da Madrid
La sessione straordinaria del Parlamento spagnolo cominciata alle 15 di mercoledì 25 marzo ha reso un quadro significativo della situazione nel Paese: solo 43 i presenti, sparsi radi nell’emiciclo a debita distanza tra di loro, gli altri parlamentari collegati online. Dopo che un oratore si allontanava dal podio accorreva una commessa guantata a disinfettare leggio, piano di appoggio, microfono. Sulla prima fila dei banchi alla sinistra della Presidente della Camera sedeva, come sempre, Pedro Sanchez, Presidente socialista del Governo. E due seggi più in là Pablo Iglesias, uno dei Vicepresidenti e suo socio di governo, del partito Podemos. Sia l’uno, sia l’altro hanno consorti affette da coronavirus e in quarantena: per conseguenza anche loro dovrebbero starsene in quarantena, come fa la Cancelliera tedesca Merkel poiché il suo autista è risultato positivo e come fa la regina Letizia, esiliata nella sua camera per un motivo simile. Loro no: sono politici latini.
Tra i membri del governo vi sono tre infetti dal Covid-19: Irene Montero, compagna di Iglesias e ministra per l’Uguaglianza, Carmen Calvo, vicepremier, e Carolina Darias, ministra per la Politica Territoriale. Con la moglie di Sanchez, Begonia, hanno tutte in comune di aver partecipato alla manifestazione femminista svoltasi l’8 marzo a Madrid, quando già si sapeva che si stava diffondendo l’epidemia in Spagna. Oggi c’è chi minaccia di denunciare i responsabili della città per averla consentita. Madrid è governata dal Partido Popular, di destra e all’opposizione del governo socialista di Psoe e Podemos, sostenuto da un’ampia coalizione di partitini che include alcuni gruppi nazionalisti come il basco PNV (Partito Nazionalista Basco) e si giova dell’astensione di altri nazionalisti come il catalano ERC (Sinistra Repubblicana di Catalogna). Ma quella manifestazione fu sostenuta e promossa dal Governo nazionale, e al momento della sua convocazione l’opposizione non eccepì per motivi di salute pubblica, bensì solo come critica al femminismo demagogico.
Pur nel solito folklorico bailamme delle critiche intrecciate tra Governo e opposizioni, la seduta parlamentare del 25 marzo si è chiusa con una generale unità: i partiti di centro e destra (Partido Popular, Ciudadanos e Vox) hanno votato a favore della proroga sino al 12 di aprile del decreto approvato il 14 marzo che impone sul Paese lo stato di emergenza: più o meno come quanto decretato una decina di giorni prima in Italia, non è possibile uscire di casa se non per comprovati motivi collegati al proprio lavoro e tutte le attività ritenute non di prima necessità sono sospese. In effetti le strade delle città sono vuote, aleggiano droni per controllare che non vi siano spostamenti inappropriati, e le forze di Polizia hanno elevato decine di migliaia di multe a cittadini che non si adeguano. Uno Stato di Polizia, per quanto temporaneo.
Nel dibattito parlamentare alcuni, come il rappresentante del gruppuscolo Más Pais (una scissione da Podemos), Iñigo Errejón, che fa parte della coalizione di Governo, hanno criticato le misure di restrizione adottate per essere troppo deboli. Errejón, come altri quali il leader di Vox, che sta dall’altra parte dello spettro politico, ha chiesto misure più dure: chiusura totale di ogni attività non assolutamente essenziale come quella ospedaliera.
Alla fine, com’era previsto, lo scontro politico è stato rimandato a dopo che l’emergenza sanitaria sarà passata.
Restano due le questioni: quanto tempo necessiterà l’emergenza per passare, e come ricostruire un tessuto sociale ed economico messo in ginocchio.
