patata bollente mediorientale” e a mandare “a quel paese” i vecchi alleati sunniti ma, dall’altro, gli stessi Americani appaiono ancora indotti, a causa di pressioni interne ed esterne nonché della probabile consapevolezza che un Medioriente ed un Magreb in fiamme non convengano neppure agli Stati Uniti, benché richiusi in una “turris eburnea”, a non scontentare né gli Arabi né i Turchi, continuando a prestare orecchio alle loro istanze geopolitiche. La medesima dicotomia è riscontrabile in Europa dove lo scontro con la Russia viene gestito da Washington nella medesima modalità. Da un lato gli Usa stanno per inviare su richiesta dei Paesi dell’Europa orientale, pressati dalle ambizioni geopolitiche dell’Orso russo, un numero simbolico di mezzi militari americani per mostrare loro una sorta di interessamento, dall’altro però Obama non ha perso tempo per ringraziare Putin per l’aiuto interessato che la Russia ha fornito sul caso iraniano, desideroso forse di poter intavolare presto altre “altisonanti” storiche intese con il nemico di sempre. Il fatto che gli Stati Uniti non abbiano ancora chiaramente deciso se inviare o meno ufficialmente le cosiddette “armi letali” all’Ucraina, già può fungere da cartina di tornasole sulla confusione che regna sovrana alla Casa Bianca in tema di politica estera.
Crisi di leadership irreversibile?
Il mondo occidentale sta conoscendo ormai da diversi anni una preoccupante crisi di leadership causata dal desiderio della presidenza Obama di sganciarsi dalle problematiche geopolitiche del Medioriente e, probabilmente, del resto del mondo, nonostante si sia per lungo tempo giustificato tale mutamento di prospettiva con un riposizionamento delle forze militari USA verso l’Estremo Oriente per controbilanciare la crescente minaccia dell’espansionismo cinese. In realtà è possibile ipotizzare che la politica dei “piccoli passi” promossa dal governo di Pechino difficilmente costituirà la causa di una guerra tra l’ex-Celeste Impero e gli Stati Uniti, in particolare a fronte degli interessi economici che gli Usa hanno in seno all’economia cinese (sempre che la bolla della borsa del “dragone rosso” non crei scenari al momento imprevedibili). Da questo punto di vista probabilmente prevarranno il realismo e la necessità da parte degli attori regionali di provvedere in maniera sempre più autonoma e coordinata con i partner locali alla propria difesa. Fra questi il Giappone potrebbe nuovamente assumere un ruolo guida nell’area nell’arco di alcuni anni. Le notizie in merito alle opere civili e militari realizzate illegalmente dai Cinesi presso le isole Spratly hanno certamente contribuito ad alzare pericolosamente i toni del confronto fra Pechino e tutti gli attori internazionali che reclamano diritti sull’arcipelago, ovvero Brunei, Malesia, Filippine, Taiwan e Vietnam. La nascita della nuova Banca Asiatica d’Investimento per le infrastrutture (AIIB) cinese ha visto l’adesione entusiastica di numerosi Paesi europei e mediorientali, causando un serio risentimento negli Stati Uniti per quello che Washington considera un vero e proprio tradimento, in particolare da parte del Regno Unito che è stato il primo paese occidentale ad aderirvi, forse spinto, fra le altre cose, ad inviare un segnale a Washington dopo alcune spiacevoli disavventure legali subite da alcune banche londinesi negli USA (si vedano i casi di Hsbc e Standard Chartered). E’ fra l’altro recentemente emersa agli onori della cronaca la notizia che Francia e Regno Unito fossero stati accusati fra il 2011 e il 2012 da una personalità vicina ad Hillary Clinton di fomentare le divisioni interne alla Libia per il proprio tornaconto economico ed in particolare il Regno Unito avrebbe mantenuto contatti di convenienza con il regime libico nel corso della guerra civile contro Gheddafi. In maggio l’incontro promosso dal presidente Obama negli Stati Uniti volto a rassicurare i Paesi arabi rispetto la prosecuzione dell’impegno USA al loro fianco, nonostante la storica distensione in corso con l’Iran, è stato disertato da gran parte dei maggiori dignitari di quei Paesi, impiegando, fra le altre cose, tutta una serie di giustificazioni a dir poco singolari tra malattie ed indisposizioni varie (rimarrà sicuramente agli annali della cronaca l’improrogabile impegno di un regnante arabo presso “The Royal Windsor Horse Show”, uno spettacolo equestre molto noto nel Regno Unito). Gli Stati Uniti, quasi si trattasse di una sorta di riparazione per i danni politico-militari prodotti dall’accordo sul nucleare iraniano (accordo, stando alle dichiarazioni di Obama, che dovrebbe al contrario aumentare la sicurezza nella regione), stanno offrendo sia ai Paesi arabi