di Galliano Maria Speri

Il 19 luglio 2018, anniversario dell’omicidio del giudice Borsellino, il presidente della Corte d’Assise di Palermo Alfredo Montalto deposita le motivazioni della sentenza che ha condannato i mafiosi e gli uomini dello Stato che si sono macchiati del reato di “Minaccia a corpo dello Stato”. Le monumentali 5252 pagine documentano le trattative dei carabinieri del Ros con Cosa Nostra per porre fine alla strategia del terrore voluta da Totò Riina. È la conferma delle tesi del pool guidato da Nino Di Matteo, il giudice più minacciato d’Italia, esposte in libro rigoroso e acuminato che spazza via anni di negazionismo interessato e fa i nomi di tutti coloro che, in buona o cattiva fede, hanno cercato di ostacolare o ridicolizzare l’inchiesta ora arrivata a sentenza.

Nel novembre 2014 il magistrato Nino Di Matteo, punta di diamante del pool che si occupa delle indagini sulle trattative Stato-mafia seguite all’uccisione del giudice Giovanni Falcone, della moglie e della scorta, riceve una richiesta di appuntamento urgente da parte del mafioso Vito Galatolo, detenuto a regime di 41bis nel carcere di Parma.

Dopo aver tergiversato, Galatolo guarda fisso negli occhi Di Matteo e gli dice: “Lei deve stare attento, perché siamo molto avanti … abbiamo già comprato l’esplosivo, abbiamo studiato tutte le sue abitudini, i suoi movimenti a Palermo, e abbiamo pensato anche a un piano alternativo”. Quando il magistrato gli chiede perché la mafia vuole la sua morte, il detenuto alza gli occhi alla famosa foto di Falcone e Borsellino appesa su una parete e, indicando Falcone, dice in siciliano stretto: “Non comu a chistu, ma comu a l’avutro (Borsellino)” spiegando: “Ce lo hanno chiesto”.

La frase indica che Borsellino fu assassinato non per decisione autonoma della mafia ma su richiesta di forze esterne, quelle che Falcone aveva definito “menti raffinatissime”.

Il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa fu l’artefice della sconfitta del terrorismo brigatista in Italia. Secondo il mafioso Giuseppe Guttadauro la sua uccisione, in via Carini a Palermo il 3 settembre 1982, fu richiesta da forze esterne a Cosa Nostra.

Gli autori riferiscono anche un altro episodio simile, dopo l’arresto nel 2001 di Giuseppe Guttadauro, chirurgo di fama e capo del mandamento mafioso di Brancaccio che, commentando l’omicidio dell’allora prefetto di Palermo, dice: “Ma a noi chi ce lo faceva fare di uccidere Dalla Chiesa, sono stati altri che ce lo hanno chiesto”. Non fu infatti la mafia a far sparire dalla cassaforte della residenza del generale tutte le carte compromettenti, le stessi mani insanguinate che hanno cancellato informazioni preziose dai computer di Falcone e sottratto l’agenda rossa di Borsellino dopo l’assassinio del magistrato. “Cosa Nostra si occupa materialmente delle esecuzioni –dice Di Matteo- mentre uomini dell’apparato, che hanno la possibilità e la capacità, si attivano per far sparire per sempre documenti, indizi, prove utili a ricostruire contesti più ampi e, con essi, moventi e mandanti occulti”.

Il libro ricostruisce in modo puntuale la genesi della trattativa innominabile, partendo dal 1991, l’anno in cui Cosa Nostra capisce che i rapporti con i referenti politici tradizionali sono definitivamente compromessi. Le prime avvisaglie c’erano già state nelle elezioni politiche del 1987, quando il pacchetto di voti della mafia, da sempre riversato sulla DC, era stato dirottato verso il PSI e i radicali (e Pannella commentò: “Se la mafia ci ha votato, vuol dire che la mafia è cambiata”).

La vera svolta avviene nello storico maxiprocesso di Palermo, istruito da Falcone e Borsellino, che certifica l’esistenza e la struttura verticistica di Cosa Nostra. Il 16 dicembre 1987, dopo 36 giorni di camera di consiglio, la corte commina 19 ergastoli e 2665 anni di reclusione. Totò Riina si illude di rovesciare il verdetto puntando sui rapporti politici con Salvo Lima, il proconsole andreottiano in Sicilia, Ignazio Salvo, il potentissimo controllore delle esattorie siciliane e il discusso magistrato di Cassazione Corrado Carnevale (quello che in alcune telefonate intercettate aveva definito Falcone e Borsellino come “due incapaci, con un livello di professionalità prossimo allo zero”).

