Per gentile concessione dell’Autore, pubblichiamo un saggio di Stefano Levi Della Torre, artista, scrittore, docente nella Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano.
La Torre di Babele, madre delle lingue e origine delle traduzioni
di Stefano Levi Della Torre
La storia della Torre di Babele è contenuta nel seguente passo di Genesi 11, 1-9:
Or tutta la terra parlava la stessa lingua e usava le stesse parole. E avvenne che essendo partiti da oriente gli uomini trovarono una pianura nel paese di Shin’ar, e qui si stanziarono. E dissero l’uno all’altro: Orsù, facciamo dei mattoni e cuociamoli col fuoco. E usarono mattoni invece di pietre e bitume invece di calce. E dissero: ‘Orsù, edifichiamoci una città e una torre la cui cima giunga fino al cielo e facciamoci un nome per non essere dispersi sulla faccia di tutta la terra. E il Signore discese per vedere la città e la torre che i figli degli uomini edificavano. E il Signore disse: Ecco, essi sono un solo popolo e tutti hanno una sola lingua; e questo è l’inizio del loro lavoro ed ora nulla sarà da limite a ciò che immagineranno di fare. Orsù scendiamo e confondiamo laggiù il loro linguaggio sicché l’uno non capisca le parole dell’altro. Così il Signore li disperse di là sulla faccia di tutta la terra ed essi cessarono di edificare la città. Perciò ad essa fu dato il nome di Babele perché il Signore lì vi confuse le lingue di tutta la terra e da allora il Signore li disperse sulla faccia di tutta la terra.
1-Per addentrarmi in questo testo mi appoggerò su un’immagine.
Nella tavola di Pieter Bruegel il Vecchio (1563) al Kunsthistorisches Museum di Vienna la Torre di Babele, ancora in costruzione, si leva ad occupare il centro del quadro, coprendo con la sua mole sproporzionata gran parte della città che si stende dietro di essa; in lontananza, i dossi verdazzurri delle colline e il fiume. In basso a sinistra, in primo piano, il re Nimrod in visita ai lavori in corso (a lui nel testo biblico si attribuisce la fondazione di Babele), e i tagliapietre che si inchinano. Sui sette gradoni della Torre gigantesca, minuscole figure al lavoro e macchine da costruzione, grandi gru a ruota, scale a pioli, velieri cinquecenteschi e chiatte che portano materiali all’attracco del cantiere. La Torre è una imponente stratificazione di architetture: nei gradoni inferiori gli alti fornici in travertino biancastro richiamano il Colosseo, mentre la cima non finita, anzi interrotta, lascia intravedere i mattoni e le sbrecciature come una rovina archeologica che richiama la Mole Adriana/ Castel Sant’Angelo. Bruegel aveva visitato Roma dieci anni prima.
Bruegel interpreta il passo biblico come una grande metafora, e noi facciamo altrettanto. Intende Genesi 11 come un fatto non relegato in un tempo remoto, bensì immanente ad ogni epoca. Il Testo dice che gli uomini intrapresero a costruire la Torre e intorno una città, ma quella di Bruegel è una città gotica, è la sua attualità. Mentre la Torre è un cumulo imponente di architetture, grandiose ma qua e là dissestate, a dire che la scalata al cielo di cui si parla nell’episodio biblico si ripete nella storia, è la storia stessa, sono le imprese umane, o meglio è l’ubris degli imperi che si levano orgogliosi ma per cadere in rovina.
In questo tardo Rinascimento nordico, come in quello italiano culturalmente egemone, la presenza delle rovine romane sta a significare il superamento cristiano del paganesimo e insieme il debito culturale verso di esso. Così, per qualche esempio tra i tanti, è nel S. Sebastiano legato alla colonna classica del Mantegna o nell’Adorazione dei Magi del Ghirlandaio, dove la culla del Presepe è un sarcofago romano. Potremmo intendere che Gesù è sceso dal cielo a confondere i potenti, così come in Genesi 11 Dio scende a confondere le lingue mandando in rovina l’orgogliosa impresa della Torre.
Ora osserviamo che dal fianco della Torre di Bruegel emerge un grande sperone di roccia: la Torre riveste un monte.
