I ripetuti scontri con Israele, che non è mai riuscita a distruggere completamente l’arsenale missilistico di Gaza, hanno permesso ad Hamas di presentarsi come l’unico, vero rappresentante del popolo palestinese, emarginando sempre di più l’Autorità Nazionale Palestinese, riconosciuta a livello internazionale ma sempre più debole e imbelle. L’egemonia del movimento islamista significherà la fine di ogni possibile colloquio di pace e consentirà la continuazione della politica di colonizzazione ebraica nei territori occupati.
Il 13 novembre 1974 Yasser Arafat, capo carismatico dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) tenne un discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite in cui pronunciò la famosa frase “Sono venuto portando un ramoscello d’ulivo e la pistola di un combattente per la libertà. Non permettete che il ramoscello d’ulivo cada dalle mie mani” che aprì all’ipotesi di un negoziato tra lo Stato d’Israele e i palestinesi. Il 13 dicembre 1988, Arafat parlò di nuovo all’Assemblea generale ONU e dichiarò che l’OLP rinunciava al terrorismo in tutte le sue forme e chiedeva che venisse convocata una conferenza internazionale con il compito di porre fine al lungo conflitto arabo-israeliano e permettere la nascita di uno Stato palestinese che vivesse in pace con il suo vicino ebraico. Il riconoscimento ufficiale dello Stato di Israele rappresentò un primo, cruciale passo concreto verso un accordo tra ebrei e palestinesi.
La complessa lotta per un accordo di pace
A questa prima apertura seguirono incontri ufficiali e trattative segrete che condussero infine ai cosiddetti Accordi di Oslo del 1993. Nel settembre dello stesso anno Arafat e il Primo ministro israeliano Yitzhak Rabin si scambiarono delle lettere in cui l’OLP riconosceva “il diritto dello Stato di Israele di esistere in pace e sicurezza”, mentre Rabin riconosceva l’OLP come “rappresentante del popolo palestinese”. Prendeva corpo la nascita di un autogoverno palestinese sulla Riva occidentale del Giordano e su Gaza, con la prospettiva della creazione di un vero e proprio Stato palestinese sulla base delle risoluzioni 242 e 338 dell’ONU. Nel settembre 1995 Rabin, Arafat e il ministro degli Esteri israeliano Peres (appena insigniti del Premio Nobel per la pace) firmarono un accordo transitorio che prevedeva il ritiro graduale delle truppe israeliane dalle aree occupate e la nascita di un’Autorità Nazionale Palestinese che potesse amministrare i territori che venivano progressivamente liberati. Anche senza essere un esperto di diplomazia, si capisce l’enorme difficoltà tecnica e politica del compito, anche perché il flusso di coloni che si istallavano nei territori palestinesi era andato avanti senza sosta.
Sia all’interno del mondo arabo che nella destra israeliana, si erano però sviluppate correnti ferocemente contrarie agli Accordi di Oslo. Fu l’estremismo di destra israeliano a fare la prima, tragica mossa. La sera del 4 novembre 1995, al termine di un comizio, il premier Rabin venne assassinato da Yigal Amir, un colono ebreo estremista che considerava gli accordi con i palestinesi come un tradimento. Rabin, un ex generale con un grande prestigio, era l’unico politico con l’autorità di unire Israele su una politica di dialogo e la sua morte mise in crisi il processo di pace e favorì l’affermazione di una destra nazionalista ebraica che non aveva alcuna intenzione di convivere con uno Stato palestinese, a prescindere da quanto previsto dalle leggi internazionali. Le elezioni del maggio 1996 vennero vinte dal partito di destra Likud e Benjamin Netanyahu, ostile a qualunque accordo con i palestinesi, venne nominato Primo ministro ed è rimasto al governo, con brevi interruzioni che non hanno modificato la scelta della chiusura, fino ai giorni nostri. Il consolidamento del potere nelle mani della destra fu anche favorito dal tramonto della vecchia elite ashkenazita (originaria dell’Europa centrale), a cui appartenevano tutti i padri fondatori di Israele, e l’affermazione, sia demografica che politica, delle correnti sefardite (provenienti dai Paesi arabi), meno colte, molto più nazionaliste e ostili alla visione aperta e cosmopolita degli ashkenaziti.