Ma il maxiprocesso non finisce sulla scrivania di Carnevale, che sicuramente meritava il nomignolo di “ammazzasentenze”, perché Falcone, trasferitosi nel frattempo a Roma come direttore degli affari penali del ministero della Giustizia, riesce ad ottenere la rotazione delle sezioni che devono valutare i processi ai mafiosi. Il 30 gennaio 1992 la Corte di Cassazione conferma la validità dell’impostazione accusatoria del maxiprocesso e Cosa Nostra capisce che i vecchi rapporti politici si sono rotti per sempre ed è necessario elaborare una nuova strategia per poter sopravvivere.

Riina afferma che “è necessario scatenare la guerra per poi fare la pace”.

Lima e Andreotti. Palermo, 12 marzo 1992. La mafia uccide Salvo Lima, il politico siciliano che faceva da tramite tra la corrente andreottiana e Cosa Nostra, e apre lo scontro diretto ed esplicito con lo Stato.

Di Matteo sintetizza così la nuova fase: “Uccidere per trattare. Spazzare via i traditori, auspicando che altri referenti si facessero avanti. Esportare fuori dalla Sicilia la strategia del terrore. Seminare panico nel paese. Instaurare un patto politico mafioso con soggetti politici nuovi di zecca.

Una strategia complessiva che venne attuata tra il febbraio 1992 e il 1994”. Il primo a cadere, il 12 marzo 1992, è Salvo Lima, il cui cadavere insanguinato è metaforicamente deposto sulla porta di Giulio Andreotti per fargli capire che gli “amici” non si possono tradire impunemente. Poi, il 23 maggio dello stesso anno, è la volta del nemico numero uno di Cosa Nostra, Giovanni Falcone, ucciso insieme alla moglie e alla scorta.

L’allora colonnello Mario Mori, comandante del Ros, coinvolto in indagini sulle trame eversive degli anni ’70, quando faceva parte del Sid (Servizio informazioni e difesa). Sono emersi anche suoi collegamenti col massone Licio Gelli. Ha diretto le operazioni che hanno portato all’arresto di Totò Riina (favorendo l’ascesa al potere dell’ala trattativista di Cosa Nostra) ma si è “dimenticato” di far perquisire il covo del capo mafioso dove si potevano trovare prove di collegamenti imbarazzanti.

Dopo questo feroce attacco allo Stato, due ufficiali del Reparto operativo speciale dei carabinieri, meglio conosciuto come Ros, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, con il permesso del loro superiore Giovanni Subranni (definito “punciutu”, cioè affiliato alla mafia, da Paolo Borsellino) incontrano a Roma Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo, per usarlo come tramite verso Totò Riina che, servendosi dello stesso mezzo, fa pervenire le richieste di Cosa Nostra per porre fine alla strategia stragista.

Riina chiede l’abolizione dell’ergastolo, la chiusura delle supercarceri dell’Asinara e di Pianosa, l’ammorbidimento del carcere duro, la modifica della legge Rognoni-La Torre sul sequestro e la confisca dei beni mafiosi, una nuova legislazione sul pentitismo e la revisione, attraverso una sentenza della Corte di Strasburgo, degli ergastoli del maxiprocesso. E per far capire che Cosa Nostra non scherza viene affrettata la decisione di uccidere anche Paolo Borsellino per far piegare definitivamente le ginocchia allo Stato ed eliminare un personaggio che non avrebbe mai accettato, a nessun prezzo, la trattativa.