La Torre è un monte artificiale che si appoggia su un monte naturale, lo prevarica e lo sostituisce. Indipendentemente da quali fossero le intenzioni del pittore nel dipingere la grande roccia sommersa dall’architettura, userò l’immagine della roccia affiorante per introdurre tre altri temi: quello dell’artificio umano che si appoggia sulla natura e la sostituisce, quello appunto del monte e quello della scelta del luogo.
2- Il monte è una figura carica di simbolo, è un luogo dove la terra sale verso il cielo e il cielo si avvicina alla terra. Mosé sale sul monte per incontrare il Signore e il Signore vi discende per incontrarlo; Gesù sale sul Gòlgota a morire per risorgere. Lo zigurrat mesopotamico, a cui allude la Torre di Babele, è un monte artificiale, una scala a gradoni, sulla cui cima si auspica l’ascesa dell’uomo e la discesa del dio. Ma il luogo sacro e la costruzione sono una scelta umana o una rivelazione divina? La terra di Israele non è una meta decisa da Abramo, ma una designazione divina; In Genesi 28 Giacobbe in fuga si stende in un luogo, ma è Dio a rivelargli nella visione della scala che quel luogo è sacro, Bet-El. E quando il re Salomone edifica il Tempio è incerto se esso sia lecito, ed è la divinità a consentire alla sua invocazione e a legittimare l’edificio. Nell’episodio della Torre, sono gli uomini a designare, a loro arbitrio, il luogo, la pianura di Shin’ar, e sono gli uomini a decidere di costruire la Torre. Delle due grandi costruzioni di cui si parla nella Genesi, l’Arca di Noé e la Torre di Babele, la prima è una prescrizione divina, la seconda è un arbitrio umano. È una differenza che implica la tensione tra libero arbitrio e prescrizione trascendente.
Dunque in Shin’ar gli uomini decidono di darsi luogo, legge e nome (“Facciamoci un nome”) autonomamente, quasi fosse, la Torre, un Sinai prematuro, antropocentrico, e poi fallimentare. Potremmo riferirci alla roccia di Bruegel, sommersa dall’architettura, per dare un’immagine all’idea di questa prevaricazione del progetto umano rispetto alla rivelazione divina del luogo. La Torre stessa non è un invito al divino, al contrario è un riparo dal divino, un sostegno del cielo che ne prevenga la caduta sulla terra, cioè il ripetersi del Diluvio (Bereshit Rabbà 38,1): la generazione della Torre, che sarà detta la “generazione della dispersione”, diffida dell’arcobaleno, segno della promessa di Dio di non ripetere il Diluvio. La Torre dunque è simile a un monte sacro, ma ne è l’inverso: non si protende verso il cielo per incontrarlo ma anzi per proteggersi da esso.
“Movendo da oriente (mikedem) essi trovarono una valle nella terra di Shin’ar e là si insediarono” (Gen. 11, 2). Si allontanarono dall’oriente, da ciò che precede, da Dio stesso, interpreta Rabbi Eleazar ben Shimòn. “ E là si insediarono”: così commenta Rabbi Itskhak: quando si tratta di insediamento, il Satàn (Satana, l’”Accusatore” ) fa salti di gioia, perché nell’insediamento e nell’agio ci si dimentica di Dio. Come è detto in Deut. 8, 11-18 “ quando avrai mangiato e sarai sazio, quando avrai costruito delle belle case e le avrai abitate […] guardati dal dimenticare il Signore […] perché non dica in cuor tuo, queste ricchezze me le hanno conquistate la mia forza e la potenza della mia mano. Perché è Lui, Dio, a darti la forza”.
L’illusione dell’autosufficienza umana è un argomento del passo biblico su Babele. La Torre è un riparo dagli eventi fisici e metafisici. È una totalità chiusa in se stessa ( Non leggere devarim achadìm “parole uniche”, in Gen. 11, 1, ma devarim achudìm, “parole chiuse”, suggerisce Avot 6,2). E’ una società totalitaria, che cerca di espellere ogni cosa che sia “altro”, di ripararsi in una sua coerenza interna.