Rafforzare Hamas per spaccare i palestinesi
Con la scomparsa di Rabin, Arafat si è visto privato di quella controparte di cui aveva bisogno per condurre in porto un processo così arduo e ha mostrato di non possedere quella caratura politica che gli avrebbe consentito di superare scogli così formidabili. All’interno del suo movimento nuovi gruppi radicali hanno iniziato a guadagnare spazio e popolarità, intorno a parole d’ordine che denunciavano l’inganno degli accordi con i sionisti. D’altronde, mentre si svolgevano i colloqui di pace, aumentava il numero dei coloni estremisti che si insediavano nei territori palestinesi (tra il 1993 e il 2000 circa cento mila nuovi coloni si sono stabiliti in Cisgiordania). La morte di Arafat nel 2004, l’unica figura autorevole e riconosciuta internazionalmente, ha trasformato l’Autorità Nazionale Palestinese in un consesso di burocrati, minato dalla discordia e dalla corruzione. Un invito a nozze per i servizi segreti israeliani.
Prima di analizzare le varie fasi in cui un piccolo movimento religioso come Hamas è arrivato a giocare un ruolo centrale nel movimento palestinese, è necessario sfatare alcuni luoghi comuni su come Israele persegue i propri obiettivi, perché altrimenti non riusciamo a leggere gli sviluppi mediorientali con la necessaria chiarezza e obiettività. Una leggenda metropolitana afferma che Israele è all’avanguardia nella lotta contro il terrorismo, ma se è così, come mai dopo quasi ottant’anni il problema non è stato risolto? In un ambito molto più locale e meno complesso, rispetto al Medio Oriente, come quello dell’Italia degli anni di piombo, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa è riuscito a condurre una guerra vittoriosa contro il terrorismo brigatista, colpendolo con una dura strategia di arresti e privandolo, a poco a poco, del supporto sociale di cui godeva. Dopo oltre vent’anni, è evidente che nessuna forza politica israeliana di qualche rilevanza crede ancora al processo di pace, mentre appare chiara la strategia del divide et impera che mira a estremizzare il movimento palestinese, in modo da bloccare sul nascere qualunque possibilità di dialogo. È qui che entra in gioco Hamas, cresciuta nel campo palestinese di pari passo all’aumento dell’influenza dell’estrema destra nella società e nella politica israeliana.
Storicamente, il movimento per la liberazione della Palestina, ha origini laiche, presenta profonde influenze marxiste e per anni è stato appoggiato dai Paesi del Patto di Varsavia, in un mondo diviso dalla Guerra fredda. Arafat ha avuto un lungo percorso politico, dalla rivoluzione contro l’invasore sionista, fino al riconoscimento di Israele, ma non è mai stato un islamista fanatico. Il capo dell’OLP, che ha sempre dichiarato di essere sposato con la causa palestinese, nel 1990 decide infine di convolare a nozze con Suha al-Tawil, una donna palestinese di origini cristiane, educata alla Sorbona di Parigi. Con la sua strategia, Arafat era riuscito a stabilire un collegamento tra la lotta per l’indipendenza palestinese e quella di molti movimenti di liberazione nel mondo, una scelta politica che riscuoteva anche molte simpatie all’interno della sinistra, sia in Europa che negli Stati Uniti.