che ad Israele tutta una serie di compensazioni poste sotto forma di fornitura di armi e tecnologie militari. Tuttavia Paesi quali l’Arabia Saudita, già pesantemente scottati da ciò che viene considerato come uno storico voltafaccia americano, hanno da tempo dichiarato che l’accettazione statunitense di un Iran dotato di tecnologie nucleari innescherà una corsa da parte dei Paesi del Golfo per dotarsi anch’essi della bomba atomica al fine di non farsi trovare impreparati quando le restrizioni imposte al nucleare iraniano verranno meno con lo scadere dell’attuale accordo (sempre posto che l’Iran nei fatti lo rispetti). In Europa la crisi greca e la sua gestione di stampo “coloniale” ha reso ulteriormente palese ciò che ormai era considerato un dato di fatto già da alcuni anni, ovvero che l’emersione della Germania quale Paese egemone del Vecchio Continente sembri ormai una realtà inesorabile per quanto la Francia si sforzi ancora di apparire quale “primus inter pares” con Berlino. Soprattutto in politica estera Francia e Germania hanno parlato con la stessa voce sulla crisi ucraina, facendo recentemente capire a Kiev che l’Europa aspira ad una normalizzazione dei rapporti con la Russia e che pertanto Poroshenko dovrà adoperarsi per mettere in pratica gli impegni presi per la risoluzione del conflitto nel Donbass. Le preoccupazioni geopolitiche di Washington (o perlomeno di quella parte dell’amministrazione USA interessata a conservare un piede ben piantato in Europa) rispetto alla collocazione internazionale della Grecia hanno dovuto fare i conti con le preponderanti prerogative dei creditori europei, i quali da un lato temono per la tenuta della zona euro ma dall’altro pretendono che Atene restituisca agli stati e alle banche ogni singolo centesimo. La proposta americana, mediata dal Pentagono, di riportare in Europa missili nucleari in funzione anti-russa non è stata salutata con particolare entusiasmo dal Regno Unito il quale non ambisce certamente a diventare nuovo terreno di scontro fra Est ed Ovest, soprattutto alla luce della confusione e della mancanza di strategia con la quale opera l’amministrazione americana da quando Obama ne ha assunto la presidenza. Allo stato attuale la minaccia russa è particolarmente sentita dai Paesi dell’Europa orientale i quali stanno dando sponda ai cosiddetti “falchi americani”, forse nutrendo fin troppa fiducia in un’America che comunque sta concedendo loro solo le briciole di quella forza militare che effettivamente era impiegata in Europa nel corso della guerra fredda durante la quale, per la verità, il pericolo di una invasione russa su larga scala era effettivamente pressante. Oggi come oggi il desiderio della Germania e di altri Paesi europei di ristabilire pieni rapporti commerciali con la Russia non permette più ad una politica americana in parte disorientata e divisa al suo interno di dettare legge in Europa su temi di difesa e di politica estera come avveniva in passato, per quanto i Paesi scandinavi comunque sentano la necessità di un coordinamento con la Nato proprio nell’ottica di fare fronte comune contro le accresciute ambizioni moscovite. Non è un caso che gli stessi impegni in termini di spesa militare suggeriti dall’adesione alla Nato vengano in gran parte disattesi dagli stessi stati membri, forse però sottovalutando il fatto che i mutamenti geopolitici in corso, più che le richieste di maggior contributo economico-militare degli Americani, imporrebbero un aumento della spesa militare ai Paesi europei, per lo meno per far fronte alla crescente instabilità che sta permeando un mondo sempre più lasciato a se stesso. In questo clima di “tana libera tutti” che avvolge l’Occidente e le sue periferie, Russia e Cina stanno cementando la loro collaborazione, sia in termini difensivi che di politiche energetiche. La politica cinese appare ad ogni modo ancora abbastanza prudente, avendo ancora a che fare con importanti problematiche di carattere interno, con una crescita che non appare più spedita come in passato e un’economia che ancora è troppo dipendente dalle esportazioni. La Russia possiede note ambizioni imperiali, aspirazioni che si sono potute concretizzare nel momento in cui Obama ha fornito la prova finale del proprio desiderio di disimpegno, annullando l’attacco aereo in Siria contro il regime di Assad non appena il suo promotore politico, il premier inglese Cameron, è tragicamente scivolato sul voto della Camera dei Comuni. Tuttavia, come la crisi greca ha insegnato, Putin, soprattutto dopo il crollo del prezzo del petrolio, non possiede le risorse economiche necessarie per riuscire a strappare all’Europa occidentale Paesi chiave sia dal punto di vista