3- Il cap. 38 del trattato talmudico Bereshìt Rabbà, là dove commenta la vicenda della Torre di Babele, comincia in modo sorprendente: “ Apertura di Rabbi Eleazar a nome di Rabbi Yossé ben Zimra: non massacrarli, affinché il mio popolo non dimentichi, fanne con la tua potenza degli erranti e falli cadere, YHWH nostro scudo”. L’ultimo vocativo significa: essi, gli uomini di Babele, vollero per orgoglio considerarsi autosufficienti, vollero separarsi dalla loro condizione di creature riparandosi dagli eventi con la Torre, noi invece ci affidiamo a Te; non una Torre, ma Tu sei il nostro riparo ( “nostro scudo”). La prima parte della frase invece ( “non massacrarli ma fanne degli erranti, affinché il mio popolo non dimentichi”, e impari ) sembra parlare agli ebrei degli ebrei stessi, dispersi nella diaspora; e sembra anzi anticipare, riferendola agli uomini della Torre, la dottrina di Sant’Agostino circa gli ebrei come “popolo testimone”: essi non devono perire, perché la loro caduta e la loro dispersione sia testimonianza vivente di che cosa comporti il non aver riconosciuto in Gesù il Signore.
Il Popolo della Torre fallisce, ma sopravvive. Ad esso si rivolgono accuse, ma anche apprezzamenti. La tradizione rabbinica mette a confronto due generazioni: “la generazione del Diluvio”, sterminata dalle acque, e quella di Babele, denominata “la generazione della dispersione”, che fu invece risparmiata, ma dispersa. Perché questa differenza di destino? Quali crimini imperdonabili si imputano alla “generazione del Diluvio”, e quali meriti salvarono invece la “generazione della dispersione”? Alla prima si imputa l’odio reciproco e la violenza e ogni genere di perversione; alla seconda invece si riconosce l’attitudine a dialogare ( “dissero gli uni agli altri….”, Gen. 11,3 ) : essa intraprese un’opera comune, nella pace e nella solidarietà. “Rabbi diceva: che grande cosa è la pace! Anche quando Israele si abbandona all’idolatria se la pace regna tra la gente, Ha – Makom ( Il Luogo, cioè il Signore ) non può che dire, Io non li colpirò poiché la pace regna tra loro” ( Bereshìt Rabbà 38, 7 ).
4- Secondo la tradizione rabbinica, Elohim designa il versante divino della giustizia e del rigore, mentre il tetragramma YHWH ( che si legge Adonai, “Il Signore” ) designa il versante divino della misericordia. Così, nel racconto del Diluvio, Dio è citato come Elohim, come rigore di giustizia ( tranne in un punto, là dove è Adonài a sigillare misericordiosamente le porte dell’Arca salvifica di Noè ); nel racconto della Torre di Babele Dio è invece citato come Tetragramma, YHWH-Adonai, secondo il lato della Sua grazia. Per la generazione della dispersione, la misericordia prevale sulla punizione. C’è tuttavia trasgressione e conseguente punizione, ma non mortale. In Sanhedrin 109 a, rabbi Yrmiyà enumera tre tipi di punizione relativi a tre gruppi di trasgressori:
— un primo gruppo di uomini diceva: sì, costruiamo una Torre fino al cielo e ne abiteremo la cima. Questi furono dispersi. Volevano abitare il cielo, co-abitare con Dio; al pari degli asceti, o per eccesso di senso religioso, rifiutavano il mondo, la creazione, il loro essere creature; ( così mi sembra si possa interpretare ): volevano salire in verticale per avvicinarsi a Dio, e, per contrappasso, vennero dispersi in orizzontale, “sulla faccia di tutta la terra”;
— un secondo gruppo diceva: sì, costruiamo una Torre per salire fino al cielo e levare la spada contro Dio; e furono tramutati in scimmie. Così mi sembra si potrebbe interpretare: questi, che volevano sconfiggere Dio ed essere più che uomini, furono per contrappasso tramutati in qualcosa di meno dell’uomo, in una sua imitazione;
— un terzo gruppo diceva: in cima alla Torre alzeremo un idolo. Per questi furono confuse le lingue. Anche qui ci sarà un contrappasso, ma non evidente come i precedenti.
Lo cercheremo nella domanda sottesa a questo terzo caso: qual è il rapporto tra idolatria e linguaggio?