Gli “esperti” – che peraltro a loro volta sembrano sapere ben poco di fronte a questo fenomeno relativamente nuovo – si fondano sull’idea che il virus proceda come una grande ondata, un lento Tzunami che investe ampie fasce della popolazione e si ritiene che la Spagna sia più o meno una settimana indietro rispetto all’Italia, che oggi risulta il Paese più colpito. Al 25 marzo in Spagna sono quasi 57 mila i contagiati registrati (ma quanti lo siano in realtà, tra portatori sani e persone con sintomi troppo lievi per presentarsi in ospedale, nessuno può saperlo) e sono oltre 4000 i morti. Soprattutto i reparti di terapia intensiva sono al limite della loro possibilità. In Spagna prima della crisi erano circa 3800 i posti disponibili in terapia intensiva, più o meno lo stesso tasso che in Italia dove erano circa 5800 prima della crisi (la popolazione italiana è di circa 60 milioni di abitanti, quella spagnola è di circa 46 milioni). E, malgrado l’impegno per aumentare i posti di degenza e terapia intensiva, sia in Italia, sia, a breve distanza di tempo, in Spagna, il triage ha imposto che le persone con meno possibilità di sopravvivere non siano più curate se non, alla meglio, con palliativi: anziani, persone già affette da altri malanni…
Un fatto che ha destato commozione è che dal 22-23 marzo i giornali hanno dato notizia che in alcuni ospedali di Madrid, che con Catalogna ora è la comunità più colpita, molti malati sono stati stesi al suolo nei corridoi. E gli ospedali a loro volta sono luoghi non precisamente salutari: malgrado le cautele, numerosissimo è il personale sanitario colpito. Secondo quanto riferisce El Pais del 22 marzo, il 12 percento degli infettati dal virus è personale sanitario. Altre fonti indicano che sia il 13,6 percento, con un totale di 5400 tra medici e infermieri colpiti, soprattutto nelle zone che per prime sono state raggiunte dal virus: Euskadi e Madrid. I presidi medici disponibili sino a quella data in realtà non erano in numero sufficiente per proteggere tutto il personale: mascherine, occhiali e altri strumenti stanno arrivando dalla Cina soprattutto. Lo stesso personale lavora a ranghi ridotti: le politiche liberiste hanno portato a ridurre il numero di addetti della sanità pubblica nel corso degli ultimi dieci anni, un fatto che ha colpito in particolare la Comunità di Madrid. Rispettivamente, un altro effetto del liberismo è stato l’aumento del numero e degli affari degli ospedali privati, che oggi sono il 60 percento del totale di quelli spagnoli. E gli ospedali privati non si occupano di epidemie come questa che oggi colpisce il Paese: anche dopo l’imposizione dello stato di emergenza e la requisizione di tutte le strutture per far fronte all’emergenza, solo il 10 percento dei malati di coronavirus è ricoverato in ospedali privati. Che ora si stanno dedicando, lo denuncia El Pais del 26 marzo, invece di convogliare medici e infermieri sulle necessità dell’emergenza, a mettere in cassa integrazione il proprio personale, perché le richieste di operazioni di non immediata rilevanza sono ovviamente cadute a zero.
Particolare commozione ha sollevato anche il fatto che in diverse residenze per anziani (ve ne sono molte a Madrid) altissima sia stata la percentuale di morti. In un caso un morto è stato trovato quasi per caso nella sua stanza, a giorni di distanza dal decesso: come se non vi fosse sorveglianza medica: un esempio di come l’emergenza getti nello scompiglio anche strutture organizzate per proteggere la salute delle persone. Il problema è lo stesso ovunque: non c’è preparazione per un evento come questo.
Anche i Governi, che sapevano che stava arrivando il virus dalla Cina a inizio di gennaio, evidentemente non si sono resi conto delle reali dimensioni del problema.
Ora si attende – si spera – che arrivi il “picco” in Spagna: che le misure di isolamento abbiano effetto e l’epidemia, anche grazie al clima primaverile, tenda a scemare, lasciandosi dietro lo strascico di morti accatastati negli obitori in attesa di cremazione, come nei film di guerra.
E poi?
Già si profila il futuro: la Banca Centrale Europea annuncia che continuerà la politica del Quantitative Easing, la versione contemporanea dello stampare moneta, così da permettere la circolazione della liquidità. Una misura che non fa che permettere che quantità maggiori di ricchezza nominale finiscano nelle mani dei soliti noti, capaci di manovrare i mercati.
La situazione richiederebbe invece di invertire la tendenza ideologica impostasi dagli anni Ottanta del liberismo rampante. Vi sono accenni in questa direzione. I Governi dei Paesi meridionali chiedono che si emettano Eurobond, ovvero che vi sia un governo centralizzato del debito dei Paesi europei e che si ponga la prima pietra per erigere il sistema dell’armonizzazione fiscale nell’Unione: sono d’accordo per questo, con la Spagna di Sanchez, anche Grecia, Slovenia, Italia, Francia, Portogallo, Irlanda, Belgio, Lussemburgo: hanno inviato assieme una lettera a Charles Michel, il Presidente attuale del Consiglio d’Europa, in cui chiedono che si lavori per definire “Uno strumento di debito comune” perché “è necessario riconoscere la gravità della situazione e la necessità di approntare mezzi ambiziosi per sostenere le nostre economie”.
Si oppongono i Paesi del Nord Europa, a partire dall’Olanda che per motivi non ancora chiari non sono stati colpiti così duramente dal coronairus. Sono gli stessi che all’epoca della grande crisi della Grecia, nel 2015 vollero imporre la politica dell’austerità in cambio del procrastinamento del debito, che garantì il disastro sociale in quel Paese e il saccheggio delle sue ricchezze residue.
Il fatto che tanti Paesi meridionali stiano trovando un interesse comune, implica che forse effettivamente, come è avvenuto nella votazione plebiscitaria della seduta del Parlamento spagnolo cominciata il 25 marzo (e terminata alle 2 della mattina successiva) l’emergenza del coronavirus possa forse portare a invertire la tendenza alla politica del “Washington Consensus” (laissez faire, privatizzazioni, austerità…. quel che è stato il cavallo di battaglia dei partiti di centrodestra sinora). Ma ovviamente è presto per dirlo e sul piano europeo questo potrebbe avvenire solo se la Germania stesse dalla parte dei Paesi più economicamente deboli.
Se questo non avverrà, dopo il coronavirus sarà molto difficile mantenere l’Unità europea.
E quei partiti ideologicamente distanti che nella seduta del parlamento spagnolo del 25 marzo hanno saputo trovare l’unità di intenti, torneranno a battibeccare su tutto, ma probabilmente senza più curarsi del comune interesse della società che pure nel momento dell’emergenza hanno saputo riconoscere e cercare di affrontare.
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