di Olimpia Niglio

La gente morirà per non sapere come usare le forze naturali, e per la sua ignoranza del mondo reale. (Trascrizione di un’antica iscrizione sulla piramide di Cheope)

In un’epoca storica in cui la struttura sociale e la geopolitica hanno subito rapide trasformazioni, molti Paesi si interrogano sulle rispettive identità culturali e sulla necessità di stabilire nuovi paradigmi in grado di rimettere al centro le comunità e le culture locali.

Gli eventi che stanno interessando tutto il continente americano, ma anche le ex-colonie in Africa, nonché i tanti paesi soffocati da ingiuste guerre, sono tutte testimonianze di una “non conoscenza del reale” e di quanto la scienza, che non sempre opera a servizio dell’umanità, presenti forti limiti sul piano operativo creando grandi “errori epistemiologici” che non favoriscono lo sviluppo né i cambiamenti socio-economici. Tutto questo accade quando questi errori frenano i processi culturali.

Di questo era perfettamente consapevole Amílcar Cabral (1924-1973), leader del Partido Africano da Independência da Guiné e Cabo Verde (PAIGC) che, grazie al suo contributo di uomo di pensiero, mise in ginocchio il Portogallo, portando i popoli della Guinea Bissau e di Capo Verde verso la liberazione e l’indipendenza nazionale.

Cabral era consapevole che il problema era connesso con la mancanza di adeguate politiche culturali e quindi con la totale assenza di programmi formativi e educativi finalizzati a mettere al centro le persone e la Cultura. Infatti, egli affermava che “la Cultura […] quali che siano le sue caratteristiche ideologiche o idealistiche manifestazioni, è un elemento essenziale della storia di un popolo”. (Cabral A., 1976-1977, Obras escolhidas, a cura di Mário de Andrade (2 voll.), Lisboa, Seara Nova ). Essendo Cabral un agronomo, considerava la cultura come derivante dalla storia del popolo cui appartiene, così come il fiore è il risultato della pianta che l’ha generato.

Consapevoli che il secolo XX ha dato ampio spazio alle logiche del capitalismo e dell’elitismo, osserviamo come spesso la cultura sia caduta nella rete del materialismo, e si sia sempre più basata, e misurata, sulle logiche delle forze produttive: tanto che negli ultimi decenni, nei paesi cosiddetti sviluppati, il valore di un museo, ad esempio, è misurato non in relazione ai suoi contenuti culturali, ma in base alla bigliettazione e alla vendita di servizi. Così sempre di più abbiamo immerso le nostre radici culturali nella realtà materiale di un ambiente che non ha rispettato più le leggi della natura ma si è conformato invece su logiche fittizie basate sull’avidità e sulla redditività. Ovviamente questo ha distrutto proprio quel fiore che produce la pianta, cioè la cultura generata dalle comunità.

Cabral afferma che “la cultura […] come il fiore di una pianta, deve avere la capacità di elaborazione e di fecondazione del germe che garantisce continuità” (Cabral 1976, op. cit.). Pertanto, essendo il frutto delle comunità, solo la trasmissione della cultura e la sua evoluzione potranno garantire nuove prospettive evolutive e il progresso delle società. E solo grazie al rispetto della cultura basata sui valori autentici di un popolo possiamo sperare di generare benessere e sviluppo.

Lo studio della storia ci dimostra che tutte le forme di colonizzazione hanno indotto dure repressioni culturali, spesso cancellando le identità dei popoli conquistati per favorire la loro omologazione e così dominarli. Le conquiste hanno sempre e solo prodotto negazione delle culture occupate. Infatti, le condizioni che permettono la sottomissione di un popolo vedono sempre l’annientamento delle eredità locali, per far germogliare forzatamente nuovi sistemi di riferimento culturale che tuttavia, non essendo nati da piante autoctone, sono molto labili, fragili e facilmente seccano. Questo è accaduto in molti Paesi, dall’Oceania all’America, all’Asia, all’Africa, dove l’eurocentrismo ha fatto da padrone.

Colombia, Cali, demolizione della statua del conquistatore spagnolo Sebastián de Belalcázar, 7 maggio 2021.

Le numerose ingiustizie a cui stiamo assistendo ancora oggi e che colpiscono fisicamente le comunità e le loro eredità, sono soprattutto frutto degli “ostacoli epistemologici” di cui parla il filosofo francese Gastón Bachelard (1884-1962) (La Formación del Espíritu Científico. Contribución a un Psicoanálisis del Conocimiento Objetivo), mettendo al centro delle sue riflessioni il valore della conoscenza del reale che si manifesta come luce, ma che a sua volta proietta sempre un’ombra: e proprio questa ombra va indagata.

