di Leonardo Servadio
Un tempo erano le cattedrali gli edifici che grazie alla loro mole e alla loro eleganza acquisivano lo status di simbolo centrale delle aree urbane: Notre Dame di Parigi, S. Maria del Fiore a Venezia…. Poi sono subentrati altri edifici, estranei alla chiesa, collegati al potere civile ed economico, spesso culturale… Ora arrivano gli aeroporti, manifestazione del “cordone ombelicale” che collega alla civiltà globalizzata.
Il fenomeno recente più rilevante è stato quello del Guggenheim di Bilbao: segno di una città che è drasticamente cambiata passando dall’epoca industriale a quella postindustriale. È divenuto un caso mondiale e ha proiettato il capoluogo basco sulla scena internazionale. Era da molti anni che i musei avevano acquisito il senso di simbolo e di richiamo, espressione di uno “standard” urbano che manifestava la qualità di vita e l’attrattività di un certo ambiente urbano. Certo New York agli occhi del mondo è anzitutto lo skyline dei grattacieli di Manhattan: ma il Moma è luogo iconico e meta di pellegrinaggio turistico oltre che riferimento culturale di valore mondiale. Sinora l’edificio di carattere simbolico è sempre stato legato alla particolarità del singolo luogo: alla sua “forza gravitazionale” nel contesto delle città vicine o lontane con cui si poteva mettere a confronto.
L’aeroporto di Città del Messico progettato da Fernando Romero e Norman Foster segnala e sancisce un nuovo passaggio epocale: quello alla città globalizzata. Nel senso che è raccordata giorno e notte al resto del mondo.
Un fenomeno questo che non può essere ascritto alle pur tante stazioni ferroviarie che dall’800 in poi sono state costruite come luoghi inconici della città: tra i casi più recenti si segnala la stazione di Lisbona di Calatrava o la ristrutturazione e riedificazione di Atocha a Madrid. Perché la ferrovia resta un fenomeno locale e “terrestre”.
L’aeroporto è diverso: implica collegamenti con città lontane migliaia di chilometri, ed è terminale di rotte che attraversano tutto il globo.
Non solo: la stazione si vede dal basso, arrivando da percorsi terrestri. L’aeroporto non ha facciate rilevanti agli occhi di chi ci arriva dalle strade, ma è significativo per chi vi arriva dal cielo: la “quinta facciata”, quella orizzontale, è la principale e più rappresentativa, e quindi meglio studiata dai progettisti.
Non che questo fenomeno sia nuovo: l’aeroporto di Osaka progettato da Renzo Piano ha questo valore estetico, lo stesso si può dire del terminal a Shenzhen in costruzione su progetto di Massimiliano Fuksas.
Rilevante ora è il modo in cui viene presentato il progetto per Città del Messico: nell’annuncio che qui sotto presentiamo il tema dell’aeroporto inteso come icona della nuova città è fondamentale.
E in effetti lo sarà per la capitale messicana. Ipertrofica e oppressa de uno dei tassi di inquinamento tra i più alti al mondo, governa un Paese che si sta inoltrando sulla strada della ricchezza economica, ma che è totalmente squassato dalle mafie della droga. Un tempo in Messico si producevano cannabinoidi ed era solo inevitabile luogo di passaggio per la cocaina proveniente dalla Colombia in viaggio verso gli Stati Uniti. Oggi il Messico è divenuto uno dei massimi centri di produzione della droga nel mondo e gli effetti di tale situazione sono le guerre tra mafie e il regime di terrore che impera soprattutto nel nord del paese.
A fronte di questi fenomeni degenerativi, ora l’obiettivo è di risollevarsi.
La fabbrica del nuovo aeroporto dovrebbe significare anzitutto questo: una nuova Città del Messico per un nuovo paese, dove ricchezza non equivale a corruzione.
L’architettura è un progetto: un guardare in avanti che implica anche nutrire speranza. Speriamo dunque che il passo deciso dal Messico attuale, di presentarsi al mondo col nuovo volto di un nuovo aeroporto “globalizzato”, porti veramente a una società più permeabile all’equanimità e alla giustizia, meno vittima delle mafie e della corruzione. Sarebbe un grande passo per tutta l’America Latina.
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