È il 12 luglio 2007 e siamo in un’area residenziale di Baghdad. Le immagini sono riprese dall’interno di un elicottero Apache che trasporta soldati americani che stanno pattugliando la città. All’improvviso, i militari a bordo notano una ventina di uomini che si muovono in strada e ritengono di vedere nelle loro mani dei kalashnikov. Chiedono l’autorizzazione ad aprire il fuoco che arriva subito. Dieci uomini vengono letteralmente falciati, alcuni provano a scappare, ma il mitragliere li centra in pieno con la raffica successiva e meno di trenta secondi dopo sono tutti riversi al suolo, morti o gravemente feriti. L’elicottero fa ancora un giro sul punto dell’attacco e si sentono i commenti dei soldati: «Ah ah ah, li ho beccati!» – «Oh sì, guarda quei bastardi morti» – «Fico!» – «Bella mira!» – «Grazie». Il mondo ora è più sicuro dopo l’eliminazione di quei pericolosi criminali. Purtroppo, non erano terroristi ma un gruppo di giornalisti e le loro telecamere e teleobiettivi erano stati scambiati per armi. Anche un pulmino con una famigliola a bordo che si è avvicinato per soccorrerli è stato falciato. L’autista e gli altri due soccorritori sono uccisi immediatamente, i suoi figli, una bambina di cinque anni e un ragazzo di dieci, sono feriti gravemente.
Il rischio di rivelare la verità
Ordinaria amministrazione a Baghdad, innocenti vittime collaterali della folle guerra americana. Il mondo non ne avrebbe saputo nulla se il 5 aprile 2010 il giornalista australiano Julian Assange non avesse presentato al National Press Club di Washington un filmato di 18 minuti intitolato Collateral Murder. Il documentario si apre con una citazione di George Orwell: «Il linguaggio della politica serve a rendere veritiero il suono delle bugie e rispettabile un delitto, dando aspetto di consistenza al puro vento». Dopo, ci sono soltanto sconvolgenti immagini in bianco e nero. Assange è il fondatore di WikiLeaks, una piattaforma mediatica che ha rivoluzionato il modo di fare giornalismo e il diritto a sapere dell’opinione pubblica. Il giornalista, seguendo i propri principi deontologici e insieme ai colleghi di WikiLeaks, ha «rivelato centinaia di migliaia di file segreti del Pentagono, della CIA e della National Security Agency (NSA), le agenzie al cuore del complesso militare-industriale degli Stati Uniti, un leviatano che non risponde a nessuno e la cui potenza si fa sentire in ogni angolo del pianeta: decide guerre, colpi di Stato, spia intere nazioni, influenza elezioni e governi. Questi documenti hanno permesso di far emergere crimini di guerra, dall’Afghanistan all’Iraq, uccisioni stragiudiziali con i droni, massacri di migliaia di civili innocenti, torture dall’Iraq a Guantanamo. Non hanno fatto affiorare solo gravissime violazioni dei diritti umani degli Stati Uniti e dei loro alleati, hanno esposto anche abusi e scandali dei loro nemici: dai talebani alla Russia di Putin».
Da quel momento, però, diventa un nemico giurato degli Stati Uniti che, con la loro influenza e pressione, iniziano una persecuzione giudiziaria volta a presentare il giornalista non solo come una spia e un nemico dell’Occidente ma anche come un criminale che deve essere estradato negli Stati Uniti per la grave accusa di minaccia alla sicurezza nazionale. La drammatica storia di questa caccia alle streghe non si è ancora conclusa ed è raccontata minuziosamente in un interessante libro di Nils Melzer. L’autore non è un giornalista investigativo ma un relatore speciale delle Nazioni Unite, professore di Diritto internazionale all’Università di Glasgow e all’Accademia di Diritto internazionale umanitario e di Diritti umani di Ginevra. Melzer si occupa da oltre vent’anni di violazione dei diritti umani, è consigliere del governo svizzero, delegato della Croce Rossa e consulente legale in zone di guerra e di crisi. Il suo curriculum lo presenta immediatamente come un professionista competente e al di sopra delle parti. Il suo libro delinea con chiarezza e abbondanza di dettagli il calvario giudiziario di Assange, iniziato in Svezia con l’accusa per stupro rivoltagli da due donne nel 2010. Quel caso è stato aperto e chiuso numerose volte, i vari giudici istruttori non l’hanno mai convocato per interrogarlo quando era in Svezia, ma hanno emesso un mandato di cattura contro di lui una volta che si è recato a Londra. Melzer argomenta molto chiaramente che la Svezia non è più quel Paese neutrale e grande sostenitore dei diritti civili che era un tempo. Dopo l’abbandono della neutralità e la sua successiva entrata nella NATO si è integrato nel sistema militare-industriale ed è diventato sensibilissimo alle pressioni di Washington.