5- Nel suo senso più ovvio, l’idolo è una rappresentazione della divinità che viene identificata con la divinità stessa. L’idolatria poggia allora sull’attitudine a confondere la cosa con la sua rappresentazione, a identificare la realtà con il linguaggio – verbale o figurale – che la esprime. È l’eliminazione illusoria dello scarto tra la cosa e la parola o l’immagine che la dice. Dentro o fuori dell’ambito religioso, è un fatto inerente alla potenza stessa del linguaggio e della figurazione. È un immanente trompe – l’oeil in cui il virtuale ci convince d’essere reale, una specie di diffusa “transustanziazione”, dove il linguaggio pare più vero del reale. Si tratta di un processo spontaneo, continuamente attivo in noi. C’è un quadro di Magritte che gioca con questo fenomeno e ce lo rivela: vi è dipinta accuratamente una pipa, con la scritta ceci n’est pas une pipe. Ma come! – diciamo a noi stessi – questa è proprio una pipa! Ma in verità non siamo davanti a una pipa, ma a un po’ di colore steso su una tela, che solo rappresenta una pipa. Ma perché quella didascalia ci lascia sconcertati? Perché l’astuto Magritte ci ha sorpresi nell’atto in cui spontaneamente confondevamo una cosa con la sua rappresentazione, anzi, sostituivamo quella con questa. Ora, l’idolatria – ideologica o religiosa – è lasciarsi irretire da questa magia del linguaggio o della figurazione. E quando pensassimo che la parola che – almeno per i credenti – viene da Dio possa essere direttamente la Parola divina, e non piuttosto ciò che le facoltà umane hanno saputo coglierne, formulare e tramandare, allora siamo già nell’ambito dell’idolatria. Così le ideologie, che pretendono di aver afferrato interamente il senso della realtà e della storia, hanno poi nascosto la storia e la realtà per non essere da queste smentite, e le hanno sostituite (e destituite ) col proprio discorso.
Per la “generazione della dispersione” questo processo doveva essere particolarmente potente: essa aveva “un’unica lingua e le stesse parole”. Ma che cosa era questa unica lingua? Forse era ancora la lingua originaria, la lingua di Adamo. Lingua potente, forse, come quella divina, in cui la parola e il fatto si identificano ( “Dio disse: sia la luce, e fu la luce” ); e se non era tale, lo era quasi, come è detto: Dio condusse gli esseri viventi ad Adamo “ per vedere con quale nome li avrebbe chiamati; poiché quel nome che egli avrebbe imposto ad ogni vivente, quello sarebbe stato il suo nome” ( Gen. 2, 19 ): il suo nome per sempre – commenta Rashi – cioè la sua stessa essenza. Era dunque una lingua possente, immediatamente efficace, dire ed essere vi si identificavano senza scarto. Tale doveva essere ancora quell’”unica lingua” in cui si era progettata la Torre e la città. È la considerazione che fa Dio stesso, dicendo: “ sono un popolo solo, parlano tutti la stessa lingua e hanno cominciato a fare questo [ la città e la Torre]. Niente impedirà loro di fare ciò che si proporranno. Orsù, scendiamo e confondiamo la loro lingua.” ( Gen. 11, 6-7 ). Perché quella lingua era ciò che faceva la loro unità e la loro solidarietà sociale, l’efficacia inesorabile dei loro propositi. La scena è analoga a quella in cui Dio riflette sulle conseguenze della trasgressione di Eva e di Adamo ( Gen. 3. 22 ): Dio disse allora: “ecco, l’essere umano è diventato come l’Unico tra di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora non stenda di nuovo la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva in eterno”. L’essere umano era Unico, come il popolo della Torre era un unico popolo; aveva il potere divino di conoscere il bene e il male, come il popolo della Torre aveva il potere dell’unica lingua: avrebbero potuto fare tutto quanto si sarebbero proposti, travalicando i limiti propri della creatura. E se l’uomo, oltre a conoscere il bene e il male, avesse steso la mano all’albero della vita e fosse vissuto in eterno, avrebbe indotto idolatria – così commenta Rashi – perché si sarebbe detto “ anche lui è un dio”. Così Adamo ed Eva furono abbassati e cacciati dall’Eden, e dispersi nel mondo, al pari del popolo della Torre, anch’esso abbassato e disperso. Poiché le prerogative divine – l’unicità, la lingua che crea, la conoscenza del bene e del male – quando siano in possesso dell’essere umano inducono l’equivoco, la confusione idolatrica tra Creatore e creatura. Confusione che annienterebbe la creazione, annullando il miracolo per cui il divino produce il non divino, che è il mondo, e si distingue da esso.