strategico che politico. Ciononostante Russia e Cina possono al contrario trarre pieno vantaggio dalla situazione di instabilità in Medioriente e Nord Africa, laddove l’accordo sul nucleare iraniano rischia di dare l’ultima spallata ad un ordine geopolitico che scricchiola pericolosamente già da alcuni anni. Mentre nuovi equilibri si stanno consolidando, come quello tra Israele (che ha promesso di esercitare tutta la propria influenza sul Congresso americano in sede di approvazione dell’accordo sul nucleare iraniano, attaccando frontalmente Obama e i suoi) e i Paesi arabi sunniti, l’Iran probabilmente riuscirà a rafforzare la propria influenza in Iraq mentre in Siria, qualora il presidente Assad, nonostante il previsto incremento di supporto iraniano di cui potrà beneficiare con la conclusione delle sanzioni a Teheran, si dimostri incapace di vincere la guerra o di conservare la supremazia statuale nell’attuale teatro dei combattimenti, è possibile che si possa configurare un accordo con le potenze coinvolte nel conflitto per la creazione di un governo inclusivo senza Assad ma con uomini del regime al suo interno. Sembrerebbe che tale ipotesi sia stata prospettata nel corso di una recente telefonata tra Putin e Cameron, quest’ultimo impegnato assieme ai Paesi arabi a verificare la fattibilità di un governo di unità nazionale in Siria e del contestuale allontanamento dello stesso presidente Assad. La situazione mediorientale è in piena ebollizione e compiere previsioni oggi appare a dir poco arduo. Le condizioni politiche che in passato hanno portato alla costituzione del gruppo 5+1 oggi come oggi appaiono svanite, creando un inquietante velo di obsolescenza attorno a tutto l’impianto diplomatico che ha circondato le trattative in questi ultimi mesi. Perciò le possibili conseguenze geopolitiche dell’accordo sul nucleare iraniano lasciano intravedere un futuro assai incerto e preoccupante per tutto il Vicino Oriente. Il mondo sunnita probabilmente chiamerà a raccolta i suoi, nell’estremo tentativo di fare fronte comune contro l’Iran sciita ed i suoi alleati regionali. Non è un caso che l’Arabia Saudita stia tentando un nuovo abboccamento con Hamas (che combatte l’ISIS a Gaza ma vi collabora nel Sinai), per quanto quest’ultima organizzazione, nonostante la vicinanza espressa in passato ai ribelli anti-Assad ed i legami con il Qatar (la triangolazione Qatar, Hamas, Iran sicuramente farà a lungo discutere in futuro così come la disponibilità turca a rapporti economici privilegiati con Iran e Russia nonostante l’ostilità in essere sulla Siria), sia stata sovente molto più vicina all’Iran. Turchia, Qatar ed Arabia Saudita hanno oltretutto già ipotizzato un intervento militare congiunto in Siria a sostegno dei ribelli anti-regime e c’è chi inoltre preconizza, ricalcando quanto pianificato nel corso della prima guerra del Golfo, una coalizione internazionale a cui dovrebbero partecipare i Paesi sunniti e i Paesi occidentali, costituita con lo scopo di riportare ordine in Medioriente e scalzare le mire iraniane dalla regione. Francia e Regno Unito, non sapendo bene che pesci pigliare, tenteranno di navigare a vista facendo quello che possono, nella speranza che l’evoluzione degli eventi in qualche modo produca chiarezza, mantenendo strette le relazioni con il mondo arabo (soprattutto in termini di forniture belliche) e sforzandosi di portare a casa in qualche modo una bella fetta della ghiotta torta iraniana. La Russia, assieme alla Cina, cercherà di cavalcare la nuova tigre persiana sia in termini politici che economici, per quanto l’ingresso del petrolio iraniano nel mercato degli idrocarburi mondiale potrebbe causare una nuova caduta del prezzo del greggio, a pieno svantaggio del governo moscovita, dopo che un lieve incremento del costo del barile, avvenuto nei mesi scorsi, aveva aiutato Mosca a risalire la china della crisi economica. Di tutti i Paesi coinvolti in questa babele di intrighi e conflitti gli Stati Uniti rimangono la grande incognita, i quali da un lato cercheranno nuovamente di rassicurare i loro alleati arabi sui loro buoni propositi ma dall’altro continueranno a collaborare in maniera sempre più stretta con l’Iran sullo scenario della crisi siro-irachena, generando un turbine sempre più equivoco e contraddittorio di relazioni che rischia di centrifugare via la pace e la stabilità dal Medioriente a pieno vantaggio dell’ISIS (il quale prospera laddove il caos regna sovrano e le istituzioni statali vacillano) e della sua rete di nuovi adepti in continua espansione, disseminati ormai dall’Africa all’Afghanistan ed in crescente coordinamento fra loro.
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