La domanda oziosetta consegue all’altra, retorica, da più parti profferita a fronte delle molteplici manifestazioni della nequizie umana: non impareremo mai dalla storia? La risposta a quest’ultima è ovvia. Il problema risiede nel fatto che implica il concetto di storia come disciplina scientifica capace di dare risposte univoche fondate su prove inoppugnabili. E certamente la storia è provata: ma sulla pelle dei popoli, sul loro sangue e sulle loro fatiche. Esattamente quanto lo è la politica. Che se all’origine questa era l’arte di amministrare la città, è ben presto diventata il terreno di scontro dei poteri che ambiscono controllare, dominare e regolare non solo le città ma gli stati e le relazioni tra gli stati. Lo si constata, oggi come sempre in passato, nell’effervescenza delle tenzoni che s’intrecciano su tutti i campi ove si dispiega la contesa politica. Che pertanto si configura come la continuazione della guerra con altri mezzi, con buona pace di von Clausewitz.

La storia in sé non esiste: esiste la politica come luogo nel quale si scontrano le diverse scuole di pensiero e le molteplici aspirazioni di dominio

La domanda se mai impareremo dalla storia si potrebbe oggi riferire a quanto avviene in Medio Oriente. Ma a porgerla a qualche militante di Hamas probabilmente ci si troverebbe di fronte alla risposta che è proprio per quanto gli ha insegnato la storia che ambisce a eliminare Israele. E probabilmente speculare sarebbe la risposta di chi milita nel campo opposto.

La storia non dà risposte univoche, però pone domande. Ma le pone solo a chi desidera ascoltare, non a chi parte con la risposta in tasca: questi ultimi troveranno sempre nella storia qualche giustificazione per le loro decisioni politiche. Basta andare indietro nel tempo. Come disse all’estensore di queste note una scrittrice palestinese: non avrebbero i Romani lo stesso diritto che hanno gli Israeliani di reclamare come loro le terre di Palestina? Si potrebbe obiettare che i Romani di oggi non son proprio quelli di ieri: ma in fondo ne sono eredi, e gli eredi hanno i loro diritti.

Del resto alla fin fine è proprio questo il ragionamento che fa Putin nel considerare sue le terre ucraine: un tempo erano russe: lo spiegò a Tucker Carlson nell’intervista che questi gli fece nel febbraio del 2024. Tralasciava che allo stesso modo potrebbe Kiev pretendere di dominare sulla Russia, poiché nel basso medioevo tale era la situazione.

La storia è sempre presentata a favore o contro alla politica dominante, a seconda di chi la racconta, per quanto storici professionisti onesti possano ingegnarsi di riferirsi a documenti inoppugnabili. Perché è sempre questione di scelta: di quali eventi parlare e di come presentarli, di come interpretare la loro presentazione e di quali conseguenze si ha in mente (consciamente o inconsciamente) di ottenere nel presentarli.

Un piccolo esempio: nel 1985 Reynald Secher compilò la sua tesi dottorale sulle guerre di Vandea in gran parte basandosi sulla testimonianza scritta di Gracchus Babeuf che per primo parlò di “popolocidio” riferendosi ai massacri compiuti dalle truppe della giovane Repubblica francese contro gli insorti cattolici di quelle terre: le truppe mandate da Parigi non si limitarono a eliminare gli uomini in armi, ma sistematicamente uccisero donne e bambini, poiché quelle avrebbero potuto generare altri vandeani e questi crescendo sarebbero diventati potenziali nemici della Republique. Per quanto Babeuf fosse a sua volta un acceso giacobino e un protocomunista, le copie del suo libro sulla Vandea furono quasi tutte distrutte dai suoi amici rivoluzionari. Secher ne recuperò un esemplare conservato a Mosca e lo divulgò: compì anche accurate ricognizioni sui documenti sopravvissuti nelle parrocchie della zona. Risultato: fu invitato a lasciar perdere. E, poiché insistette e pubblicò la sua tesi, fu escluso dall’insegnamento nelle scuole pubbliche francesi. Questo avveniva in un regime democratico, nella Francia di oggi, a opera di accademici, storici professionisti. Tuttora è aperta la discussione se gli eccidi della Vandea si possano considerare un prodromo delle politiche genocide del XX secolo – pur se il termine “genocidio” propriamente inteso non risulta applicabile al caso francese.

Non c’è atto registrato nei libri di storia che non possa essere variamente interpretato. Non c’è atto politico che non abbia qualche giustificazione in eventi precedenti. Certo che la storia esiste: ma è sempre anche politica, portata avanti con altri mezzi.

E perché la politica si liberi della condizione di polemica nella quale è da sempre intrappolata è necessario rivolgersi a qualcosa che va oltre la storia: la capacità di mettersi nei panni dell’altro, di considerarne le ragioni, di guardare ai problemi per risolverli non per trarne vantaggio. Tutte cose di cui si sente sempre più forte la mancanza nella politica-polemica-conflittualità dei nostri giorni.

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