di Stefano Mavilio
Due volte da ragazzo ho incrociato l’ingegner Riccardo Morandi, nella persona dei suoi collaboratori. La prima volta, giovane diplomato di liceo classico, volendo diventare architetto, accettai l’offerta del padre, ingegnere, di un compagno di classe, che vedendomi totalmente impreparato sugli aspetti tecnici dello studio che avrei affrontato di lì a poco, mi propose un praticantato al suo studio.
Un piccolo studio, come tanti in quegli anni – era il ’75 – a conduzione individuale, oggi certamente improponibile. L’ingegnere in questione (di cui ometto il nome per rispetto alla persona) fu allievo di Morandi, del quale parlava con occhi trasognati, giacché, come tanti allora e prima di allora, lo considerava un Maestro e, come tale, capace di grandi imprese.
Cosa imparai nel suo studio professionale? Imparai a fissare il foglio di carta lucida al tavolo da disegno con le puntine. Imparai a usare le matite (temperare le matite con la carta vetrata, un’arte dimenticata) e soprattutto imparai ad usare i “rapidograph”, strumento infernale ma indispensabile per il disegno a china. Imparai soprattutto a disegnare e quotare i ferri nelle strutture in calcestruzzo armato. Erano infatti, quelli, gli anni nei quali finiva la grande stagione del calcestruzzo; stagione pionieristica, che aveva fatto grande l’Italia nel nome dei suoi progettisti. Erano stati anni di sperimentazione, molta sperimentazione; perché il cemento armato “precompresso” che si fa risalire agli anni trenta, era ancora giovane, in particolar modo nella versione a cavi “postesi” che con grande impegno avrei studiato presso la facoltà di Architettura a Valle Giulia, con un altro grande calcolatore, anch’egli scomparso da qualche anno, Antonio Michetti (fu per anni collaboratore di Luigi Pellegrin, e gli si attribuisce l’invenzione del ò “mattoncione” come lui stesso lo chiamó, mediante il quale fu possibile erigere la Chiesa del Giubileo del 2000 a Roma, a firma di Richard Meyer).
Assai “grande” e rilevante era stata la scuola romana di calcolo, fra romani “DOC” e di importazione: lo stesso Michetti già citato e a seguire, in puro ordine alfabetico: Bellante, Boscotrecase, Carrè, Cestelli Guidi, Colonnetti, Danusso, Giannelli, Gallocurcio, Levi, Maresca, Montuori, Nervi, Sylos Labini, Zorzi e mi scusino i tanti altri dei quali non ho memoria. Fra tutti per genialità spiccava Sergio Musmeci, autore del ponte sul Basento, unico per forma e intuizione progettuale, che non esito a definire anche “artisticamente bello”.
Cos’altro imparai dall’ingegnere presso cui lavorai? Che negli anni della sperimentazione si faceva a gara a superare i limiti imposti dalla materia: volte sottili, solette sottili, impalcati sottili, sempre più sottili. Raccontava l’ingegnere che una mattina, giunti in cantiere (una delle infinite palazzine romane degli anni ’60), trovarono i balconi, appena disarmati, tristemente piegati all’ingiù. Un errore di calcolo? Una constatazione piuttosto: su quegli spessori, poco più di dieci centimetri, il solo ferro non riusciva a resistere a flessione, mancando quasi del tutto l’apporto del calcestruzzo. Rimboccate le maniche, demoliti i balconi fallati, si provvide a ricominciare. Quanti balconi al limite della fisica elementare e del calcolo, si sporgono garruli dalle palazzine romane? Nondimeno la parola d’ordine fu: sperimentare. Tanta sperimentazione comportava, per l’appunto, clamorosi fallimenti oltre che gli straordinari successi che fecero grande l’Italietta del “boom economico”.