“Avevano un’unica lingua e le stesse parole”: ciò significa che quanto dicevano e pensavano lo consideravano come verità, l’unica verità possibile. Non c’era alternativa all’unico significato delle cose. Questo paradigma è la struttura mentale di ogni fondamentalismo, ideologico o religioso, il quale ritiene che l’unica interpretazione del Testo sia la propria. Ed essendo l’unica, essa può sostituire il Testo, in quanto ne esaurisce l’intero significato. E in quanto il fondamentalista pretende di possedere l’unica interpretazione vera della Parola di Dio (o della storia), egli si sostituisce a Dio o alla storia. Questo “pensiero unico” è la quintessenza dell’idolatria, è l’idolatria attiva ai nostri giorni. Nella presunzione stessa di possedere l’unica verità, il fondamentalismo la manipola, come l’idolatra manipola il divino includendolo in un oggetto opera delle proprie mani, o in un’idea opera della propria mentalità, riducendolo a propria disposizione come il Jin recluso nella lampada di Aladino.
Torniamo allora a Babele: la confusione delle lingue, la loro moltiplicazione frantuma quell’ “unica lingua”, quelle “stesse parole”, e disperde quella potenza magica del pensiero unico in cui è implicito l’abominio idolatrico. E’ sì una punizione divina, ma è soprattutto l’atto misericordioso del Tetragramma YHWH, perché la moltiplicazione delle lingue è un antidoto all’idolatria. Proprio a causa di coloro che volevano erigere l’idolo sulla cima della Torre per rendere visibile e manipolabile la divinità, furono confuse le lingue, non si compresero più, ebbero da allora bisogno di traduzione. Ebbero la possibilità di comprendere che il linguaggio stesso è traduzione, non è tutt’uno col fatto, con la realtà, con la verità. Una realtà non ebbe più un’unica rappresentazione, ma si rifranse in una molteplicità di idiomi, di suoni, di culture. “Una parola Egli ha detto, due ne ho udite” ( Salmo 62, 12 ). Così quando cerchiamo la verità, quando interpretiamo, siamo al pari dei testimoni: unus testis, testis nullus, non è valida una sola parola, che non abbia confronto, per esprimere una cosa. Come è detto: “Non si presenti un sol testimone […], sulla parola di due o tre testimoni sia verificato il fatto” ( Deut. 19, 15 ).
Abbiamo letto all’apertura del cap. 38 del Bereshìt Rabbà : non sterminare [il popolo della Torre] ma rendilo errante, affinché il mio popolo non dimentichi. L’ebraismo non ha dimenticato la misura anti-idolatrica della moltiplicazione delle lingue e l’ha assimilata e interiorizzata nel suo carattere più specifico: la cultura del commento. Il quale, come insegnano i testi talmudici, non è mai unico, ma a più voci, e in forma di controversia. Quando studi (è detto) scegliti almeno un compagno che ti stia di contro, perché l’interpretazione non sia univoca. Lo studio solitario può condurti a “un’unica lingua e un’unica parola” che implica l’orgoglio, il quale fa di se stessi e delle proprie credenze un idolo.
6- Scriveva Leopardi qualcosa di inerente al problema della traduzione:
Certo e notabilissimo si è che tutte le parole […] alle quali noi siamo abituati da fanciulli, ci destano sempre una folla di idee concomitanti, derivate dalla vivacità delle impressioni che accompagnano quelle parole in quella età, e dalla fecondità dell’immaginazione fanciullesca; i cui effetti […] si legano a dette parole in modo che durano […] per tutta la vita […]. Variano secondo gli individui; e quindi non c’è forse un uomo a cui una parola medesima produca una concezione precisamente identica a quella di un altro; come non c’è nazione le cui parole esprimenti il più identico oggetto, non abbiano qualche menoma diversità di significato da quelle delle altre nazioni. (Zibaldone, 15 settembre 1821).
