L’ha detto il primo ministro francese Manuel Valls: la Francia si sente sotto attacco. E la guerra sarà lunga, l’arco di tempo di una generazione, vent’anni. Ma questa guerra non riguarda solo la Francia, è piuttosto una nuova guerra mondiale. E ha caratteristiche nuove: non solo asimmetrica, ma anche da parte di Daesh fondata su un impasto inestricabile di azioni cruente e propaganda supportata da una solida ideologia di derivazione religiosa. Il Daesh ha una strategia definita. Quelli che ha eletto a suoi nemici, invece la devono ancora trovare.
Finita la Guerra Fredda, ovvero la terza guerra mondiale combattuta a suon di minacce globali trattenute dalla deterrenza, sembrava si fosse aperta un’era in cui i conflitti sarebbero stati limitati al livello locale. Per questo sin dagli anni Ottanta del ‘900 s’è avviata una ristrutturazione delle forze armate in apparati capaci di rapidi interventi per operazioni di polizia internazionale su teatri definiti, in zone più o meno lontane dalle aree principali del mondo occidentale e delle sue principali controparti (Cina, India e Russia per chi desidera immaginare questo Paese come distinto dal mondo occidentale).
Ma ecco che dalle ceneri della guerra fredda spunta il fenomeno oggi noto come Daesh. Qualcosa di relativamente inedito. Infatti se la guerriglia (la “piccola guerra”) è stata sviluppata e variamente interpretata in diversi teatri, dal Vietnam a diversi Paesi latino americani, come forma di contrasto dei “poveri” contro i “ricchi”, fortemente motivata da strutture nazionalistiche e/o ideologiche, è pur sempre rimasta un fenomeno relativamente localizzato e comunque inquadrata entro la logica del conflitto tra le due superpotenze, capitalista e sovietica.
Forse meno localizzato è stato il fenomeno del terrorismo, diffusosi dalla fine degli anni Sessanta del ‘900 con tinte ideologiche prevalentemente comunistoidi e anti imperialiste, ma particolarmente radicato all’interno dei paesi occidentali: una petizione fortemente velleitaria di cambiare le strutture statuali occidentali, in molti casi basato su imitazioni o contiguità con movimenti presenti in forma di rivolta antimperialista in aree di quel che era chiamato il Terzo Mondo. Per esempio, sia le Brigate Rosse (BR), sia la tedesca Rote Armee Fraktion (RAF ovvero banda Baader-Meinhof) avevano contiguità anche operative, almeno relative al rifornimento di armi, con i gruppi armati palestinesi nel loro impegno anti israeliano, inteso come lotta di liberazione dallo stato ebraico percepito come esogeno al Medio Oriente nonché longa manus dell’imperialismo petrolivoro occidentale.
Ma anche il fenomeno terroristico si inquadrava nel contesto della logica da guerra fredda: i terroristi comunistoidi in qualche modo collegati alla visione edulcorata e ideologica dell’Unione Sovietica e, di contro a questi, i gruppi dell’estrema destra violenta con contiguità con gli apparati militari e paramilitari dell’Alleanza Atlantica (Stay Behind, Loggia P2, ecc.).
Tanto i gruppi di guerriglia, quanto i gruppi terroristici si fondavano su riferimenti ideologici e/o esplicitamente e apertametne militari, collegati o all’una o all’altra superpotenza.
La logica che prefigurava l’emergere di conflitti localizzati nell’era postideologica, e per conseguenza l’uso della forza militare per operazioni di polizia internazionale, è quella che ha portato agli interventi stimolati dalle Amministrazioni Bush (padre e figlio) in Iraq e in Afghanistan, e più recentemente dall’Amministrazione Obama in Libia.
In alcuni casi, nei due decenni passati, usando forze di rapido intervento aviotrasportate, che si sono trovate a combattere in territori poco conosciuti e senza godere di supporto nella popolazione locale: un poco una ripetizione della logica inscritta nel fallimento dell’intervento occidentale in Vietnam.
Con l’Amministrazione Obama, gli Stati Uniti hanno cercato di ritirarsi da questa tendenza per limitarsi all’uso della forza aerea e della minaccia diplomatica nonché della pressione economica per ottenere risultati sul piano politico, cercando di contemperare la propaganda del modello di democrazia occidentale col principio di rispetto della sovranità.