Un movimento di liberazione palestinese fanaticamente islamico si isola all’interno del mondo sunnita, e crea grandi difficoltà a qualunque potenziale simpatizzante internazionale che non riesce più a distinguere adeguatamente tra le istanze religiose e quelle politiche. Gli israeliani che volevano affossare definitivamente la strategia negoziale hanno iniziato a puntare esplicitamente sull’estremismo islamico di Hamas, per indebolire il potere di Arafat (che li ha accusati più volte di essere al servizio del sionismo) e arrivare poi all’egemonia sull’Autorità Nazionale Palestinese. Il processo è a buon punto.
Hamas, una sigla che significa Movimento di resistenza islamica, nasce da una serie di
iniziative della Fratellanza musulmana (un’organizzazione volta a favorire l’affermazione di un islam politico che ha tra i suoi grandi sostenitori la Turchia e il Qatar) che crea nella striscia di Gaza e nella Cisgiordania occupata una serie di enti di beneficienza, cliniche e scuole. Nel 1987, dopo lo scoppio della prima intifada, una parola araba che significa ribellione, membri della Fratellanza musulmana e alcune fazioni religiose all’interno dell’OLP danno vita ad Hamas che comincia a guadagnarsi uno spazio con le sue parole d’ordine contro ogni negoziato con Israele. Dall’inizio, il movimento punta sulla lotta militare contro l’occupazione, ma a cui affianca anche un programma di aiuti sociali che hanno generato molte simpatie tra l’impoverita popolazione palestinese. Nel suo statuto del 1988, l’organizzazione islamica afferma che la Palestina è una patria islamica che non potrà mai essere ceduta a non musulmani e che la guerra santa per strappare la Palestina a Israele è un dovere per tutti i palestinesi islamici. Dopo aver denunciato gli accordi di Oslo, il gruppo organizza una serie di attentati suicidi in Israele e si scontra duramente con Arafat che, nonostante questo, fa diversi tentativi per includerli all’interno dell’Autorità Palestinese, per tentare di farli partecipare in qualche modo al processo di pace. Hamas riesce ad aumentare notevolmente la propria influenza dopo la seconda intifada, aizzata a bella posta da Ariel Sharon, il capo carismatico della destra del Likud.
Sharon e Netanyahu puntano su Hamas
Nel settembre del 2000, mentre continuavano a trascinarsi stancamente i colloqui israelo-palestinesi con un governo laburista, Ariel Sharon decide di accendere la miccia e organizza una sfrontata passeggiata sulla spianata delle moschee a Gerusalemme, uno dei luoghi più sacri dell’islam. La furia palestinese si scatena immediatamente e prende la forma di una seconda intifada, segnata da una violenza brutale, e questo fornisce l’occasione ad Hamas di organizzare diversi attentati suicidi in Israele, aumentando il proprio peso all’interno delle correnti estremistiche. Con la tensione di nuovo alle stelle, a Tel Aviv nessuno osa più sollevare la questione dei colloqui di pace. Alle elezioni israeliane del 2001 il partito laburista è sconfitto e Sharon diventa Primo ministro. In una delle sue prime dichiarazioni afferma: “Non abbiamo un partner con cui discutere di pace”. Il consolidamento definitivo di Hamas all’interno del movimento palestinese si verifica nell’agosto del 2005 quando Sharon, con una mossa controversa, decide il ritiro unilaterale dei coloni da Gaza.
Molti osservatori rimasero sorpresi da questa scelta di Sharon, coriaceo difensore delle tesi più estremistiche, ma in realtà la mossa fu studiata attentamente e si risolse in una serie di vantaggi per Israele. In primo luogo, come diversi demografi andavano sollecitando da tempo, la notevole crescita demografica palestinese rendeva sempre più problematica la permanenza dei coloni all’interno della striscia. Ma il secondo aspetto, molto più sottile, era rappresentato dal fatto che Hamas aveva una radicata presenza a Gaza e poteva presentarsi come unico difensore degli interessi palestinesi contro l’occupazione. Il brusco ritiro unilaterale, senza nessuna discussione con l’Autorità Palestinese, diede la possibilità agli estremisti islamici di presentarsi come gli eroi popolari che avevano costretto il nemico sionista al ritiro e permise ad Hamas di diventare la forza egemonica nella striscia.