Neppure l’onomatopea, che riproduce i versi animali che tutti possono ugualmente udire, da nelle diverse lingue un uguale suono: il gallo italiano fa “chicchirichì”, mentre quello inglese fa “cock-a-doodle-doo”, quello ebraico fa “kukurìku”, quello russo fa “kukarikaiet”, quello francese fa “cocorico” (con la tonica sull’ultima o); ora non saprei dire come fa il gallo cinese o quello arabo…
Il problema di fondo di ogni traduzione non è quello di trovare solo corrispondenze tra parole, ma tra culture, tra memorie di quelle costellazioni di impressioni originarie o “idee concomitanti” di cui parla Leopardi: corrispondenze tra climi mentali e contesti in cui le parole vibrano nella loro propria cassa di risonanza e di senso, di temperatura e di colore. Cézanne si era posto questo problema per la pittura: non si tratta di imitare la natura e le cose, trasferendole sulla superficie di un quadro, ma di tradurle attraverso corrispondenze ed equivalenze di rapporti, tenendo conto dell’interferenza ordinatrice con cui la mente umana organizza la percezione delle cose. Il dizionario si sforza utilmente di proporre per quanto è possibile le identità tra i termini di linguaggi diversi, ma una tale operazione, che è indispensabile, non può entrare nel vivo della lingua, non può che privilegiare l’imitazione rispetto alle equivalenze e alle corrispondenze. Sicché il tradurre, che giustamente tende quanto più può ad una identità tra l’originale e la sua traduzione, non vi può pervenire, ma può aspirare come sua massima ambizione ad un’analogia, a una similitudine di strutture, di rapporti, di svolgimenti di idee e di racconti.
Questo per dire qualcosa di noto, e cioè che ogni traduzione è anche un’interpretazione, come ogni interpretazione è anche una traduzione. Pure, il linguaggio è già in sé stesso traduzione, poiché ogni parola e costrutto linguistico traducono sul terreno verbale e mentale l’esperienza che sorge su un altro terreno, quello dell’accadere delle cose e degli eventi. E lo sviluppo di ogni linguaggio è la diramazione di significanti verso diversi significati: La massima parte di qualunque linguaggio umano – scrive ancora Leopardi – è composto di metafore, perché le radici sono pochissime, e il linguaggio si dilatò massimamente a forza di similitudini e di rapporti. (Qui è il seme poetico di ogni forma di linguaggio, verbale, mimico o figurativo). Per via di metafora, ad esempio, la radice ang (che porta il significato di “stretto”, “serrato”) apparenta la parola “angolo” e la parola “angoscia”, che è il sentimento di chi si sente in una situazione di chiusura e costrizione: messo appunto “all’angolo”. Il linguaggio ha un’attitudine sinestetica, ossia a tradurre da un registro ad un altro. Non abbiamo difficoltà a comprendere costrutti quali “un dolce affetto”, “un aspro giudizio”, “un pensiero profondo”. Pure, queste forme mostrano l’interferenza immediata tra sfere eterogenee, quali sono quella sensoriale del gusto (il dolce, l’aspro), quella dello spazio (il profondo) e quella mentale e affettiva. A partire dai cinque sensi, le varie istanze possono essere separate e persino biologicamente specializzate, ma, nell’attitudine alla metafora che anima il linguaggio, si incrociano, e incrociandosi rivelano che la persona è un complesso le cui parti si compongono in un sistema interrelato. E poiché il linguaggio non è un fatto individuale bensì sociale, lo stesso può dirsi delle culture.
Non c’è luogo per safà achat e devarìm achadìm, per “un’unica lingua e uguali parole”, che erano in uso tra i costruttori della grande Torre. Le lingue sono distinte e i popoli sono divisi etnicamente e spesso in guerra tra loro; ma tutti i popoli parlano e il parlare li accomuna. Questo è il terreno del tradurre, della sua necessità e della sua possibilità. Resta un ampio spazio di incomunicabilità, di inevitabile ignoranza reciproca; o di comprensione solo apparente, di fraintendimento. Ma non è detto che il comprendersi fino in fondo sia poi del tutto desiderabile, né tra le persone né tra le culture. L’ignoranza può essere una forza propulsiva se, diceva Giambattista Vico, sa essere madre della curiosità e quindi nonna del conoscere.
Dicembre 2016
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