Se in aree come l’Afghanistan e il Pakistan questa strategia possa avere efficacia, resta ancora da vedersi: in ogni caso si tratta di strategia più vicina ai principi che reggono le Nazioni Unite e meno arrischiata di quella più militarmente aggressiva seguita dalle precedenti amministrazioni repubblicane. Ovvero più vicina ai principi sui quali dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il mondo occidentale ha cercato di impostare il dialogo internazionale.
In tale contesto però si innesta il fenomeno Daesh. Che è il risultato ultimo del seguito di eventi alternatisi dopo l’invasione sovietica in Afghanistan e in parte a seguito del modo in cui gli USA hanno cercato di mobilitare il mondo islamico in funzione antisovietica, il tutto mescolato con le aspirazioni imperialiste di diverse élite arabo islamiche, in particolare saudite.
L’Arabia Saudita non è mai stata una potenza militare, ma è la sede della Mecca e vede l’afflusso di milioni di pellegrini ogni anno: si sente l’ombelico dell’Islam e probabilmente qualcuno dei governanti locali aspira a divenirne il centro politico, oltre che religioso. Percepisce questo status come l’espressione di un potere universale. Chi tra i Sauditi aspira a imporsi nel mondo al di là del solo potere finanziario dato dai petrodollari, vede nei gruppi motivati dall’islam ideologico e violento un utile strumento.
Coerente con tale visione che compagina finanze internazionali e strategia del terrore, il manifesto ideologico nonché programma operativo del terrorismo di matrice islamica, “The management of Savagery” di Abu Bakr Naji del 2004-2005, propone un’alleanza operativa con tutti i gruppi terroristici del mondo, a prescindere dalla loro matrice ideologica, oltre ad applicare al terrorismo il sistema del franchising. Questo allo scopo di scompaginare i piani e la capacità amministrativa del mondo occidentale, e per proporsi come unica forza capace di mettere ordine nel mondo islamico – e per estensione in ogni parte del mondo in cui penetri l’Islam. Di qui la difficoltà dei gruppi di fedeli islamici presenti nei Paesi occidentali a prendere netta posizione contro il Daesh: temono di essere infiltrati e potenziali vittime di simpatizzanti di Daesh che possono trovarsi ovunque.
Qui sta la “genialità” del nuovo approccio bellico. La guerriglia dei “poveri” contro i “ricchi” in realtà è sostenuta da alcuni dei Paesi più ricchi del mondo che, come i Sauditi, sono di per sé assolutamente impossibilitati a un confronto militare convenzionale con le vere potenze militari; ma l’Islam interpretato e usato come ideologia violenta giustifica agli occhi degli utili idioti ideologizzati il loro lasciarsi usare e vittimizzare.
Nella contesa per l’egemonia nel mondo musulmano arabo tra Arabia Saudita, Egitto e Turchia, la prima oggi ha la possibilità di emergere, pur essendo carente di forze militari proprie e di massa di popolazione, proprio in virtù del suo controllo di masse di denaro e della forza di massa dell’ideologia che mette a sua disposizione elementi fanatizzati presenti ovunque nel mondo.
Probabilmente la svolta religiosa di Erdogan in Turchia ha anche qualcosa a che vedere con questo fatto: il sogno di ristabilire l’impero ottomano ha bisogno di un veicolo coerente con quanto oggi si vende sul mercato della regione, e questo non è più l’adesione alla forza militare occidentale in funzione anti sovietica, bensì l’adesione a un’ideologia che aspira a divenire egemonica in quell’area del mondo e che è radicata in una religione che lì è già egemonica. La Turchia non ha la Mecca, ma ha masse di popolazione e forza militare da vendere.
L’uso della religione fanatizzata in ideologia ha un forte appeal in chi nutre sogni egemonici: permette infatti di operare mobilitazioni che hanno un orizzonte universale, poiché elementi fanatizzabili si possono trovare ovunque. Di qui il fatto che la guerra che oggi si incentra nel Daesh sia di estensione mondiale, capace di colpire negli USA come nel Bangladesh, in Francia come in Kenya, e virtualmente ovunque.
E se il mondo occidentale propone armamenti sofisticati, droni operati da basi militari in territorio americano ma capaci di colpire in Afghanistan come in Siria, il Daesh propone uomini bomba capaci di colpire ovunque con la precisione assoluta che solo la deliberata volontà del singolo uomo può dare. Alla forza della tecnologia si contrappone la forza dell’astuzia e della sorpresa.
