di Leonardo Servadio

Senkaku: meno di sette km quadrati distribuiti su 8 isolette disabitate. Stanno tra Cina, Taiwan e Giappone e appartengono alla prefettura giapponese di Ishigaki. Ora la Cina le contende al Giappone e anche Taiwan vi nutre ambizioni. Altre dispute riguardano le isole Parcel (Paracelso) la cui estensione è di poco superiore (ma hanno 2000 abitanti) e sono più meridionali . Le isole Spratly sono tante e hanno circa 300 abitanti, e sono contese da Cina, Vietnam, Malesia, Filippine, Brunei e Taiwan. Tutti piccoli lembi di terra, scogli, e isolotti artificiali. Ma attorno al loro possesso potrebbe scoppiare la terza guerra mondiale.

Vi sono questioni che hanno a che vedere con i giacimenti sottomarini di petrolio e gas, individuati nel mare vicino alle Senkaku. Vi sono altre questioni che riguardano i diritti di pesca: i pescherecci giapponesi e cinesi circolano attorno alle Senkaku con la protezione delle rispettive marine militari. Arrivano a flotte di centinaia di imbarcazioni e si infittiscono gli incidenti col passare del tempo. Le forze aeree di Cina e Giappone da anni fanno a gara per dimostrarsi più aggressive e risolute nel proteggere lo spazio aereo delle isole: arrivano apparecchi militari cinesi e subito sono intercettati da quelli giapponesi, e viceversa. Se nel 2008 si sono contati 22 casi di intercettazione aerea, nel 2016 ve ne sono stati 644, quasi due al giorno: un’escalation che sta raggiungendo condizioni critiche. Più sono i casi di intercettazione, più aumenta il rischio di incidenti.

RIcognitore giapponese sorvola le Senkaku (2016)
Ricognitore giapponese sorvola le Senkaku (2016)

Più a sud, negli ultimi anni la Cina ha utilizzato la presenza di scogli e di fondali bassi corallini per costruire nelle Spratley piste di atterraggio per i propri aeroplani: vere e proprie isole artificiali in funzione militare.

Porto militare costruito sulla barriera corallina, isole Spratly
Porto militare costruito sulla barriera corallina, isole Spratly

Nel Mar cinese meridionale passa ogni anno un flusso commerciale valutato in circa 5300 miliardi di dollari: la zona a maggiore densità di trasporti marittimi al mondo. Controllare questa regione marittima equivale a controllare il flusso sanguigno che irrora l’economia mondiale.

Un tempo, per tutto il secondo dopoguerra, gli Stati Uniti l’hanno fatta da padroni in queste zone: il Giappone era piegato, la Cina era un paese del Terzo Mondo agricolo, il Vietnam era ingabbiato nella cruenta guerra tra sud e nord.

Ma in questi ultimi vent’anni c’è stato il vero grande balzo in avanti. Il Giappone già da tempo era diventato grande esportatore di beni tecnologici; poi s’è aggiunta la Corea; la Cina da qualche anno ha superato tutti quanti tranne gli USA ma ora sta contendendo a questi ultimi il primato del potere economico nel mondo, il Vietnam si sta inserendo nei circuiti internazionali con l’impeto di un’economia effervescente; l’India si concepisce come concorrente con la Cina.

Sul piano militare la situazione di reciproca concorrenza non è da meno, a partire dall’espansione nello spazio: la Cina sta preparando il suo sbarco sulla Luna e la sua missione su Marte; l’India anche procede per suo conto a tappe forzate nell’esplorazione spaziale.

In una visione da imperialismo ottocentesco avremmo tutti gli ingredienti per il configurarsi di un conflitto: la competizione a primeggiare e conquistare territori, rotte, il controllo degli spazi. Ma di acqua sotto i ponti e nelle correnti oceaniche da allora ne è passata tanta: che il commercio e l’economia globalizzata viva dell’interconnessione e di mutua interdipendenza lo sanno tutti, a partire dai Cinesi e dai Giapponesi. Il primario obiettivo quindi non è combattersi, ma competere.

Il problema è che a queste condizioni oggettive si sommano problemi soggettivi.

La Cina si chiama Celeste Impero, ma non ha mai avuto ambizioni imperiali al di fuori dei propri confini. Il problema è: dove stanno esattamente ora i suoi confini?

Taiwan agli occhi della Cina continentale è ancora una provincia in attesa di essere riacquisita. E tale concetto si estende alle isole Senkaku, che furono conquistate dai Giapponesi solo alla fine del XIX secolo, e ai tanti altri isolotti dell’oceano cinese.

Non solo, la Cina, come la Corea, è stata oggetto delle imprese imperialiste giapponesi alla fine del XIX secolo e negli anni Trenta del ‘900, e queste hanno lasciato un ricordo bruciante, di violenza feroce.

Vi son aspetti emotivi che si depositano nella coscienza collettiva, nelle tradizioni culturali dei popoli, e da questi possono sorgere movimenti non razionali, non calcolabili.

