Every producer is a consumer to the whole extent of his production, and by enabling the poor people to produce more, the planter makes a market on the land for the products of the land, to the extent of the whole excess of production. The more that is produced, the more must be consumed” scriveva Henry Carey nel noto saggio “The Harmony of Interests” pubblicato a Filadelfia nel 1868. Argomentava a favore del modello economico americano (libera economia ma sotto il controllo e i vincoli della politica volta a garantire gli interessi nazionali) contrapposto a quello britannico (liberismo sempre e comunque, a prescindere dalle conseguenze) e al fondo del suo discorso stava l’idea che tra proprietari dei mezzi di produzione e prestatori d’opera, tra capitalisti e operai o tra proprietari terrieri e contadini ci sia un comune interesse a promuovere la produzione per migliorare i consumi e i livelli di vita.

L’articolazione del discorso di Carey ovviamente si attagliava ai suoi tempi, ma il nocciolo del ragionamento non è vincolato solo all’epoca sua. Se si considera la vita economica sul periodo medio-lungo si nota che il mercato deregolamentato conduce a un accumulo eccessivo di ricchezza in poche mani (questo l’argomento sviluppato pochi anni fa da Thomas Piketty in “Il capitale nel XXI secolo”) e questo alla fine porta a instabilità sociale.

Sciopero operai Pirelli – Milano 1969. Di Archivio De Bellis-Fotogramma milano-repubblica-it-multimedia – da Wikipedia

In Italia dal secondo dopoguerra la dinamica dei rapporti tra mondo imprenditoriale e prestatori d’opera è oscillata tra rispettivi e speculari irrigidimenti promossi dai sindacati – dei lavoratori da un lato, degli imprenditori dall’altro – tutti protesi alla ricerca del vantaggio di parte in un perpetuo scontro che ha visto prevalere ora i primi, ora i secondi, sempre più escludendo i terzi (gli autonomi). E la mancanza di equilibrio è messa in rilievo dal crescente afflusso sul mercato del lavoro del popolo delle partite IVA privi di rappresentanza e pertanto con potere contrattuale quasi zero nella logica che ha animato sinora il confronto sindacale.

E questo per quanto il nostro sia il Paese che ha visto l’opera di autentici leader di un’imprenditoria fondata sulla comparecipazione e condivisione, delle responsabilità e dei vantaggi dell’impresa, quali furono Adriano Olivetti e Enrico Mattei: esponenti di un modo di “fare economia” fondato sulla ricerca del comune interesse sullo sfondo del più vasto orizzonte sociale e storico, non del miope e conflittuale vantaggio egoistico di breve termine. Non a caso Olivetti e Mattei esprimevano il meglio delle culture ebraica e cattolica ed erano dotati di cultura umanistica ma anche tecnica, ed erano legati alle attività produttive, non economisti impastoiati nell’ideologia liberoscambista ovvero nella convinzione che l’applicazione di modelli matematici astratti che trattano gli esseri umani come numeri possa risolvere qualsiasi problema.

Uffici Olivetti 1960: design di avanguardia, ampi spazi. Foto di Paolo Monti – Disponibile nella biblioteca digitale BEIC e caricato in collaborazione con Fondazione BEIC.L’immagine proviene dal Fondo Paolo Monti, di proprietà BEIC e collocato presso il Civico Archivio Fotografico di Milano. https://commons.wikimedia.org

La politica aziendale tracciata da Olivetti ebbe risultati grandiosi e tra gli altri ne riferì Valerio Ochetto nell’incontro tenutosi nel novembre 2014 presso il Ministero dello sviluppo economico “Adriano Olivetti. L’impresa, la comunità e il territorio”, rievocandone la storia: “Il sociologo Luciano Gallino ha calcolato che il lavoratore Olivetti ha un livello di vita superiore dell’80% rispetto ai lavoratori di altre aziende comparabili. L’intento di Adriano è di ‘Creare un’impresa (e una società) al di là del socialismo e del capitalismo’ (intendendo per socialismo il cosiddetto ‘socialismo reale’). Vuole trasformare la fabbrica in una Fondazione inizialmente a proprietà quadripartita tra vecchi proprietari, lavoratori, comunità locale, istituzioni culturali”.

In un’epoca in cui ferveva l’ideologia della lotta di classe come paradigma politico del “materialismo scientifico” fondato sull’ineluttabilità della contrapposizione tra egoismi di parte, la politica di Olivetti fu autenticamente creativa, innovativa, risolutiva e resterà come esempio di come sia possibile, in qualsiasi condizione, trovare interessi comuni anche laddove la tendenza è di esacerbare divergenze e incompatibilità.

L’egoismo di gruppo, di sindacato, di classe, di ceto, di partito politico, fa purtroppo parte dell’andazzo usuale delle cose. Ma in questi mesi in cui tutti ci si trova assediati dall’insidia silenziosa del Covid-19, questa pestilenza del XXI secolo ci ricorda come non vi siano separazioni di ceto, di classe, di appartenenza che tengano e così dischiude la prospettiva di un possibile ripensamento: che si travalichino i contrapposti egoismi nella ricerca dell’armonia degli interessi.

In quest’ambito rilevante è la proposta avanzata da Salvatore Santangelo in un articolo dal titolo “Come cambieranno le relazioni industriali con il Coronavirus” pubblicato in Start Magazine, in cui tra l’altro scrive: “Sono sempre più convinto, e la Germania lo dimostra, che usciremo dalla crisi solo grazie a un nuovo modello di Economia sociale di mercato, dove il mondo del lavoro sia ancorato al sistema sociale, e proprio in questo momento in cui il ‘lavoro’ è più minacciato, l’obiettivo non deve essere solo quello di preservarlo, ma di ‘rilanciare’, per dare alle persone quella che, seguendo la grande lezione di Marco Biagi, sia «un’occupazione di qualità che concili quel grande aspetto della vita umana» che è il lavoro stesso, con altre realtà ugualmente importanti: la vita familiare e quella personale.” E ancora “Una nuova cultura d’impresa, imperniata sulla centralità del ruolo sociale dell’impresa stessa, diviene il punto di svolta per imporre questo nuovo paradigma, che solo può vincere le sfide del nostro tempo: l’impresa non deve essere più concepita come un luogo di conflitti meccanici e di interessi irrimediabilmente contrapposti, ma come luogo in cui le diverse istanze, quella imprenditoriale e quella del lavoro, si incontrano nella forma di una vera e propria ‘comunità di destino’. Il punto di partenza e la posizione di approdo di questo modello sono rappresentati dalla sostanziale coincidenza, nel lungo periodo, dell’interesse dell’impresa e di quello del lavoro”.

Va sottolineato, appunto, che la sostanziale coincidenza si manifesta solo se si guarda al lungo periodo, non all’interesse immediato: e questo richiede un grande passo avanti sul piano culturale. Ma proprio la crisi può permetterlo, e può rilanciare l’idea di come sia meglio che sulle tensioni e prevaricazioni reciproche promosse dal fondamentalismo liberoscambista, prevalga una nuova ricerca di armonia degli interessi. Auspichiamo dunque che i responsabili dei gruppi politici e dei vari sindacati facciano propria questa istanza, a livello nazionale e internazionale. Sarebbe il modo migliore per curare l’Europa dal Coronavirus, e non solo.

Il citato articolo di Salvatore Santangelo è reperibile a questo link: https://www.startmag.it/economia/le-relazioni-industriali-al-tempo-del-covid19/

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