Vengono anche messi fuori gioco, in modo meno cruento, due personaggi che con la loro fermezza avrebbero potuto creare difficoltà ai nuovi sviluppi. Il primo è Vincenzo Scotti che, da ministro dell’Interno, aveva già dimostrato la sua intransigenza, mentre l’altro è Nicolò Amato, direttore da più di dieci anni del Dipartimento delle carceri e sostenitore di un’applicazione severa di un regime carcerario duro per i mafiosi. Scotti viene isolato politicamente e, nel successivo governo Amato, è sostituito da Nicola Mancino, mentre Amato è improvvisamente rimosso e rimpiazzato da Adalberto Capriotti, a cui viene imposto come vice Francesco Di Maggio, magistrato fuori ruolo da sempre molto vicino a Mario Mori. L’offensiva mafiosa a questo punto diventa incalzante. Nel febbraio 1993 i familiari dei mafiosi reclusi a Pianosa e all’Asinara inviano una lunga lettera al Presidente Scalfaro in cui denunciano le condizioni “inumane” in cui sono tenuti i loro congiunti e additano il “dittatore Amato” come il mandante di torture e soprusi, arrivando a minacciare il capo dello Stato.

Giovanni Conso, il ministro della Giustizia che, su sollecitazione del Presidente Scalfaro, allontanò Nicolò Amato e, successivamente, non prorogò il regime di 41 bis a 334 mafiosi in carcere.

La lettera è anche inviata al nuovo ministro della Giustizia Giovanni Conso e, inspiegabilmente, ai vescovi di Firenze e Roma. La lettera viene però tenuta segreta, non è portata neppure portata a conoscenza di Amato, a cui erano pur state rivolte accuse false e infamanti, ed è stata riscoperta da poco grazie al lavoro certosino del giudice Sebastiano Ardita, all’epoca in servizio alla direzione generale delle carceri. A questo punto la progressione è impressionante: ad aprile 1993 Amato viene defenestrato, a maggio c’è la strage di via dei Georgofili di Firenze, a luglio, le bombe in simultanea a Milano e Roma. A novembre dello stesso anno il ministero della Giustizia decide di non prorogare il regime carcerario duro previsto dal 41 bis a 334 mafiosi.

Il segnale che Cosa Nostra aspettava da tempo è finalmente arrivato.

Nino Di Matteo, attualmente sostituto procuratore alla Direzione nazionale antimafia, ha visto confermate dalla sentenza di condanna le indagini del suo pool sulle trattative Stato-mafia.

Cosa Nostra è però convinta della necessità di trovare un nuovo interlocutore politico che viene ravvisato nella nascente Forza Italia, fondata da Silvio Berlusconi che, già dal 1974, quando era un semplice imprenditore, aveva stipulato, con la mediazione di Marcello Dell’Utri, un patto con Cosa Nostra a cui, in cambio di protezione, versava centinaia di milioni. “Questi patti –scrive Di Matteo- vicendevolmente mantenuti, almeno fino al 1992, sono consacrati nella sentenza di Cassazione che ha reso definitiva la condanna di Dell’Utri per concorso in associazione mafiosa”. Quelli elencati non sono fantapolitica, ma una serie di fatti, a cui potremmo aggiungere la mancata perquisizione del covo di Riina dopo la sua cattura e la condanna ad alti funzionari dei servizi segreti come Bruno Contrada, che sono collegati logicamente oltre che da un punto di vista giuridico. Eppure, una sfilza lunghissima di personaggi, politici, magistrati, giornalisti (puntualmente elencati nel libro), hanno lanciato accuse infamanti e derisorie agli autori delle indagini, finalmente confermate da una sentenza coraggiosa che ha sancito come settori importanti dello Stato, mentre scorreva nelle strade il sangue di vittime innocenti, dialogavano con le belve stragiste per cercare un compromesso.

Negli articoli che chiudono il libro Saverio Lodato parla di “noi” e “loro”. “Loro” sono quelli che amano i magistrati coraggiosi soltanto da morti e piangono roventi lacrime sulle loro lapidi, sono quelli che sanno solo far finta di niente e che, se proprio si deve combattere la mafia, almeno non si arrivi fino in fondo. La sentenza di Palermo mostra che stavolta, per ora, abbiamo vinto “noi”.

La lettura di questo libro è, sommessamente ma caldamente, raccomandata al bombastico ministro dell’Interno, che ha il compito istituzionale di combattere (e sconfiggere definitivamente?) il crimine organizzato di cui deve sicuramente aver sentito parlare, essendo stato eletto in Calabria.

Nino Di Matteo-Saverio Lodato  Il patto sporco – Il processo Stato-mafia nel racconto di un suo protagonista (Chiarelettere, pag. 207, 16 euro)

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