Questo divenne evidente nel 2006, quando Hamas decise di cambiare la propria strategia e di partecipare alle elezioni indette dall’Autorità Palestinese, vincendole a Gaza con un buon vantaggio. La vittoria di Hamas scatenò una lotta durissima con il partito rivale di al Fatah, una vera e propria guerra civile che vide Hamas vincitore e in pieno controllo di Gaza. In questo modo il governo palestinese veniva spaccato e diviso in due, con la Cisgiordania sotto il controllo dell’Autorità Palestinese, e Gaza dominata dal movimento islamico Hamas. La dirigenza laica dell’OLP doveva fare i conti con militanti religiosi, ben armati e determinati e che potevano presentarsi come gli unici vincitori sul campo, mentre i membri corrotti dell’Autorità Palestinese agivano come pedine nelle mani di Israele. A chiarire ogni dubbio sulla vera strategia della destra nel disimpegno da Gaza fu un’intervista, rilasciata da Dov Weissglass, il capo di gabinetto di Sharon, al quotidiano Haaretz il 6 ottobre 2004. “Il significato del disimpegno –dichiarò Weissglass- è di congelare il processo di pace… questa mossa ci fornisce la formaldeide necessaria affinché non ci sia nessun processo politico con i palestinesi”.
Chi sostiene Hamas
Il fatto che Gaza sia controllato da un movimento riconosciuto come terroristico da USA, Unione Europea e Gran Bretagna, ha consentito a Israele di operare un ferreo blocco terrestre, navale e aereo, che ha trasformato l’area in un vero e proprio campo di concentramento, in cui la popolazione vive in condizioni miserrime, con forniture idriche ridotte al lumicino ed elettricità che è disponibile soltanto per alcune ore al giorno. Gli abitanti di Gaza, dove viene praticata un’economia di sussistenza, vivono soltanto grazie agli aiuti delle Nazioni Unite. Non esiste né una vera industria, né un’agricoltura degna di questo nome e la pesca, a ragione della lotta al terrorismo, viene drasticamente limitata da Israele.
Il lancio di missili da Gaza verso lo Stato ebraico ha scatenato più volte l’intervento militare israeliano. Nel 2008, ci fu l’operazione Piombo fuso, durata 22 giorni e che causò la morte di più di 1.300 palestinesi e 13 israeliani. Nel novembre del 2012, sempre in risposta ai lanci di missili da Gaza, l’esercito israeliano scatenò l’operazione Pilastro della difesa in cui, durante gli otto giorni di scontri, morirono 170 palestinesi e 6 israeliani. Ma il conflitto più grave, prima di quello del maggio 2021, si ebbe nel luglio del 2014 quando l’esercito israeliano lanciò l’operazione Margine di protezione che costò la vita a 2.251 palestinesi, di cui 1.462 civili, e 67 soldati e 6 civili israeliani in scontri che durarono 55 giorni. Bisogna notare l’enorme differenza tra le vittime palestinesi e quelle dello Stato ebraico, e anche il fatto che le ripetute operazioni israeliane volte a distruggere l’arsenale missilistico di Hamas, nascosto in tunnel sotterranei, non hanno mai raggiunto il risultato sperato.
I due alleati tradizionali del movimento islamico sono la Siria, che ha ospitato per anni i suoi dirigenti, e l’Iran, principale sostenitore finanziario e fornitore di missili e di istruttori che insegnano ai militanti a fabbricarli in loco. Stime di esperti mediorientali, riportate dalla BBC, valutano gli aiuti iraniani in circa 200 milioni di dollari all’anno. Le rivolte del 2011 contro il regime di Assad, che ha subito ricevuto l’appoggio dell’Iran, hanno però guastato le relazioni perché i dirigenti di Hamas che operavano da Damasco si sono rifiutati di sostenere la campagna di repressione del presidente siriano contro l’opposizione. All’inizio del 2012 i dirigenti di Hamas hanno lasciato Damasco per trasferirsi al Cairo, durante la presidenza di Mohamed Morsi, strettamente legato alla Fratellanza musulmana. Morsi è però rimasto al potere soltanto per un anno, ed è stato deposto da un colpo di Stato militare nel 2013. Questo ha costretto Hamas a spostare i propri uffici in Qatar, un altro Stato esplicitamente schierato, insieme alla Turchia, con la Fratellanza musulmana.