E il Giappone, pur pago della sua agiatezza economica, abituato a sentirsi il padrone del Pacifico, potrà accettare pacificamente di essere scalzato da tale posizione, a causa del fatto che il miliardo e trecento milioni di Cinesi continentali ha raggiunto un peso economico e tecnologico che minaccia di soverchiarlo?

E da parte americana, la presidenza Trump, com’è noto, è partita con accenti assai problematici: già a inizio dicembre, ancor prima di insediarsi alla Casa Bianca, ci fu l’amichevole telefonata con la premier taiwanese Tsai Ing-wen, eletta nel gennaio 2016 in quanto esponente del Partito democratico progressista che aspira all’indipendenza di Taiwan, contrapponendosi ai nazionalisti cinesi del Kuomintang, i quali, dopo esser stati battuti da Mao nel 1949, hanno governato l’isola sempre ritenendola parte delal Cina continentale. Com’è noto il seggio riservato alla Cina nelle Nazioni Unite è stato occupato dagli esponenti del governo di quel che è oggi chiamata Taiwan fino al 1971, quando quel seggio è passato alla rappresentanza della Repubblica popolare cinese, ovvero alla Cina continentale comunista, che per conseguenza da allora è ufficialmente ritenuta “l’unica vera Cina” nel mondo. Se il partito Kuomintang, pur contrapposto al comunismo, si è sempre considerato parte dell’unica Cina, il Partito democratico progressista taiwanese aspira invece al riconoscimento di Taiwan come Paese indipendente dalla Cina continentale: e questo è un atteggiamento non accettato da Pechino.

Pur avendo riconosciuto la Cina continentale dal 1979, con relativo scambio degli ambasciatori, gli Stati Uniti hanno sempre continuato a sostenere militarmente l’indipendenza della Cina repubblicana di Taiwan, e Trump ha ribadito con forza questo sostegno, mostrando quel che appare come una netta preferenza verso Taiwan. In questo Trump ha sviato dalla politica di equilibrio perseguita dagli USA a partire al 1971, quando il presidente Nixon e il segretario di stato Kissinger cominciarono a dialogare con la Cina comunista in funzione antisovietica. Da allora gli Stati Uniti hanno sempre mantenuto una buona relazione con la Cina continentale, pur continuando a proteggere una Taiwan indipendente, anche se secondo la Cina continentale questa è destinata a rientrare sotto la sua egida.

Quindi, nel complesso oggi l’oceano Pacifico è potenzialmente la zona meno pacifica del mondo. Vi covano infatti le dispute sulle diverse isole sopra citate, le tensioni derivanti dal desiderio della Cina continentale di recuperare Taiwan e, d’altro canto, di Taiwan di essere riconosciuta come paese a tutti gli effetti indipendente.

A questo si sommano:

Le storiche tensioni tra Cina e Vietnam, che risalgono indietro nel tempo e si sono tradotte in conflitto armato nel 1979.

Le tensioni tra Cina e Corea (la Cina si preparava a un conflitto col Vietnam quando nel 1950, maturato il conflitto tra le due Coree che covava dal ’48, spostò le sue truppe dal confine col Vietnam al nord, per sostenere la Corea del nord che altrimenti sarebbe stata soverchiata dagli Stati Uniti).

Le tensioni tra India e Cina che, derivanti dal problema del controllo del Tibet, già nel 1962 diedero vita a un conflitto armato tra i due, e che oggi rinascono a seguito del fatto che l’India è l’unico Paese al mondo il cui peso demografico è simile a quello della Cina e al momento la sua economia sta crescendo in modo molto rapido tanto da potersi sentire in grado di sfidare la potenza cinese.

Le tensioni tra Corea del Nord, con il suo regime comunista-feudale nuclearizzato e il resto del mondo.

Se si considera tale situazione nel suo complesso, si nota che sono molte le ferite aperte, le rivendicazioni reciproche, i desideri di “fare giustizia” recuperando quanto si ritiene sia stato sottratto in passato da potenze straniere.

Quindi, se da un lato abbiamo oggettivi interessi economici che spingono a un rapporto di mutua collaborazione, promossi con energia dalla Cina, in particolare con la Banca asiatica per le infrastrutture e gli investimenti, dall’altra però vi sono l’emotività delle persone, i ricordi delle vecchie ferite che possono essere facilmente rinfocolate.

Il che può avvenire tanto più facilmente se gli Stati Uniti volessero spingere sul pedale dell’attrito e della competizione con la Cina, a ciò portati anche dal fatto che la politica di investimenti promossa dalla Banca per gli investimenti infrastrutturali, promossa in primis dalla Cina, si contrappone alle politiche finanziarie speculative portate avanti dalla parte predominante del sistema bancario occidentale, alle quali sinora hanno tenuto bordone il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale.

Sullo sfondo di tale scenario, il problema delle piccole isole, degli scogli disabitati nelle acque tra Cina, Giappone, Taiwan, Vietnam e Filippine, diventa potenzialmente drammatico.

L’Europa farebbe bene a interessarsi attivamente del problema per cercare di contrapporre all’irruenza scompaginata di un Trump, una politica di lungo respiro volta a promuovere equilibri, e non conflitti tra i paesi asiatici.

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