Dopo decenni di tentennamenti americani, il presidente statunitense parla per la prima volta del genocidio degli armeni, segnalando così alla Turchia che è arrivato il tempo di fare i conti con un alleato NATO che, troppo spesso, flirta con l’avversario russo. Biden è stato coraggioso, ma sono soprattutto i militari che insistono per riportare Ankara nell’alveo naturale dell’Occidente. Rischia di esaurirsi la tolleranza per le scelte turche che vanno contro gli interessi di Stati Uniti ed Europa.
Il 24 aprile 2021, nel giorno in cui si ricorda l’inizio della campagna dell’Impero ottomano che, dal 1915 in poi, portò all’uccisione di circa un milione e mezzo di armeni, il presidente Biden ha fatto una dichiarazione dove usa esplicitamente la parola “genocidio”. Questo termine rompe un tabu imposto dalla Turchia, erede dell’impero ottomano, che non ha mai riconosciuto quei fatti su cui esiste invece un vasto accordo tra storici e studiosi e che è ormai considerato da decine di Paesi come il primo sterminio di massa del XX secolo. Biden ha affermato: “Ricordiamo le vite di tutti coloro che perirono nel genocidio degli armeni durante il periodo ottomano, e ribadiamo il nostro impegno per impedire che una tale atrocità avvenga di nuovo…la nostra intenzione non è quella di indicare delle colpe ma di garantire che quello che successe allora non si ripeta ”.
Il sultano turco ha tirato troppo la corda
Nel giro di poco tempo, il ministro degli Esteri turco Cavusoglu ha convocato l’ambasciatore americano per protestare e ha fatto un tweet dove ha scritto: “Non abbiamo nulla da imparare da nessuno sul nostro passato politico. L’opportunismo politico è il più grande tradimento della pace e della giustizia”. Ibrahim Kalin, portavoce della presidenza turca, ha usato parole durissime nel respingere le dichiarazioni della Casa Bianca, aggiungendo: “Consigliamo il presidente USA di guardare al passato e al presente del proprio Paese”, facendo un riferimento esplicito ai massacri dei nativi americani e ai ripetuti episodi di violenza contro gli afroamericani. In effetti, Biden ha toccato un nervo scoperto perché per decenni i suoi predecessori avevano evitato qualunque dichiarazione esplicita, temendo di danneggiare i rapporti con un alleato fondamentale nell’area mediorientale. Ma, a partire dal secondo decennio di questo secolo, e poi in coincidenza con l’amministrazione Trump, Erdogan si è ritagliato un politica personalistica all’interno della NATO, in netta contraddizione con i principî e la strategia dell’Alleanza atlantica. La dichiarazione della Casa Bianca segnala che molti nodi sono arrivati al pettine.
Negli ultimi anni, il presidente turco ha conquistato progressivamente un potere sempre
maggiore e ha iniziato a tacitare ogni forma di opposizione domestica, facendo nel contempo un’aggressiva politica internazionale che lo ha portato a confrontarsi duramente con altri alleati della NATO, come Francia e Grecia, con i quali si è quasi arrivati allo scontro navale. Questa politica autoritaria ha subìto un’impennata dopo l’ambiguo tentativo di colpo di stato del luglio 2016, di cui Erdogan ha incolpato le reti che fanno capo al religioso Fethullah Gülen, un suo ex alleato che ha trovato rifugio negli Stati Uniti e di cui ha chiesto invano l’estradizione. Da quel momento, si sono susseguite varie epurazioni all’interno dell’esercito, del corpo docente delle università, dei funzionari statali e scolastici. Decine di oppositori e giornalisti sono stati arrestati e condannati a molti anni di carcere con l’accusa di “sostenere il terrorismo”. Gli Stati Uniti non hanno mai osato prendere esplicitamente posizione contro le ripetute violazioni dei diritti umani compiute da Ankara, per non pregiudicare le relazioni con un alleato cruciale sul fianco meridionale della NATO e questo è stato sfruttato dal presidente turco come un segnale di via libera alla sua politica espansionistica.
Ma il sultano ha compiuto mosse molto arrischiate e tali da impensierire i militari statunitensi, che hanno cominciato a porsi delle domande sull’affidabilità dell’alleato turco. La svolta c’è stata nella primavera del 2019 quando, indispettito dal rifiuto statunitense di concedergli un sofisticato sistema missilistico, Erdogan si è rivolto alla Russia per comprare l’S-400, un sistema equivalente prodotto da Mosca, in un affare che vale 2,5 miliardi di dollari. Questo ha fatto scattare un campanello d’allarme al Pentagono che ha iniziato a caldeggiare una rimodulazione della politica verso la Turchia. La sconfitta di Trump alle elezioni del novembre 2020 ha creato le precondizioni politiche affinché potesse prendere corpo una nuova strategia per limitare le ambizioni turche. Biden, che durante la campagna elettorale si era espresso ripetutamente sulla questione dei massacri degli armeni, ha colto l’occasione per esplicitare la sua linea e proferire chiaramente la parola “genocidio” che nessun suo predecessore aveva osato pronunciare. Questa svolta è importante perché, con il riconoscimento statunitense, la questione delle uccisioni di massa degli armeni durante la Prima guerra mondiale arriva prepotentemente all’attenzione mondiale e mostra che non devono esserci vittime di serie A o di serie B, ma tutte, indistintamente, vanno piante e ricordate.
