Vi sono numerose ragioni per riscoprire uno dei massimi illustratori, a livello mondiale, della seconda metà del Novecento. Oderzo, la sua patria, antica città romana col nome mutuato dal veneto antico, la “terg” di Opitergium indica il “mercato” in paleoveneto – veneti attenti ai commerci da sempre, forse ancor più dei romani, cui lo avranno insegnato, come i greci insegnarono a questi ultimi la filosofia, e i cartaginesi a navigare – lo celebra non solo con una permanente, ma ora, a Palazzo Foscolo, con una curiosa, mirabile rassegna. “Le storie straordinarie” chiude il 25 marzo e dunque vi è tempo per una visita, non frettolosa. Riguarda il Martini illustratore di Poe. Una lunga impresa, dal 1905 al 1935 almeno. Decine di incisioni e disegni.

Numerose ragioni, ho scritto al principio. Una, forse solo incidentale, scoprire Oderzo, non splendida come Treviso, ma attraversata da solchi della storia anche maggiori, come inevitabilmente più grave, solenne, ampio e mortifero è il Piave, di presso, rispetto al Sile, elegante e sinuoso, lì sotto. Ora, peraltro, il Piave mi pare in secca inquietante. Terra di frontiera, di un fiume “sacro alla Patria”, qual patria però non è chiaro – la direzione per chi passa i due celebri ponti la indica il duplice tricolore – visto che Goffredo Parise quando vedeva l’antica insegna non esitava a dichiarare: “Per me, la patria è quella veneta.:.” Non di questo però intendo ora e qui parlare. Basti accennare che Martini alla guerra dedicò illustrazioni degne di un Goya, stigmatizzò bene la sua “bestialità” (locuzione utilizzata da un Ungaretti): le sue 12 litografie della “terza danza macabra europea”, del 1915, peraltro – quando la Prima Guerra mondiale ancora aveva offerto, soltanto, un parzialissimo spettacolo d’orrore –, sono capolavoro “gore”.

Il meglio, o il peggio, verrà dopo il 1915, purtroppo.

Per chi giunga dal centro storico di Oderzo a Palazzo Foscolo è tutta un’infilata di nobili dimore, palazzi, chiese, archi, perfettamente mantenuti, eleganti e discreti. Per chi invece, percorrendo la medesima via Garibaldi, vi giunga dall’esterno, dove la città si scioglie in una campagna grigia, vagamente puntellata da centri commerciali, industrie e magazzini, e conviti scolastici, ci si scontra con altro paesaggio. Qui vi sono segni decadenza, presenze sempre più fitte di immigrati (questo non è segno di decadenza di per sé, peraltro, ma di cambiamento sociale, più o meno inevitabile), scontro tra la terra ubertosa, tradizionale fonte di ricchezza, e un’industrializzazione non del tutto compiuta, ma neanche – ci sembra – del tutto gradita. E nel sottopasso della ferrovia – lumeggia una piccola, dimessa, quasi invisibile stazioncina, di una linea ormai secondaria – compaiono aggressivi graffiti, di mano ignota, che sembrano, brutalmente, senza mediazioni intellettualistiche, riproporre proprio la raffinata crudeltà, e le mostruosità così chic e sofisticate di Alberto Martini. Quasi che anche i giovani – immagino – “graffitari”, vogliano in qualche modo rendere omaggio al “genius loci”. O alla storia tragica di Oderzo, che non venne risparmiata da Attila, che la devastò.

Superata la ferrovia deserta nel cunicolo del sottopasso, squallido se non per queste immagini terribili, dai colori vivissimi, recenti, si incontra, sulla sinistra, la casa natale di Martini. Appena entrati in via Garibaldi, all’incrocio con la storica via Postumia, lasciato viale Brandolini. Bianca, antica, perfettamente ristrutturata, immagino abitata da notabili opitergini. La lapide che lo ricorda è citata qui nel titolo del nostro pezzo. “Arcani mondi”, “oscuri misteri”, cui s’aggiungono “fantasie” e “sogni”. Nel medesimo, elegante edificio forse settecentesco, nacque altra celebrità locale, quel poeta e traduttore arcade, corrispondente del Manzoni, Pietro Soletti. Colui che tradusse in latino il Cinque Maggio manzoniano, nulla di più lontano dal Martini (a parte forse il bizzarro, estetizzante certamente, nome suo in Arcadia: Erifante Eritense…). Una lapide ricorda anche lui. “Latinista e poeta fra’ primi del suo tempo” è forse eccessivo. Ma va bene lo stesso.

Una vita lunga quella di Alberto Martini – nato nel 1867, morto nel 1954 -; lunga e piena di successi, in Veneto, in Italia, all’estero, vita di un artista che fu anche ottimo manager di se stesso, seppe conquistare Parigi, e, con i suoi libri illustrati, alla fine il mondo intero. Schiacciando sovente l’occhio al gusto per l’erotico, anche molto acceso. Fu bollato come “illustratore” e non “pittore” e la sua fama ne risentì. Sciocchezze. Ma che toccano magari oggi, ad esempio, anche i geniali disegnatori di fumetti, da quelli della Marvel, a quelli, bravissimi, italiani, che già hanno però, occasionalmente, qualcuno che ne vede e promuove in mostre e altri luoghi, soprattutto virtuali, il genio e il talento. E più ne avranno in futuro. Senza parlare dei giapponesi.