Le colpe di Assange
L’autore spiega chiaramente le motivazioni che lo hanno portato a scrivere il libro. «Questo libro –scrive Melzer- vuole essere un appello urgente. Un monito rivolto alla comunità internazionale degli Stati, perché il sistema di tutela dei diritti umani da esse stabilito non funziona. Un campanello d’allarme per l’opinione pubblica, perché questo fallimento dovrebbe preoccupare qualsiasi cittadino di uno stato democratico di diritto…Ho scritto questo volume perché indagando sul caso Assange, mi sono imbattuto in prove evidenti di persecuzione politica e grave arbitrio giudiziario, ma anche di torture e maltrattamenti attuati in modo deliberato». Ma di quali terribili colpe si è macchiato il giornalista australiano?
L’accusa è quella di aver rubato e pubblicato informazioni classificate su operazioni militari USA in Iraq e Afghanistan con la complicità di
Chelsea Manning, il militare che si è procurato i file segreti. Secondo gli USA, le azioni di Assange e Manning hanno messo in pericolo le vite di informatori degli Stati Uniti. Nel 2010, l’allora vice presidente, Joe Biden, si era riferito ad Assange con “terrorista hig-tech”. In realtà, la pubblicazione integrale dei documenti con nomi e dati non è stata colpa di Assange, che aveva addirittura contattato l’amministrazione USA per eliminare tutte le voci che potessero rappresentare un rischio per la sicurezza. WikiLeaks collaborava con testate come il New York Times, The Guardian, Le Monde, Der Spiegel e El Pais. La password che proteggeva i dati è stata pubblicata da uno dei giornalisti del progetto in un libro. WikiLeaks ha diffuso le informazioni soltanto dopo che queste sono diventate pubbliche. Inoltre, il governo statunitense non ha mai fornito alcuna prova dei danni subiti a causa della diffusione dei dati.
La verità è che i documenti resi pubblici da Assange hanno pesantemente imbarazzato gli Stati Uniti e i suoi alleati perché hanno portato alla luce del sole fatti che dovevano rimanere nascosti: la brutalità inutile, l’alto numero di vittime civili, molto superiore ai dati ufficiali. In una recente dichiarazione la Federazione Internazionale dei Giornalisti e la Federazione Europea dei Giornalisti hanno ammonito che «l’attuale procedimento contro Assange mette a rischio la libertà dei media in tutto il mondo». Assange è detenuto da quasi cinque anni nella prigione britannica di Belmarsh, un carcere di massima sicurezza che è stato definito la “Guantanamo del Regno Unito”. Se dovesse perdere l’appello, tutte le vie legali nel Regno Unito gli sarebbero precluse e dovrebbe presentare formale ricorso alla Corte europea dei diritti umani per opporsi all’estradizione. Nel caso questa via non risultasse percorribile, Assange correrebbe il rischio di una immediata estradizione negli Stati Uniti dove, in base a una legge contro lo spionaggio che risale alla Prima guerra mondiale, rischia 175 anni di carcere. Sua moglie ha dichiarato che il giornalista «è vittima della ritorsione americana» e ha aggiunto che il processo «deciderà se lui vive o muore». Il processo di appello per impedire l’estradizione di Assange negli USA si è tenuto a Londra il 20 e 21 febbraio 2024, ma la sentenza verrà emessa soltanto ai primi di marzo. Se il giornalista australiano verrà estradato e condannato a decenni di prigione per aver fatto il suo dovere professionale questo rappresenterà un segnale preoccupante per lo stato di salute della libertà di stampa in Occidente.
Nils Melzer
Il processo a Julian Assange
Storia di una persecuzione
Fazi Editore, 473 pag., 19 euro
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