E se diviene relativamente più difficile dirottare aerei dopo l’11 settembre 2001, ecco che si usano camion per compiere stragi.
La strategia sta nella logica del franchising: come spiga il testo di Abu Bakr Naji, chiunque si può associare e sarà sostenuto sul piano militare, del rifornimento di armi e di informazioni, sul piano logistico ed economico. Il prezzo da pagare per associarsi al franchising del terrore è la disponibilità a morire per uccidere. La nervatura della rete di supporto è studiata come struttura economica e si richiede che gli uomini dell’apparato, quelli che non partecipano in prima persona agli attacchi, siano versati ed educati in economia e in finanza: è questa la precondizione per gestire la rete del franchising.
Con Daesh si chiude il cerchio della capacità militare terroristica: si unisce la fanatizzazione derivante dalla presa dell’ideologia sull’animo degli utili idioti, con l’apparato logistico, col marchio di fabbrica che garantisce pubblicità al singolo fanatico, con l’apparato informativo capace di studiare dove e come colpire, con l’apparato propagandistico capace di reclutare ovunque grazie all’uso dei vari strumenti forniti da Internet e dal web.
E non c’è bisogno di trasportare armi: già Molotov del resto aveva insegnato quanto può fare una bottiglia con un poco di benzina contro la meraviglia tecnologica che era il carro armato. Così se negli USA si trovano anche armi pesanti sul libero mercato e possono essere usate come lo sono state nella strage di Orlando, in Europa basta usare un qualsiasi mezzo di trasporto per farne una bomba dal potere deflagrante notevolmente distruttivo, com’è avvenuto a Nizza.
Nella logica del franchising si trova il fattore sorpresa: colpisce ovunque, in qualsiasi momento. E si fonda su una capacità di supporto logistico radicato un poco ovunque: in questo oltre che ai gruppi terroristici degli anni Settanta del ‘900, il Daesh assomiglia a quelli della criminalità organizzata di tipo mafioso, che si fondano su reti di supporto presenti nella popolazione. Ovviamente nel caso del Daesh, il supporto è dato dalla rete strutturata a livello globale e fondata sul credo ideologico. Per contrastarlo non bastano le truppe armate di tutto punto, gli occhiali infrarossi per vedere nel buio, i laser capaci di abbattere piccoli velivoli.
Il Daesh ha dalla sua tutte le strumentazioni atte a diffondere il caos, ha la motivazione ideologica (combattere gli “infedeli”), la struttura logistica e la volontà di farlo.
La risposta
La risposta non può agire, se non limitatamente, sul piano tecnologico e neppure militare: sinché opera prevalentemente su questi piani è destinata a non avere efficacia, ovvero a combattere una guerra diversa da quella che sta combattendo l’avversario: un po’ come i Francesi che pensavano di combattere in trincea la Seconda Guerra Mondiale, con la tecnologa della prima guerra, come se nel frattempo non vi fosse stato lo sviluppo dei carri armati e dell’aviazione.
Il nuovo tipo di guerriglia terroristica intrapresa col sistema del franchising da Daesh richiede un fondamentale aggiornamento del pensiero strategico.
Il terrorismo delle BR e della RAF è stato sconfitto grazie al generale collasso della struttura ideologica che lo sosteneva oltre con le operazioni di infiltrazione poliziesche, di denuncia e di ostilità popolare. Ma i gruppi mafiosi, per quanto in parte danneggiati, non sono stati sconfitti, anzi continuano a prosperare, operando in ambiti commerciali simili a quelli in cui opera il Daesh: traffico illegale di droga, opere d’arte, contrabbando, commercio di schiavi (del sesso o del lavoro).
Nella misura in cui v’è motivazione economica nella struttura e nelle azioni di Daesh – e c’è molta motivazione economica nel loro agire, al punto che il loro stesso documento programmatico propone l’attività economica illegale come fonte di guadagno – non potrà essere sconfitto, esattamente come le varie mafie non sono sconfitte con metodi tradizionali, poiché agiscono all’interno della logica del libero mercato.
Ma, nella misura in cui il Daesh recluta sulla base di proposte ideologiche, seppure ammantate nel linguaggio religioso, può essere sconfitto: non tanto con le armi da fuoco o simili (comunque necessarie per contrapporre la forza della difesa alla violenza dell’offesa), quanto con la forza della ragione.
