Se possiamo trarre una lezione dal gravissimo attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023 è che la repressione cieca e generalizzata moltiplica la violenza invece di azzerarla. La guerra tra Israele e i palestinesi sta coinvolgendo l’Iran, il Libano, la Siria, l’Iraq, il Pakistan e, per responsabilità delle milizie filoiraniane degli Houthi, sta causando danni gravissimi al traffico commerciale nel Mar Rosso, una via fondamentale per l’economia europea. È necessaria un’iniziativa internazionale per un cessate il fuoco, la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas e l’inizio di colloqui tra le parti che abbiano come punto di arrivo la creazione di uno Stato anche per i palestinesi.
È abbastanza comune sentir definire il presidente degli Stati Uniti come “la persona più potente del mondo”. Ma, a giudicare dai rapporti con l’attuale governo di Israele, non sembra che le cose stiano proprio così. La Casa Bianca ha ripetutamente richiesto un cessate il fuoco per favorire la liberazione degli ostaggi israeliani e per consentire di far arrivare più aiuti umanitari a una popolazione palestinese massacrata dai bombardamenti e che soffre fame, sete e malattie. Il primo ministro israeliano Netanyahu ha fatto orecchie da mercante. Durante un colloquio con il premier israeliano, il presidente Biden ha rilanciato la vecchia proposta dei “due Stati” che, col passare dei decenni, diventa sempre meno realistica. Netanyahu ha respinto pubblicamente l’iniziativa americana e ha dichiarato che l’offensiva militare continuerà “fino alla vittoria completa”, precisando che ci vorranno ancora “molti mesi” per raggiungere l’obiettivo.
Netanyahu, pericolo per la sicurezza di Israele
Il 18 gennaio 2024, il giorno prima del colloquio con Biden, Netanyahu aveva affermato che Israele deve avere un controllo di sicurezza su tutto il territorio a ovest del fiume Giordano, proprio l’area che dovrebbe essere inclusa nello Stato palestinese. «Questa è una condizione necessaria –ha continuato il premier- e si scontra con l’idea della sovranità palestinese. Cosa fare? Devo dire la verità ai nostri amici americani e ho anche posto fine ai tentativi per imporci una realtà che danneggerebbe la sicurezza di Israele». Questa non è certo una novità nelle posizioni dello stagionato leader che, soltanto a dicembre, si era detto orgoglioso di aver impedito finora la soluzione dei due Stati. La Casa Bianca ha più volte tentato di influenzare la strategia militare israeliana, suggerendo la limitazione degli interventi terrestri e l’uso di strumenti bellici di precisione invece dei bombardamenti a tappeto che hanno ridotto Gaza a un cumulo di macerie.
L’85 per cento della popolazione della Striscia è stato costretto ad abbandonare le proprie abitazioni, mentre il numero dei morti ha ormai superato i 25.000 (circa 16.000 sono donne e bambini). Il sistema sanitario non esiste più, migliaia di gazawi corrono il pericolo di morire di fame, di sete e di malattie. Se non ci saranno interventi umanitari risolutivi il rischio di epidemie diventa sempre maggiore. Ha fatto il giro del mondo l’immagine del bambino che si disseta con le poche gocce che fuoriescono da un tubo che perde. Tra qualche anno questa scena straziante potrebbe essere giustapposta alla foto del bambino che esce dal ghetto di Varsavia con le braccia alzate, sotto lo sguardo feroce dei militari nazisti. La brutalità disumana con cui l’esercito israeliano ha colpito Gaza sta isolando sempre di più lo Stato ebraico. Nelle sue ripetute visite in Medio Oriente il segretario di Stato americano Antony Blinken ha visto costantemente respinte tutte le sue richieste, e questo ha aumentato la frustrazione in alcuni ambienti statunitensi che non capiscono perché l’amministrazione non imponga condizioni al suo più stretto alleato nell’area.
Emergono le critiche
Dopo i massacri terroristici del 7 ottobre 2023 Netanyahu non può più presentarsi come il “Mr Security”, l’uomo forte che con la sua strategia del pugno di ferro ha drasticamente ridimensionato il pericolo terroristico per i cittadini dello Stato ebraico. È successo esattamente il contrario. La politica ottusa e brutale di negazione di ogni diritto al popolo palestinese ha visto crescere l’estremismo e il potere di Hamas, fino all’evento più grave nella storia di Israele dalla guerra del 1948. L’offensiva militare a Gaza ha conseguito soltanto successi parziali e l’obiettivo sbandierato di eliminare Hamas appare sempre più difficile da raggiungere. Il 20 gennaio quattro anonimi funzionari israeliani hanno dichiarato al New York Times che «l’invasione sta andando più a rilento rispetto ai piani e le truppe hanno catturato porzioni della Striscia inferiori a quelle previste per questo punto della campagna». Le scelte tattiche dei generali sono limitate dal fatto che «Netanyahu non ha ancora espresso una visione di lungo periodo su chi e come verrà amministrata Gaza».
