“Ho fatto delle commissioni ho pulito la bottega e il tornio, poi ho intascato la mia settimana e felice e contento sono tornato a casa sperando che presto giunga il lunedì” scrive Lamberto Banchi nel suo diario, il giorno sabato 19 Ottobre. Aveva cominciato il suo apprendistato da artigiano poche settimane prima, lunedì 16 Settembre. L’anno è il 1946, il luogo è Firenze, la bottega è quella del bronzista Vasco Cappuccini. Lamberto aveva 13 anni, aveva terminato la quinta elementare e non era propenso a proseguire negli studi per cui la scelta dell’apprendistato in bottega si presentava come la soluzione per lui più opportuna: all’epoca era possibile lavorare anche a quell’età.
Lamberto avrebbe acquisito benissimo il mestiere e negli anni successivi avrebbe superato il suo maestro, ne avrebbe rilevato la bottega e sarebbe diventato famoso anche oltre confine per le sue creazioni. E tutto questo per quanto fosse “homo sanza lettere”, come di sé diceva Leonardo da Vinci: nel diario non mancano gli errori ortografici. La nuova edizione di questo libro (la prima è del 1987), come altri volumi curati da LEF, offre un’importante prospettiva sul secondo dopoguerra: il periodo in cui è nata la Repubblica italiana e che tanto avrebbe ancora da dire ai nostri giorni, quando stiamo correndo il rischio di perdere tutto il patrimonio di valori, impegno e originalità che allora fu messo in campo.
Ognuno ha un proprio canale di espressione privilegiato, e non è detto che debba essere l’eloquio verbale: le creazioni artigianali e artistiche sono modalità espressive di rilevanza tale che il grande Rinascimento è fondato in gran parte su di esse. La storia di Lamberto Banchi lo dimostra con grafica efficacia, in questi nostri anni in cui la montante tendenza all’iscrizione dei ragazzi nei licei sta portando a un nuovo tipo di appiattimento degli studi. Perché il lavoro manuale non si limita a essere tale, se compiuto con coscienza come avveniva nella bottega del Cappuccini: implica di acquisire un apparato etico e una capacità relazionale che nel loro complesso comportano un’educazione completa della persona. Nelle notazioni schiette, essenziali, telegrafiche scritte da Lamberto Banchi si ravvisa proprio l’inizio di questo cammino in cui l’apprendistato diviene anche scuola di vita.
Del diario sono riprodotte le pagine originali: con la ricercata calligrafia che già di per sé rivela la pazienta capacità di rendere la pienezza della forma e con i piccoli disegni composti al fine di rendere più completa la spiegazione. Ecco dunque una riproduzione della bottega, un’altra del denaro contante che con orgoglio Lamberto riceveva quale pagamento della sua opera di garzone (in “Am-lire”, la moneta emessa dal Governo militare alleato dopo lo sbarco in Sicilia che circolò fino a quando l’Italia non completò il proprio assetto istituzionale postbellico), una stilizzata immagine del gatto di bottega al quale doveva ogni giorno portare del latte, il profilo occhialuto del titolare (riprodotto anche in copertina)…
Ma quel che risalta anzitutto è la passione che il giovane Laberto dimostra per li lavoro: già nel frontespizio è sbandierato a grandi lettere: “W il lavoro”. E giorno per giorno sono annotati i compiti assolti: dal pulire la bottega a limare le superfici di alcune maniglie, dallo svolgere commissioni da garzone allo smerigliare diverse chiavi. Le domeniche sono sempre annotate come “Giorno di riposo”: come dire che non c’è niente da dire, perché non c’è lavoro, e il lavoro è quel che interessa al ragazzo. Sorgono anche incomprensioni: un’opera in cristallo che deve consegnare risulta rotta e sulle prime il principale glie ne attribuisce la colpa, ma poi la cosa si chiarisce, come può avvenire solo quando c’è onestà e buona volontà.
Ogni giorno il principale gli compera un pasticcino e una caramella, e questo gratifica Lamberto, ma quando sbaglia e rompe le lime che usa le deve ripagare. Tuttavia spesso per le commissioni che compie riceve anche delle mance. Il denaro quindi è recepito come compenso per le opere compiute e per l’abilità e per l’attenzione in esse profuse: potrebbe sembrare un’ovvietà, ma siamo sicuri che sia proprio così ancor oggi, quando tanto denaro circola e si gonfia in operazioni puramente speculative, e in cui l’azzardo è tanto diffuso?
Col procedere delle settimane Lamberto scalpita: “a me piacerebbe lavorare un pochino di più” scrive l’1 ottobre. E in effetti, in breve viene introdotto al lavoro al tornio e gli è consentito realizzare opere per suo conto, prima per prova (un aeroplanino in zinco, un marmittone, un giocatore di calcio…), poi per lavoro: una paletta “per sbraciare gli scaldini”. Sono opere che dimostrano la sua abilità manuale e già due mesi dopo aver cominciato l’apprendistato si eleva al di sopra delle condizioni di garzone: comincia a compiere opere di artigianato.
Nei primi mesi dell’anno successivo, il 1947, si vede che le righe scritte si distendono meno diritte rispetto a quelle dei primi mesi, e le lettere paiono vergate in modo frettoloso. Il ragazzino in breve è riuscito a introdursi nella pratica del mestiere. Ora è meno interessato a tener memoria di quanto fa giorno per giorno. È evidentemente troppo impegnato per rimettersi a scrivere, probabilmente si sente cresciuto e non ha più bisogno di far vedere alla mamma il resoconto di quanto fa nella bottega.
Nella postfazione della prima edizione del diario, del 1987, Lamberto Banchi dà conto di come il suo principale lo avesse educato, oltre che al mestiere, anche al comportamento civile, e così scrive: “Per provare l’onestà mi mandava alla posta a pagare i vaglia e dava dei soldi in più, per vedere se glieli riportavo… M’ha insegnato a lavorare, a vivere”.
Lavorare e vivere: non lavorare per vivere o vivere per lavorare. Perché il lavoro è un’espressione di sé, completa la persona e le dà dignità umana. E nel caso specifico questo avvine pure nel conservare la bottega, piccola ma autentica, così com’era decenni or sono e malgrado i drastici cambiamenti. Nella Firenze invasa sempre più da frotte di turisti con valigetta a rotelle e da mercati che vendono come autentici prodotti provenienti dal Lontano Oriente, la bottega di Banchi, oggi rilevata dal figlio Duccio, resta come testimonianza di un’epoca che non è tramontata ma che, al contrario, dovrebbe essere pienamente recuperata. Per non affogare nella serialità da design industriale o nella passività da invasione della cosiddetta intelligenza artificiale. E per recuperare quella capacità formativa che una scuola a volte ridotta a diplomificio schiacciato nel consumismo corre il rischio di perdere.
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