Mario Lettieri e Paolo Raimondi

La pandemia e il 2020 hanno cambiato in modo profondo, forse definitivo, alcune idee di un certo liberismo economico, che è stato dominante nei passati quattro decenni.

Per far fronte all’emergenza, si è dovuto mettere da parte l’approccio del rigore a tutti i costi e dell’austerità come toccasana dei bilanci. Si è riscoperto, invece, il ruolo centrale e fondante dell’economia reale e del credito produttivo, quale motore di sviluppo, di avanzamento tecnologico e anche di ampliamento dell’occupazione.

Molte annose questioni, come quella riguardante il debito pubblico degli Stati, dovranno, quindi, essere rivisitate e affrontate con metodologie e programmi diversi. Ciò dovrebbe essere ovvio per tutti. Particolarmente dopo che nel 2020 l’emergenza sanitaria, economica e finanziaria ha dettato l’agenda ai governi costringendoli a mettere in campo aiuti e stimoli fiscali per 12.000 miliardi di dollari. E le stesse banche centrali sono state costrette a creare almeno 8.000 miliardi di nuova liquidità. Ovviamente, sono tutte risorse create contraendo nuovi debiti.

Secondo l’Istituto di finanza internazionale di Washington, il debito aggregato, pubblico e privato, che era già tre volte il Pil mondiale, nel 2021 dovrebbe mediamente aumentare del 20% nelle cosiddette economie avanzate e in quelle di altri Paesi emergenti.

Mario Draghi, sorprendendo molti, in verità anche noi, è stato forse l’economista che, avendo avuto ruoli istituzionali assai rilevanti a livello mondiale, per primo ha riconosciuto il cambiamento di paradigma.

Al Meeting di Rimini, tenutosi il 18 agosto dello scorso anno, in merito al debito disse: ”La ricostruzione, in cui gli obiettivi di lungo periodo sono intimamente connessi con quelli di breve, è essenziale per ridare certezza a famiglie e imprese, ma sarà inevitabilmente accompagnata da stock di debito destinati a rimanere elevati a lungo. Questo debito, sottoscritto da Paesi, istituzioni, mercati e risparmiatori, sarà sostenibile, continuerà cioè a essere sottoscritto in futuro, se utilizzato a fini produttivi, ad esempio investimenti nel capitale umano, nelle infrastrutture cruciali per la produzione, nella ricerca ecc. se è cioè debito buono. La sua sostenibilità verrà meno se, invece, verrà utilizzato per fini improduttivi, se sarà considerato debito cattivo.”

A dire il vero, Draghi su questo tema era già intervenuto all’inizio del lockdown. Nella sua lettera, pubblicata il 25 marzo dal Financial Times, affermava: “I diversi paesi europei hanno strutture finanziarie e industriali diverse, l’unico modo efficace per rispondere immediatamente a un crack dell’economia è quello di mobilitare completamente i loro interi sistemi finanziari. E deve essere fatto immediatamente, evitando ritardi burocraticiI livelli del debito pubblico saranno aumentati. Ma l’alternativa – una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia ed eventualmente per il credito pubblico.

Giustamente, egli ha sollecitato un modo differente di pensare e di intervenire. “Di fronte a circostanze impreviste, un cambiamento di mentalità è necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempo di guerra”, ha affermato, aggiungendo che “ci deve essere di ispirazione l’esempio di coloro che ricostruirono il mondo, l’Europa, l’Italia dopo la seconda guerra mondiale. Si pensi ai leader che, ispirati da J.M. Keynes, si riunirono a Bretton Woods nel 1944 per la creazione del Fondo Monetario Internazionale”.

Questa è la ragione e l’inudibile necessità di riflettere in modo nuovo e innovativo anche sulla gestione e su una possibile riduzione, se non cancellazione, di almeno parte del debito pubblico. Nei mesi scorsi, in verità, ci sono state delle proposte rilevanti.

Recentemente oltre 100 economisti, soprattutto francesi, italiani e spagnoli, hanno scritto un manifesto in cui si sostiene che “Il debito detenuto dalla Bce si può e si deve annullare”. Il 25% del debito pubblico europeo è detenuto dalla Banca centrale europea, cioè una quota di debiti pari a circa 2.500 miliardi di euro, che i cittadini europei devono a loro stessi.

Nella storia, la cancellazione del debito non è sempre stata un tabù: alla Conferenza di Londra del 1953, per esempio, i partecipanti, guidati dagli Stati Uniti, decisero la cancellazione di due terzi del debito pubblico della Germania, che iniziò così il suo percorso di ripresa e di prosperità.

La loro proposta è chiara. I paesi europei e la Bce siglano un accordo in cui quest’ultima si impegna a cancellare il debito pubblico che detiene (o a trasformarlo in debito perpetuo senza interessi), mentre gli Stati si dovrebbero impegnare a investire lo stesso importo nella ricostruzione ambientale e sociale. Ricetta semplice, impegnativa ed efficace.

Vi sono anche altre proposte simili, come quella che prevede che i debiti accesi per far fronte alla crisi attuale siano nella forma di titoli irredimibili, senza scadenza e senza interessi, garantiti dalla Bce.

Del resto, anche un grande paese come il Giappone ha dovuto e deve fare i conti con la sua situazione debitoria. Pur essendo un paese avanzato e tecnologizzato forse più dell’Europa, ha il più grosso debito pubblico al mondo, pari a 252% del suo Pil. Nel 2020 ha aumentato il suo bilancio del 20% attraverso l’emissione di nuovi titoli di Stato. Ma in Giappone oltre il 40% di tutto il debito pubblico è in mano alla Banca centrale e il resto, in maggioranza, è posseduto dalle banche e dalle famiglie giapponesi. Non è in una situazione idilliaca, ma controllando il suo debito, il Giappone non è soggetto a pressioni esterne o a speculazioni da parte dei mercati internazionali.

In conclusione, la cosa decisiva è che il “debito buono” venga utilizzato per la crescita economica. In tal modo aumentando il denominatore, il tasso debito/Pil inevitabilmente si abbassa. Ma non è la frazione matematica che interessa. Con la ripresa economica si possono finalmente affrontare i problemi reali delle famiglie e delle imprese.

Il fatto che Draghi, nel frattempo, sia diventato capo del governo del nostro paese, ci fa ben sperare. Certo, anche noi, come cittadini e come singoli, dovremmo modificare i nostri comportamenti, ispirandoli al rispetto delle leggi e dei valori costituzionali.

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