l Giovani Turchi pianificano il massacro degli armeni
Dalla fine del XVII secolo, che segna il periodo della sua massima espansione, l’Impero ottomano conosce un lungo declino che lo indebolisce progressivamente e che, dall’inizio del XIX secolo vede la nascita dei vari nazionalismi che portano all’indipendenza della Grecia e degli stati balcanici. All’inizio del XX secolo, Costantinopoli è considerato da tempo il “grande malato d’Europa”, tecnologicamente arretrato, con una burocrazia elefantiaca e inefficiente, una dirigenza politica inadeguata e rassegnata al declino. Contro questa tendenza, si afferma un movimento fieramente nazionalista che vuole iniettare nuova linfa nell’impero e dar vita a una politica panturca che riunifichi tutti gli stati turcofoni dal Medio Oriente alla Cina. Questo gruppo, conosciuto come “Giovani Turchi”, assume una grande importanza all’interno dell’esercito e della parte più conservatrice della società che concepisce gli stranieri (molto numerosi in quello che era un impero multietnico) come una minaccia all’identità turca e il futuro della nazione. Lo scoppio della Prima guerra mondiale viene visto come un’opportunità per fare definitivamente i conti con gli armeni, cristiani con una buona educazione, che si erano ritagliati un ruolo importante nella società come artigiani, medici, insegnanti, ufficiali, funzionari statali, suscitando prima l’invidia e poi l’odio dei nazionalisti.
Nel febbraio del 1915, il ministro della Guerra Enver Pasha ordina l’epurazione degli armeni che servono nell’esercito. Il 24 aprile, giorno che verrà considerato come l’inizio del massacro, sono arrestati giornalisti, scrittori, medici, preti, parlamentari che vengono deportati, insieme a tutti gli altri armeni in lunghe colonne verso l’interno dell’Anatolia e da lì, verso il deserto siriano. La maggioranza morirà di stenti durante le marce forzate, mentre migliaia di altri verranno passati sommariamente per le armi, senza fare distinzioni tra vecchi, donne e bambini. In realtà, i Giovani Turchi avevano già elaborato un piano per lo sterminio degli armeni in una riunione segreta a Salonicco nel 1911, ma poterono dare inizio al proprio disegno criminale soltanto durante la guerra, sfruttando la confusione e gli stravolgimenti bellici. Nell’Impero ottomano vivevano approssimativamente due milioni di armeni e si calcola che circa un milione e mezzo venne ucciso tra il 1915 e il 1923. I sopravvissuti al genocidio vennero islamizzati o costretti all’esilio.
La Turchia, erede dell’Impero ottomano sulla porzione anatolica delle antiche terre imperiali, non ha mai riconosciuto il genocidio e ammette soltanto che molti armeni morirono, come anche i turchi e le altre nazionalità, a causa della guerra. Non ci fu mai nessun massacro pianificato. Parlare di genocidio armeno nella Turchia di oggi è un reato penale punibile con la galera. Negli ultimi decenni, il governo di Ankara ha svolto un intenso lavoro di propaganda, che include studi storici di parte, campagne stampa e vere e proprie minacce di ritorsione contro tutti coloro che vogliono approfondire le tematiche del genocidio degli armeni. Decine di parlamenti nazionali, in Europa, America del Nord e del Sud, hanno approvato risoluzioni che riconoscono il genocidio armeno. Il Parlamento italiano l’ha fatto il 16 novembre 2000, mentre il Parlamento europeo ha approvato un documento in tal senso il 28 febbraio 2002. Il Congresso degli Stati Uniti ha votato due risoluzioni, nel 2007 e nel 2010, ma è solo grazie al presidente Biden che il muro è stato abbattuto e che il riconoscimento del genocidio armeno ha fatto il salto di qualità. Il sultano di Ankara ha ricevuto un messaggio forte e chiaro e ora deve cominciare a fare i conti con uno spazio di manovra politica che comincia a restringersi sempre più.
Il 29 novembre 1967 è sorto vicino alla capitale armena Erevan un Memoriale del genocidio armeno che, nel 1995, dopo la fine dell’Unione Sovietica, è diventato Istituto-Museo del genocidio armeno, trasformato poi nel 2017 in una fondazione autonoma. La fondazione si occupa di ricerche storiche, mostre, raccolta di testimonianze dei sopravvissuti, conferenze pubbliche. Israele, che sulla carta dovrebbe essere un attivo alleato nella campagna per il riconoscimento del genocidio armeno, non ha mai preso una posizione ufficiale in merito. Negli anni scorsi, questo era dovuto alla solida relazione con la Turchia, con cui c’era un intenso scambio di merci e informazioni riguardanti la sicurezza. Oggi, dopo che i rapporti con Erdogan si sono molto deteriorati, Israele rimane muto come un pesce perché ha una stretta collaborazione con l’Azerbaijan (di cui è il principale fornitore di droni e di altri armamenti) che ha un sanguinoso contenzioso con l’Armenia per il territorio del Nagorno-Karabakh (vedi articolo su Frontiere.eu del 19 novembre 2020). L’attuale Primo ministro israeliano Netanyahu non è riuscito a formare un governo, e quindi il presidente israeliano Rivlin ha affidato l’incarico al leader dell’opposizione Yair Lapid. Questi ha dichiarato il 2 maggio 2021 che se riuscisse a formare un governo si affretterebbe a seguire l’esempio del presidente americano nel riconoscimento del genocidio armeno. I propositi sembrano buoni ma, purtroppo, la politica estera di Israele è sempre stata punteggiata da scelte molto ciniche, come avvenne con l’alleanza con il Sud Africa dell’apartheid, che teneva Mandela in galera mentre scambiava segreti nucleari con Tel Aviv. Speriamo che Lapid smentisca quella tradizione di cinismo amorale.
di Galliano Maria Speri
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