Quando l’onda lunga delle cosiddette “primavere arabe” si è esaurita, Hamas ha iniziato un
lento lavoro di ricucitura con l’Iran, riuscendo a ristabilire buoni rapporti e creando le condizioni per la ripresa dei finanziamenti. Tehran non ha mai sospeso il sostegno militare ad Hamas, che si è rivelato l’unica forza in grado di affrontare militarmente Israele senza esserne annichilito, ma ha ridotto il flusso dei finanziamenti, anche a causa della difficile situazione economica interna. Come ha dimostrato con la pioggia di missili lanciati contro Israele nel maggio del 2021, Hamas, pur se in grandi difficoltà economiche, è vivo e vegeto e ha mostrato sul campo una grande capacità di resistere e sopravvivere. Non va sottovalutata neppure la sua abilità diplomatica nel mantenere e approfondire le relazioni con l’Iran, protettore del movimento sciita, perché a differenza degli Hezbollah libanesi, che sono una filiazione diretta della rivoluzione degli ayatollah di Tehran, Hamas è sunnita e ha mostrato un sua capacità di politica indipendente.
Durante gli scontri del maggio 2021 Hamas ha perso molti dirigenti ma è riuscita a mantenere una buona parte del suo arsenale missilistico, il che le consentirà di riprendere i lanci quando vorrà e, automaticamente, scatenare la risposta dell’esercito israeliano. Dimostrando ancora una volta sul campo di saper tener testa al nemico sionista, il gruppo islamico ha contribuito a discreditare ulteriormente la dirigenza dell’Autorità Nazionale Palestinese e quindi a trasformarsi nell’unico, vero rappresentante del popolo. Dimostrando una buona sagacia tattica, nel 2017 Hamas ha modificato il proprio statuto, ammorbidendo il proprio linguaggio e moderando le posizioni. Non vi è alcun riconoscimento di Israele, ma viene accettata la creazione transitoria di uno Stato palestinese a Gaza, sulla Riva occidentale e a Gerusalemme est, all’interno di quelli che erano i confini prima della guerra del 1967.
Poiché, nella realtà, Gaza è un vero e proprio campo di concentramento, la Riva occidentale accoglie sempre più coloni israeliani e Gerusalemme est vede la costante espulsione dei residenti arabi a favore di nuovi arrivati ebrei, non esiste nessuna prospettiva concreta di un accordo, per cui è prevedibile che il lancio dei missili prima o poi riprenda, visto anche che proprio in questi giorni viene discussa la formazione di un nuovo governo dello Stato ebraico guidato da Naftali Bennet, strenuo sostenitore dei coloni, che rappresentano la parte culturalmente più arretrata di Israele. I numeri dimostrano ampiamente che negli scontri i morti stanno tutti da una parte, di solito civili indifesi, vittime designate nella guerra tra due opposti estremismi. Ma se è vero che la schiacciante maggioranza dei morti è palestinese, anche il potentissimo apparato militare di Israele non riuscirà a proteggere il profilo etico dello Stato ebraico. Se continuerà la politica di colonizzazione, che reputa gli untermenschen palestinesi indegni di ogni diritto umano, che credibilità morale potrà avere uno Stato che, ricordiamolo, è nato dalla shoah, la più grande tragedia umanitaria del secolo scorso?
(fine)
di Galliano Maria Speri
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