Anche Herzi Halevi, capo di Stato Maggiore dell’esercito, ha dichiarato che l’assenza di una strategia per il dopo sta mettendo in pericolo le operazioni militari a Gaza. Prima di Halevi, aveva fatto sentire la sua voce Gadi Eisenkot, un ex generale che tra le altre posizioni ha ricoperto quella di capo di Stato Maggiore ed è ora un ministro senza portafoglio nel Gabinetto di guerra. In un’intervista al Canale 12 della televisione israeliana Eisenkot ha dichiarato che Netanyahu aveva una responsabilità “pesante e chiara” per il fallimento del 7 ottobre. Il generale ha anche richiesto nuove elezioni sostenendo che il Paese non ha più fiducia nella dirigenza attuale. Un attacco diretto a quanto affermato dal Premier, secondo il quale non si possono tenere elezioni mentre è in corso una guerra che andrà avanti fino al 2025. Il 7 dicembre 2023 il sergente maggiore Gal Eisenkot, figlio dell’ex generale, era stato ucciso in combattimento nella parte settentrionale di Gaza.
Netanyahu è sempre più sotto attacco anche da parte delle famiglie degli oltre 100 ostaggi tutt’ora prigionieri che assediano da giorni la villa del premier a Cesarea, sulla costa a nord di Tel Aviv. C’è il fondato timore che il prolungarsi delle operazioni militari metta sempre più a rischio la liberazione dei loro cari. Appare sempre più chiaro che il tentativo di distruggere Hamas è in aperto contrasto con la necessità di far tornare a casa i rapiti. Secondo i sondaggi, se le lezioni si tenessero oggi il primo Ministro vedrebbe dimezzarsi i seggi del suo partito, a favore di Benny Gatz, l’ex capo dell’opposizione che è entrato nel Gabinetto di guerra. Con l’appoggio dei ministri di estrema destra del suo governo, Netanyahu intende profilarsi come il baluardo contro la nascita di uno Stato palestinese, una posizione che ritiene sia in linea con le intenzioni di Donald Trump. La sua strategia è quella di resistere fino alle elezioni americane di novembre, sperando che l’ex presidente riesca a sconfiggere Joe Biden. Ma la sua strategia di sopravvivenza personale ha acceso diversi focolai che rischiano di estendersi ulteriormente.
Mar Rosso in pericolo
C’è una chiara spaccatura tra la posizione dello Stato ebraico e quella degli Stati Uniti. Mentre Netanyahu prospetta di ristabilire il controllo militare sulla Striscia, il portavoce della Casa Bianca John Kirby dichiara: «Per Gaza vogliamo una gestione che sia rappresentativa delle aspirazioni del popolo palestinese, che vengano tenute elezioni e che essi abbiano voce in capitolo su questo argomento e che non ci sia una rioccupazione di Gaza». Il dissenso è esplicito e pubblico ma, invece di imporre un percorso verso l’apertura di negoziati, Biden subisce le scelte del Primo ministro, nonostante il pericolo concreto di allargamento del conflitto. La marina statunitense, con il supporto di quella britannica, ha finora lanciato quattro attacchi contro le postazioni dei militanti filoiraniani Houthi che dallo Yemen hanno colpito con droni e missili le navi che attraversavano il Mar Rosso. Questo ha imposto alle principali compagnie di logistica di modificare la rotta delle grandi navi commerciali che sono ora costrette a circumnavigare l’Africa, invece di passare per il canale di Suez. Improvvisamente, il Mediterraneo si vede bloccato l’accesso diretto per l’export-import verso l’Asia, con un aumento esponenziale dei costi di assicurazione.
Ovviamente, la libertà di navigazione va difesa perché la sua violazione rappresenta un danno per tutti ma c’è il rischio concreto che si torni alla politica degli attacchi militari a obiettivi specifici senza una strategia globale. Questo è quello che Israele fa da 70 anni, con risultati disastrosi che hanno visto il più grave attentato terroristico della sua storia, l’incancrenirsi della questione palestinese, la distruzione della struttura statale del Libano, ormai dominato dalle milizie filoiraniane, l’aumento del peso dell’Iran in Siria e Iraq, la ingombrante presenza della Russia in Siria e il successo della diplomazia cinese che ha mediato un parziale riavvicinamento tra Arabia Saudita e Iran. In nome del feticcio della “sicurezza nazionale” Israele intende continuare a dettare le regole nell’area, senza tener conto che la sua politica fallimentare danneggia molti altri Paesi. Dopo l’acuirsi delle tensioni nel Mar Rosso, Confagricoltura e Legacoop Agroalimentare hanno denunciato che sono a rischio 4 miliardi di esportazioni del settore agroalimentare italiano.