Non è un caso che dando alle stampe il suo Architettura Italiana ultima, Agnoldomenico Pica sentisse la necessità di porre in copertina (v. Foto 1) la foto di un ponte (quello sulla strada per Sperlonga Terracina realizzato fra il ’53 e il ’56 su progetto di Bellante e Maresca) e molti altri inserì fra le pagine della pubblicazione, insieme a progetti diversi: grandi coperture, impianti sportivi, stazioni ferroviarie, residenze e perfino cinematografi (vedi Foto 2), le cui strutture primeggiavano per intelligenza e originalità, tanto da far nascere il mito di una “Scuola Italiana di Ingegneria”, alla cui rapida ascesa seguì “altrettanto rapida e improvvisa l’involuzione”. Una storia ancora tutta da scrivere.
Si procedeva dunque, come in ogni stagione sperimentale, ad azzardi frequenti, sulla scorta del solo intuito.
Si rammenti il lettore, che gli strumenti di calcolo, pur esistenti, erano supportati dalle sole matite e dai regoli calcolatori. I computer come li conosciamo noi, erano lungi dall’apparire. I telefoni avevano la ruota compositrice. Di fax neanche a parlarne: taluni possedevano il telex. Si racconta che quando il giovane Pier Luigi Nervi, disarmando le volte dell’hangar di Orbetello, si accorse della vibrazione indotta nella struttura, estraesse dal taschino il regolo calcolatore e con il solo aiuto dell’orologio, calcolasse in pochi attimi il tempo di smorzamento della vibrazione, tranquillizzando se stesso e le maestranze. Analogo episodio si narra a proposito del disarmo dei balconi della villa Kaufmann del già maturo Frank Lloyd Wright e l’accostamento non risulti casuale.
La seconda volta che incrociai l’ingegner Morandi fu con il padre di un altro amico. Anche quest’altro ingegnere, assistente di Morandi, durante la costruzione del ponte sulla laguna di Maracaibo (fra il 1957 ed il ’62) quando parlava del Maestro, lo faceva con occhi trasognati, giacché, come tanti allora e prima di allora, lo stimava capace di grandi imprese. Raccontava di come fosse difficile quel cantiere, vuoi per le condizioni ambientali, vuoi per le soluzioni tecnologiche impiegate. Una fra tutte: l’uso di casseforme gonfiabili, quasi dei canotti, per la realizzazione dei vuoti nelle sezioni degli impalcati; soluzione geniale ma che alla lunga risultò impraticabile. Non avendo motivo di dubitare dell’onestà del racconto, neanche posso smentire, giacché nessuno degli attori è qui a testimoniare. Ancora tanta genialità e tanta sperimentazione.
Qualche conclusione di puro ragionamento. Se certe opere realizzate in quegli anni sono artisticamente eccezionali, presentando i caratteri del “bello”, oppure più semplicemente sono testimonianza del genio italico, sarebbe etico che venissero conservate: vuoi perché belle, vuoi a ricordo di quei professionisti, dei quali perpetuare la memoria per le future generazioni sarebbe obbligo.
Se il ponte sul Polcevera negli anni è costato in manutenzioni l’80 per cento del costo di costruzione, come rammenta l’ingegner Antonio Brencich, due sono i casi: o gli si riconosce valore artistico, o gli si riconosce valore di testimonianza del genio. Quale che sia il caso, se verificato, il ponte andava manutenuto e conservato, a costo perfino di sacrifici (cosa costa ai francesi restaurare la Ville Savoye di Le Corbusier, perennemente bisognosa di aggiusti, perché anch’essa progettata secondo la poetica della sottigliezza? Eppure Corbù fu allievo di Auguste Perret). Ove invece tali attributi non dovessero sussistere, lo si poteva tranquillamente demolire all’apparizione delle prime criticità.
Quali che siano invece i motivi del crollo, non sta a noi commentatori indagare: aspetteremo gli esiti della giustizia ordinaria e delle infinite commissioni di inchiesta che, secondo consuetudine, lavoreranno per anni a intorbidare le acque e la memoria di un grande interprete della “Poetica del calcestruzzo”.
* Per la stesura di questo breve saggio, in particolare per il tema della “trave strallata”, che dall’acciaio fu trasposta al calcestruzzo proprio da Morandi e che permise a tale tecnologia “di entrare nel campo delle grandi e grandissime luci”, mi sono giovato del libro: Boaga G., Riccardo Morandi, Zanichelli, 1984.
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