Quest’ombra non è altro che la verità di ciò che avremmo dovuto pensare per evitare gli ostacoli. Ma dietro un passato di errori non c’è sempre la verità di un pentimento intellettuale ed è quanto avviene proprio se analizziamo i processi di decolonizzazione in atto in tanti Paesi del mondo. Questi processi sono il frutto di una incapacità di lettura critica della realtà, la quale è sempre esito di intrecci e connessioni di antecedenti storici che, se opportunamente maturati, possono produrre risultati significativi e positivi. In questa prospetiva è molto interessante rileggere le pagine della storia dei diversi Paesi e attivare percorsi comparativi in grado di farci intendere come le differenti comunità abbiano reagito di fronte alle azioni colonizzatrici.

Non c’è Paese al mondo che non sia stato in qualche modo intaccato da un’azione colonizzatrice: le conseguenze sono state però differenti nei diversi luoghi. Basta osservare semplicemente l’articolata storia della nostra penisola italiana per capire come le differenti colonizzazioni abbiano contribuito a quella stratificazione culturale che ci caratterizza e che ci rende anche particolarmente creativi e innovativi in diversi ambiti, facendo così della “colonialità” una opportunità. Ma questo non si è sempre e ovunque verificato e ciò che oggi leggiamo sui giornali e nelle reti telematiche riflette una situazione veramente sconcertante: quel che si manifesta per esempio nell’abbattere le statue degli antichi conquistatori, in tal modo attivando oggi una risposta violenta a una violenza subita nel passato. Come nella ricerca di un’inversione dell’offesa colonialista – secondo la logica dell’occhio per occhio. Tale delicatissima situazione può essere affrontata solo rimettendo al centro la cultura autoctona delle comunità per dare così spazio a un’eredità generatrice di nuovi paradigmi culturali.

Se per una volta riuscissimo a conoscere e osservare la realtà secondo una prospettiva che sia in grado di mettere al centro l’umanità, capiremmo che il mondo – nel rispetto dovuto a tutte le filosofie e religioni – è il risultato di ciò che l’uomo ottiene con le sue azioni e quindi non è difficile intuire che il colonialismo non è stato altro che un “ostacolo epistemiologico”, usando le parole di Bachelard, e che su questo ostacolo vale la pena operare per rimettere in moto lo sviluppo storico dei popoli nel rispetto delle loro prerogative culturali.

Non possiamo infatti negare che i Paesi colonizzati sono stati completamente sopraffatti e bloccati nel loro sviluppo, soggiogati per rispondere a logiche materialistiche esterne e dove il capitalismo imperialista ha imposto modalità di vita completamente estranee alle società indigene, creando in queste delle fratture irreversibili, fomentato inutili ideali, scatenando violenze e contraddizioni, conflitti sociali e culturali, e imponendo il “dio denaro” come l’unico mezzo di sopravvivenza.

Così le azioni a cui stiamo assistendo in tanti Paesi, soprattutto dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia del sud, sono proprio il risultato di questa complessità storica che necessita di rimettere al centro la cultura locale, le comunità e soprattutto l’educazione scolastica e la formazione al pensiero critico, in grado di aiutare ogni individuo ad emergere per quello che è, per ciò che sente di essere e per ciò che deve fare a servizio della comunità a cui appartiene. Un processo di “decolonizzazione delle menti”, come affermava Amílcar Cabral (Milani A., 2016, Decolonizzare le menti: Amílcar Cabral e la resistenza culturale come arma contro la dominazione straniera, Saggi, n.16-11, p.71-75) capace di riattivare processi vivi, dinamici e costantemente rigenerati, proprio come fa la pianta con il fiore e il suo frutto: un processo ciclico di rigenerazione delle culture locali senza le quali non ha alcun senso parlare di Cultura. Rimettiamo quindi la Cultura al centro, in tutte le sue manifestzioni, favorendo la convivenza – come afferma Francesco Follo (Conoscenza e Condivisione. La conoscenza condivisa e il sapere pratico, manoscritto) affinchè l’umanità possa essere considerata come una grande Sinfonia dove ogni musicista con la propria identità è parte integrante dell’esecuzione di una straordinaria musica che è la bellezza della vita e del vivere comune, nel rispetto delle diversità e per il benessere di tutti.

L’arte come espressione di convivenza multiculturale. Canada. Vancouver. York Theatre Mural by Ariel Martz-Oberlander (Foto di Ted McGrath, 2021).
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