di Leonardo Servadio
“L’Europa così com’è ora concepita non ha futuro. Hanno avuto ragione i Britannici ad andarsene…”. L’ha detto Piero Bassetti parlando lunedì 30 ottobre 2017 al convegno “Europa… e domani?!” svoltosi a Milano sotto gli auspici della Regione Lombardia e dell’AICCRE, Associazione Italiana per il Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa.
Se due degli oratori hanno focalizzato il loro intervento sui problemi economici (Paolo Agnelli sui dolori delle industrie italiane, sempre più ridotte di numero e dimensioni per effetto della delocalizzazione e delle svendite dei bocconi più prelibati a investitori esteri, e Andrew Spannaus, sui problemi derivanti dal predominio di una finanza internazionale sempre più invasiva e libera di tiranneggiare e depredare le economie reali a detrimento delle classi medie e basse), rilevante è stato il ricorrere, negli interventi di altri relatori, del tema della crescente importanza delle autonomie locali intese come contrapposte agli Stati nazionali.
Su tale argomento si sono espressi, oltre a Bassetti, Raffaele Cattaneo, Presidente del Consiglio regionale, e Massimo Garavaglia, Assessore all’economia della Regione Lombardia. Questi relatori hanno profilata l’idea di un’Europa da unirsi sempre di più a fronte del crescere degli altri grandi blocchi politico-economici (Cina, India e Africa), ma secondo criteri – su questo ha insistito Bassetti nel suo intervento assai lucido e argomentato – nuovi, diversi da quelli che hanno informato il pensiero e l’azione dei Padri fondatori, da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni col loro Manifesto di Ventotene, agli statisti dell’era postbellica, per arrivare ai rivolgimenti dell’attuale Europa della moneta e del debito.
Secondo Bassetti, che è stato il primo Presidente della Regione Lombardia e si è sempre interessato del ruolo delle Amministrazioni locali intese quali paladine dei popoli a fronte dell’invadenza delle burocrazie statali, oggi occorrerebbe il coraggio di sognare un’Europa nuova, che sorga dal federarsi di Regioni, non più degli Stati nazionali.
Si tratta di un discorso ampio e complesso, che tiene in conto diversi sbilanciamenti che oggi affliggono l’Europa. A partire per esempio dal fatto che nel Consiglio Europeo, principale organo del governo continentale in cui si riuniscono i capi dei governi dei paesi membri, ogni esponente rappresenta un voto, talché Paesi relativamente piccoli hanno voce identica a quelli maggiori – a differenza del Parlamento Europeo, dove le rappresentanze nazionali sono ponderate in ragione del peso demografico di ciascun Paese.
Ma ovviamente oltre a queste distorsioni istituzionali, risulta da tempo evidente a chiunque come sia giunta ad avere un peso predominante la politica monetaria e finanziaria, nonché l’uso politico del debito che affligge alcuni Paesi come Grecia o Italia, a discapito dell’economia produttiva, fondata sulla produzione e distribuzione di merci.
Data tale situazione, da parte di alcuni si propone che siano gli Stati a farsi carico di cambiare le politiche economiche a vantaggio dei livelli di vita delle popolazioni (questo nel convegno in questione è stato un tema sotteso all’intervento di Spannaus). Ma da parte di altri (ed erano la maggioranza nel convegno di cui stiamo parlando) si propone che si smantellino gli Stati nazionali e si ristrutturi l’insieme istituzionale dando maggiore peso agli organismi locali, che sarebbero, nella visione prospettata da Bassetti, propensi a concepirsi come parte di un mondo più vasto: imperniato sulla dinamica in cui Asia e Africa hanno crescente importanza a discapito dei rapporti transatlantici. Nel contesto attuale, chi persegue questa linea di pensiero, ritiene che il nuovo localismo risolverebbe anche i macro squilibri in campo economico, monetario e finanziario. Ma in che modo, con quali strumenti? Questo non è chiarito da alcuno.
Bassetti ha con forza evidenziato come sarebbe urgente che sorgessero leader “capaci di proporre soluzioni e di convincere i votanti della loro giustezza” e non, viceversa, persone che si chiamano leader ma che non fanno che seguire l’opinione dominante, giusta o sbagliata che sia: “questi sono i demagoghi”.
Ma se guardiamo alla situazione attuale in Italia non vediamo proprio personaggi come un Salvini, leader della Lega Nord, che hanno imbastito tutta una carriera politica sul conformarsi secondo gli umori della platea di fronte alla quale si trovano?
E all’estero non è significativo che in Catalogna si assista, in particolare dall’ottobre 2017, proprio al dispiegarsi di questo genere di demagogia? I leader catalani – s’è visto con evidenza nel mese di ottobre 2017 – non fanno che solleticare le preoccupazioni delle persone che a fronte delle difficoltà economiche e strategiche tendono a rifugiarsi nella comunità locale e presentano questa come la panacea, e di contro a quella che è percepita come ingerenza dello Stato nazionale sventolano bandiere locali: ma insieme con quelle europee. Tuttavia quel che motiva la loro azione sembra radicato anzitutto nel desiderio egoistico di mantenere ricchezze che ritengono loro, e che ritengono esser loro sottratte dallo Stato centrale.
Non è questa pura demagogia, nel contesto dell’economia in cui i legami tra le diverse aree geografiche sono tali da rendere ogni processo un evento globale e non locale? Si tratta appunto della demagogia sottesa alle diverse proposte di indipendenza che emergono dalla Lombardia al Veneto, dalle Fiandre alla Sicilia.