Al riguardo è rilevante comprendere che si tratta anzitutto di una guerra culturale: sinché vi saranno persone disposte a essere sacrificate per quella che ritengono una giusta causa (sia questa di raggiungere il paradiso islamico, o quella di ottenere le prime pagine dei giornali in tutto il mondo), non vi sarà modo di sconfiggere in via definitiva il Deash. Né basterà rioccupare militarmente i territori sirio iracheni ora tenuti da questo organismo. Perché l’ideologia non ha territorio, e neppure la finanza che la sostiene ha una base territoriale: se per ipotesi l’Arabia Saudita fosse totalmente conquistata a una visione pacifica dei rapporti internazionali e se tutto il territorio iracheno e siriano fosse rimesso sotto il controllo di legittimi governi, questo di per sé non sarebbe sufficiente per sconfiggere Daesh, che continuerebbe ad avere strumenti finanziari e informativi operanti in qualsiasi parte del mondo, proprio grazie alla logica di Internet, che consente di mobilitare cuori e cervelli, informazioni e denari, disponendo semplicemente di qualche computer in qualche parte del mondo, sia il deserto dei beduini o una metropoli affollatissima.
Ma, chi di religione colpisce, di religione perisce. Daesh sarà sconfitto quando nel mondo islamico la maggioranza, anziché ritenere che i terroristi siano fedeli devianti (“compagni che sbagliano” dicevano un tempo) e tacere, cominceranno non solo a profferire messaggi di solidarietà con le vittime del Daesh, ma ad attivamente contrastarlo, denunciando chi vi collabora e lo sostiene.
Per ora al riguardo non esiste nulla di più efficace di papa Francesco, contro la logica del Daesh: è la forza del potere privo di forza, a fronte della logica della forza dell’apparentemente debole ma in realtà molto ben pagato e scervellato che si presenta come colui che lotta contro il forte organizzato. L’apparentemente debole ma scervellato Daesh chiama religione quella che in realtà è un’ideologia satanica: ma dove c’è appello alla religione, c’è appello a una legge superiore a quella umana. Che può essere ricondotto entro la logica della giustizia, purché vi siano esempi che rappresentino tale giustizia, oltre a predicarla. E oggi nel mondo papa Francesco è colui che più visibilmente e più nettamente porta avanti tale discorso e tale esempio.
Se aumenterà il numero di esponenti religiosi che in campo islamico sono capaci di diffondere un simile messaggio di dialogo e di pace, pian piano l’acqua in cui ora sguazza il Daesh si farà rara, aspra e difficile.
Questo è auspicabile non solo per la civiltà in generale, ma anche per l’Islam in particolare. Infatti, più tempo tarderà questo fenomeno a manifestarsi – ovvero, più tempo passerà prima che in campo islamico ci si renda conto che non è più sulla punta della spada che si può diffondere un messaggio ammantato di religione (come avvenne nel medioevo con lo storico Califfato), più l’Islam sarà colpito dalla violenza del Daesh: e lo sarà con forza tanto maggiore, quanto più il mondo occidentale saprà uniformarsi al messaggio di pace francescano, allontanandosi dalla violenza che ha messo in campo in Medio Oriente con le tre amministrazioni Bush.
Il mondo islamico dovrà comunque scegliere se unirsi alla via dell’intesa e della pace, o se adeguarsi alla logica del conflitto ideologico del Daesh. Chi seguirà quest’ultima strada si autocondannerà, prima o poi, all’emarginazione e all’estinzione. E se il mondo occidentale saprà abbracciare la strada del dialogo aperto e della pace perseguita da papa Francesco, questo avverrà più prima che poi.
Chissà che cosa avesse in mente Valls, quando parlava del tempo di una generazione: ma è probabile che pensasse proprio all’importanza della strategia culturale, che opera sul lungo periodo, richiede impegno, dialogo, confronto di opinioni, diffusione di informazioni. E oggi è tanto più possibile proprio grazie alla diffusione di mezzi di comunicazione di massa.
Daesh ha dimostrato l’importanza di Internet nel diffondere la sua opera di reclutamento e utilizzo dei nuovi utili idioti: ma alla lunga, per la stessa via, passerà il messaggio della convivenza.
La forza della parola, alla lunga sempre si dimostra maggiore della parola della forza.
(LS)
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