Martini dunque incontra Poe. Si imbatte nello scrittore di Boston forte di una lunga preparazione a contatto diretto o indiretto sia con i grandi Maestri dell’arte dell’illustrazione del tempo, che gli diedero parziale ispirazione, simbolisti come Aubrey Vincent Beardsley e Felicien Rops, ad esempio; ma anche classici – e l’influenza del tedesco si percepisce sempre – come Dürer, l’incisore per eccellenza. In breve Martini si impadronisce del chiaroscuro, che diviene metafora della sua vita, di quattro anni più giovane di D’Annunzio, a lui così affine, immerso in un decadentismo produttivo e vitalistico, mentre Freud andava scoprendo i recessi della psiche umana, e il positivismo si sfaldava in mille frantumi di mistero: oscuri, esoterici e ipogei, filosofici e naturalistici, spesso conturbanti. Talora terrificanti. L’anima dark della Belle Époque.

Poe era entrato in una cultura europea che ancora diffidava dei prodotti dello spirito nordamericani, attraverso la mediazione, come è noto, di Baudelaire, altro nume tutelare di Martini. Si erano cimentati con lui i maggiori illustratori europei ed americani. Ma, forse, neanche l’inglese Arthur Rackam, coetaneo di Martini, morto nel 1939, lo eguaglia. Vite parallele: avevano toccato tanti temi entrambi, ad esempio, Shakespeare. Forse i principali illustratori del loro tempo. Martini coglie l’essenza tragica, violenta, priva di redenzione delle opere di Poe. Non risparmia i dettagli macabri, anzi, li accentua. Nato nella pianura veneta, alto-padana, apparentemente immune dalle mostruosità cittadine o marine di Poe, ebbene, sarà entrato forse in contatto con quei “demoni meridiani” di cui parlò Roger Caillois, nel suo classico Les Démons de midi, del 1937, che Carlo Ossola introdusse in Italia cinquanta anni dopo. I demoni sono ovunque, e quelli padani non mancano certo.

Le edizioni illustrate di Martini ebbero significativo successo. Non poteva essere altrimenti. I mondi tenebrosi di Poe penetrarono in Italia anche e soprattutto grazie a lui, che già aveva sperimentato altri inferni, ad esempio, naturalmente, quello dantesco, smorzando la retorica di un Doré – di Dante “stravolto da Doré” parlava Edoardo Sanguineti – in un repertorio di orrori netti e chiari, tra cui un Maometto debitamente smembrato, come un soldato dagli shrapnel, le schegge che volavano micidiali anche sul fronte del Piave.

La sua opera è una lunga, sapiente, sorprendente “meditatio mortis”. Anche ove si inoltra nella dimensione erotica. Il ciclo dei “misteri” narra una filosofia esoterica, ove morte, follia, sonni e sogni si confondono, nel grandioso ripensamento – con nuovi strumenti, anche intellettuali – che il decadentismo occidentale (limitativo dire europeo, v’era coinvolto anche il Nuovo Mondo, e forse anche la Cina e il Giappone), faceva del Barocco (questo sì europeo, del resto, inevitabilmente).

Orientalismo (ma non nelle categorie trite di un Said, per fortuna), decadentismo, mistica dell’infinito (all’infinito è dedicato uno dei “misteri”, nel solco di D’Annunzio) rendono Martini molto più di un semplice illustratore, figura da riscoprire nella vastità e acutezza delle sue visioni, anche sceniche, anche teatrali, al pari di un D’Annunzio, come si è detto (e i suoi vastissimi archivi custoditi ad Oderzo tale operazione senz’altro consentono).

Il catalogo a cura di Paola Bonifacio e Alessandro Botta, edito da Cimorelli, “Alberto Martini ed Edgar Allan Poe”, è ottimo complemento alla mostra, che comprende anche altri illustratori di Poe, messi a confronto (impietoso) con Martini.

In tempi in cui vengono ridefiniti assai rapidamente i rapporti degli Stati Uniti con l’Europa e l’Italia, questo incontro consente di metterne a fuoco un tratto importante dal punto di vista della geocultura. Anche attraverso Poe, e forse prima di Melville e Hawthorne e Fenimore Cooper, l’Italia diviene consapevole dell’universo letterario-intellettuale americano. E comincia ad apprezzarlo. Anche se molto resta da fare. Personalmente ad esempio sto promuovendo quel grandissimo che fu William Gilmore Simms, autore forse del primo giallo-horror americano, “Martin Faber”, lodatissimo da Poe stesso, e ancora mai tradotto in Italia, e da noi, mi pare, del tutto ignoto.

Ben degno di illustrazioni alla Martini.

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