Come sostiene Bassetti, ci vorrebbe una nuova grande idea, un nuovo grande sogno per una nuova Europa non più stretta nelle maglie della speculazione finanziaria e soffocata dal peso del debito: ma oggi l’unica idea che motiva la rivolta localista è quella dell’egoismo. Nulla a che vedere con grandi idee, nulla a che vedere con la proposta di soluzioni concrete. Secondo una visione che assume tinte magiche o comiche, il localismo è assunto quale panacea.
Il problema – lo notò Indro Montanelli quando sulla scena politica italiana irruppero Umberto Bossi e la sua Lega – è che i successi delle istanze politiche localiste sono il sintomo di un male; ma i localisti invece ritengono che il localismo sia la soluzione.
Per questo oggi sembra profilarsi il rischio di un nuovo tipo di involuzione, potenzialmente non molto dissimile da quella che attivò il nazismo negli anni ’30. Il movimento hitleriano infatti conquistò consensi (fu democraticamente votato al potere dittatoriale) in una Germania che aveva tutte le ragioni di sentirsi oppressa e vessata sul piano economico da potentati sovranazionali i cui diktat erano stato accettati dalla Repubblica di Weimar: ma propose come soluzione non di cambiare le ragioni dell’oppressione che la schiacciava, bensì seguì l’impulso a chiudersi nel nazionalismo, che implica automaticamente di guardare all’altro come esterno e nemico.
Oggi tale impulso è espresso nel modo più lucido, più che in Europa, negli USA: dall’ex consigliere di Trump, Steve Bannon, che sta cercando di ristrutturare il partito Repubblicano a immagine di Trump, ovvero completando lo svuotamento degli ideali che furono alla base del pensiero antirazzista, democratico e universalista di un Lincoln, per proporre invece come obiettivo di medio e lungo termine lo scontro diretto con la Cina. Scontro al quale Trump si sta da tempo preparando con la scusa della Corea del Nord.
I problemi della Corea del Nord infatti potrebbero essere risolti con un accordo tra Cina, Russia e Usa. Ma, poiché Trump è programmato per funzionare secondo la logica dello scontro (come Bannon), non può che scegliere quest’ultima via. E il suo obiettivo ultimo non è la Corea del Nord, bensì la Cina, la cui concorrenza gli USA non sono più in grado di contrastare sul piano della strategia economica: perché gli USA sono indirizzati secondo una politica di pura finanziarizzazione, mentre la Cina prosegue la marcia trionfale sulla strada dello sviluppo dell’economia reale e dei grandi interventi infrastrutturali – grazie a cui tra l’altro sta “conquistando” l’Africa, che è il continente del futuro. Rifiutando gli strumenti di economia reale atti a concorrere con la Cina, imbevuti come sono di ideologia liberista, Trump e Bannon stanno muovendosi (è come se avessero un pilota automatico) verso lo scontro militare con cui si illudono di controllare la Cina: come se un miliardo e 300 milioni di persone dall’economia in forte crescita potesse essere controllato come si fa con una repubblica delle banane.
La logica che muove Trump (“America first”) è la stessa che anima il localismo al quale si accodano i tanti pseudo leader indipendentisti che si aggirano sempre più numerosi per l’Europa.
Alle difficoltà economiche causate dall’ingordigia degli apparati finanziari speculativi essi rispondono ricadendo nell’impulso a badare a quel che appare come il piccolo interesse locale. E inevitabilmente scelgono un nemico da additare quale capro espiatorio: anzitutto Roma ladrona (o Madrid ladrona), ma il rischio, come si diceva, è che questo sia solo il passo previo per arrivare a quel che un tempo furono gli Ebrei (e prima ancora per i Turchi lo furono gli Armeni…)… e del resto già lo sono i Messicani o altri popoli di cultura islamica che minacciano di immigrare nelle ricche regioni del Nordamerica; e per ora solo lo sono questi ultimi per le ricche regioni l’Europa.
Nel campo localistico, beninteso, vi sono forse anche coloro che, bene intenzionati, auspicano il costituirsi di una rete globale di comunità locali – Internet renderebbe possibile tale impresa – per concordare nella pluralità dei piccoli (e di fronte ai grandi apparati burocratici che hanno dominato sinora gli Stati Nazionali), una strategia per stabilire una politica economica fondata sulla giustizia.
Ma il problema è che costoro, se ci sono, non si vedono: si vedono solo coloro i quali guardano al localismo come vettore di egoismo e rivendicano privilegi di civiltà a fronte della potenziale invasione dell’inciviltà.
È proprio la logica che non può che condurre allo scontro.
Qui stanno dunque le linee sulle quali si definirà se avremo un mondo di pace e cooperazione o di confusione e di tensione e scontro. Da un lato sta la potenzialità che le aggregazioni internazionali (a partire dall’Unione Europea) si definiscano come conseguenza logica e pacifica evoluzione degli organismi esistenti, correggendo gli squilibri e le ingiustizie che sinora hanno accettati e incorporati.
Dall’altro sta la minaccia che le rivolte a sfondo demagogico continuino ad autoalimentarsi secondo pulsioni localistiche e disgregatrici.
C’è una “terza via”? C’è quella che già tracciarono negli anni ’60 personaggi come Giorgio La Pira, allora sindaco di Firenze: che si costituiscano reti internazionali di città per la pace, che uniscano all’idea della pace quella dello sviluppo, proponendo una cultura della tolleranza e della collaborazione, nel contesto della struttura statuale esistente, ma da far evolvere entro la logica della solidarietà tra popoli e Stati. Qualcosa di molto diverso dalla cultura della separazione e dello scontro che viene agitata dalle pulsioni localiste oggi predominanti.
Ma sta qui la speranza. E implica collaborazione a livello istituzionale, nazionale e internazionale: non rottura.
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