di Stefano Mavilio
PREMESSA
Ho scritto altrove come secondo me l’architettura non possa fondare sulla tipologia quanto piuttosto ogni architettura necessiti del suo archetipo di riferimento. Ho coniato a tale proposito il termine “angelo-palazzo” a significare che esiste da qualche parte l’idea di un palazzo che a noi da sempre appartiene e che possiamo solo riscoprire. Cesseranno mai di stupirci i racconti dei meravigliosi palazzi di Ninive e Babilonia?
Escludo parimenti che l’architettura possa fondare su espedienti quali la tecnica, la domotica e simili fole. Il Pantheon è di solo mattone. Tantomeno condivido la smisurata enfasi posta su definizioni e parole quali bio-architettura, architettura ecologica, architettura sostenibile, per finire alla smart-architecture. Sono soltanto diverse visioni della disciplina e come tali non possono esserne il fondamento, giacché in quanto modalità operative, non hanno pretesa ontologica.
Ancora ho rammentato come a monte di qualunque architettura ci sia innanzitutto una visione, una immagine, che deriva dal suo angelo-forma-formante e che ne perfeziona i lineamenti, una volta incarnata nel mondo sensibile. L’architettura è visione. Chi non avesse tale capacità (di visualizzazione), come rammentava Corbù, non può essere un buon architetto.
A seguire ho riaffermato, sulla scia di una tradizione assai lunga – che va da Platone all’espressionismo tedesco del ‘900, passando per i mistici persiani, l’inconscio collettivo di Jung e il superconscio di Guenon – che tali immagini risiedono in quello che taluni chiamano il Mondo delle Idee, oppure il Mundus Imaginalis e ancora il Malakut, o mondo di mezzo, ipotizzando una suddivisione ternaria delle apparenze: mondo della pura percezione intellettuale (universo delle “intelligenze cherubiniche”), mondo delle Forme Formanti e mondo percepibile mediante i sensi. Solo in quest’ultimo, secondo significato, è possibile formulare una estetica, giacché la forma formata – delle tre apparenze – è quella che ricade sotto il dominio dei sensi – dal greco αἴσθησις <sensazione>.
Il terzo punto di questa trilogia minima del progettare, del quale intendo trattare ora, dopo l’immagine e dopo il luogo delle immagini, è la via che ad esse conduce.
ARCHITETTURA COME DIVINAZIONE
Dov’è la Dea? / Da quale angolo del cosmo / le balena ciò che non è ancora divenuto? / (…) a noi interessa il momento di sospensione, / l’istante estremo, inesplicabile, / in cui la Dea non-è-qui. / Per quale porta escono dalla realtà le persone (…) ? / Esiste una apertura nascosta verso il divenire?
(Busi, 2021)
Qual è la differenza, dal punto di vista del fenomeno, fra l’immagine di una cosa che non esiste ancora e l’immagine di un avvenimento che si deve verificare e del quale, in certe situazioni, si ha un presentimento? A me pare, nessuna.
Voglio dire che l’immagine, separata dai diversi contesti, è semplicemente una immagine: in un caso è l’immagine di un artefatto, nell’altro è l’immagine di un divenire. Forse che l’architettura non è un divenire?
Non conosco le dinamiche mediante le quali la Dea Temi, nell’istante “estremo, inesplicabile, in cui non-è-qui” riesce a scorgere le tracce del futuro del re Egeo, secondo narra Euripide; né mi interessa. Sono interessato piuttosto alla porta per la quale “escono dalla realtà le persone”. Proverò pertanto a rispondere alla domanda: “esiste una apertura nascosta verso il divenire?”.
LA TRANCE
(…) io mi metto in trance. / Nessuno se ne accorge. / Ma è così
(Le Corbusier, 1955)
Quando tutte le possibilità si saranno esaurite, come concordano paradossalmente scienza e religione, l’una secondo la teoria del grande “crush”, l’altra con l’idea della Apocalisse, allora e solo allora, esaurito tutto il possibile, termineremo di immaginare; ma fino ad allora, quale che sia la Via, quella del Cuore o dell’Intelligenza attiva, saremo in grado di prefigurare ciò che ancora non esiste.
Un indizio del “come” ce lo fornisce Le Corbusier, in uno scritto poco noto (Présence du dénommè, del 1955) citato da Wogenscky, che a proposito del Maestro racconta:
Ho impiegato degli anni a cercare di comprendere ciò che si produceva nella sua testa e nella sua mano. Si dice talvolta che l’artista è incosciente. Io non lo credo. Nello stato creatore egli è in uno stato di “supercoscienza”. (…) È uno stato “sovrarazionale”. È lo stato in cui non si cerca più: si trova. (…) È quella che si chiama intuizione perché non si sa cosa sia. Fare il vuoto per potersi riempire. Distendersi per lasciare sorgere l’energia creatrice. Una sorta di trance: “Io mi metto in trance. Nessuno se ne accorge. Ma è così”. Lo stato estetico è poetico, è trasformarsi nella forma creata. È esistere solo in lei.” (Wogenscky, 1987)
RIFLESSI
Eccoci dunque al termine dell’esposizione. Il tema: visualizzare qualcosa che non esiste mediante la trance, operazione non facile per chi non sia aduso a quello stato di coscienza sospesa nel quale ci appare ciò che non esiste. Premonizione, divinazione o semplice “intelligenza immaginale” altrimenti detta “immaginazione attiva”. Nello stato di coscienza sospesa qualcosa appare, sempre. Fosse anche nel sogno trasognato – la rêverie tanto cara a Bachelard – che non è vero sogno né realtà: sognare da svegli! (perché sogniamo anche da svegli ma non siamo propensi a crederlo).
E in questo stato di sogno trasognato, nel quale alcuni vedono se stessi giovinetti, piuttosto che il transito del defunto che li passa a salutare, che l’architetto intravede i riflessi della forma ancora non formata, che nella sua mente, lentamente o istantaneamente che sia, prende forma sensibile. I più bravi ne daranno uno schizzo. I meno bravi necessiteranno di riga e squadra ma il più sarà fatto.
Riassumendo: l’immagine è sempre data, mai prodotta. Il poeta, poietés, a dispetto del senso, è individuo che agisce senza agire, praticando quella che i cinesi chiamano “wu-wei”: azione senza azione, semplice presenza attiva. Noi occidentali preferiamo dire intuizione. A me piace dire riflessione, quello stato in cui una immagine sorge e la si scorge, come sole al mattino. Stato di quiete nel quale è necessaria la pazienza di chi riceve senza chiedere; di chi trova senza cercare. Questa la sintesi del mio scritto: progettare è riflettere ciò che è altrove, come fa lo specchio che nulla chiede, nulla vuole e tutto ci rimanda. E ancora: divenire noi stessi l’immagine percepita e riflessa.
Come ci si procuri la trance, questa poi è tutt’altra storia. Lo si faccia con la semplice tranquillità che si ottiene dalla meditazione, o da una seduta di yoga; lo si faccia passeggiando all’imbrunire nel silenzio dell’anima; o più semplicemente si impari la tecnica dell’aprire la porta, di cui parla il don Giovanni (quello di Castaneda). Mai – però – con l’aiuto di sostanze.
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