Secondo una valutazione di Coldiretti resa nota il 13 gennaio 2023, le difficoltà alla navigazione provocate dagli attacchi degli Houthi «mettono a rischio circa 500 milioni di esportazioni di frutta e verdura made in Italy dirette in Medio Oriente, India e Sud Est Asiatico». Questo perché «l’allungamento delle rotte marittime tra Oriente e Occidente, costrette a evitare il Canale di Suez, a causa dei ripetuti attacchi terroristici, hanno portato ad aumenti vertiginosi del costo dei trasporti marittimi e dei tempi di percorrenza». In un’ottica più generale, le difficoltà di passaggio nel Mar Rosso rischiano di far aumentare anche il costo dei combustibili e di mettere in difficoltà tutti i porti del Mediterraneo che, nella nuova situazione, si troverebbero fortemente penalizzati rispetto ai porti del nord Europa. Ecco perché anche l’Unione Europea dovrebbe trovare una voce unitaria sulla situazione di Gaza che non riguarda soltanto l’ipotesi di un aumentato pericolo terroristico ma vede il concretizzarsi di rischi economici diretti e pesanti.
Che fare?
Finora l’amministrazione statunitense ha prodotto molte belle dichiarazioni, ha avuto il merito di riesumare la vecchia proposta dei “due Stati” e, nominalmente, ha chiesto a
Israele atteggiamenti più moderati senza ottenere alcun risultato. A questo punto, con l’inizio vero e proprio della campagna elettorale americana con le primarie, non è chiaro cosa voglia fare il presidente Biden che non sembra intenzionato a passare alla storia come lo statista che ha portato la pace in Medio Oriente e iniziato una nuova era di sviluppo per il mondo intero. In attesa delle decisioni di questo amletico ottuagenario (sì, è vero, l’Occidente è ridotto molto male), possiamo pensare a vie alternative. La nota giornalista e attivista canadese Naomi Klein ha scritto un lungo articolo sul Guardian del 10 gennaio 2024 dove ricorda che nel 2005 i palestinesi avevano lanciato un appello al mondo per boicottare Israele fino a quando lo Sato ebraico non avesse accettato di rispettare la legge internazionale. Cosa sarebbe successo se lo avessimo fatto?
Noemi Klein (che, tra parentesi, è ebrea) nel gennaio del 2009, dopo che Israele aveva lanciato l’operazione Piombo fuso contro Gaza che in 22 giorni aveva ucciso 1400 palestinesi, aveva deciso di aderire pubblicamente alla proposta palestinese chiamata BDS (Boicottare, Disinvestire e imporre Sanzioni). La proposta BDS, sostenuta da un movimento pacifista palestinese, è forse velleitaria, ingenua o addirittura utopistica, secondo qualcuno, ma ha il grande vantaggio di rompere la stretta mortale degli opposti fanatismi degli estremisti religiosi israeliani e dei terroristi di Hamas che hanno finora impedito ogni forma di soluzione. Nel suo articolo Klein cita Omar Barghouti, uno dei fondatori del movimento BDS, che ci ricorda: «L’obbligo etico più profondo che abbiamo di questi tempi è di agire per porre fine alla complicità». Durante l’operazione Piombo fuso un gruppo di circa 500 cittadini israeliani, tra cui c’erano importanti artisti e studiosi, aderirono alle proposte di boicottaggio e denominarono il loro movimento “Boicottare dall’interno”.
Oggi, dopo l’orrore delle 1200 vittime del 7 ottobre, non è realistico pensare che qualche israeliano possa aderire alla proposta. I consumatori globali hanno invece in mano un’arma potentissima (e pacifica) per influenzare le scelte dello Stato ebraico. Uno dei problemi è che l’aperto disprezzo con cui Israele ha finora trattato le delibere dell’ONU ha drammaticamente indebolito il concetto stesso di legge internazionale. Come si può essere credibili nell’esigere che Putin rispetti i diritti degli ucraini quando da decenni a Israele è consentito di violare impunemente quelli dei palestinesi? L’oltranzismo di Netanyahu e dei fanatici messianici che lo appoggiano ha inferto un grave colpo al concetto di legalità internazionale. Il Sud del mondo lo vede chiaramente e lo inserisce nel contesto del perdurante colonialismo occidentale. Non è casuale che l’11 gennaio 2024 il Sud Africa, uno dei più importati Stati africani, si sia rivolto alla Corte delle Nazioni Unite per porre fine all’uccisione di massa di civili a Gaza, accusando Israele di compiere un genocidio. Nel suo primo discorso della propria campagna elettorale Biden ha espresso i concetti aulici di “libertà” e “democrazia” ma se non li applicherà nella sua pratica politica risulterà poco credibile non solo per i suoi elettori ma anche per tutti coloro che a quei concetti credono sinceramente.
(L’immagine di copertina è stata scattata dalla NASA e mostra il Mar Rosso visto dallo spazio)
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