Nello smaliziato mondo contemporaneo sono ben pochi a credere nell’efficacia della danza della pioggia, eppure, politici e commentatori replicano un meccanismo identico quando denunciano i terribili pericoli del populismo che viene demonizzato e attaccato con parole roboanti. Come le danze, per quanto convulse, non hanno nessun potere sulle precipitazioni atmosferiche, nello stesso modo le grida, per quanto altisonanti, possono scalfire l’avanzata del populismo. Il problema esiste, è diffuso a livello mondiale e ha un enorme impatto sul mondo di oggi, ma va innanzitutto analizzato e compreso perché non basta esorcizzarlo per farlo scomparire. Coloro che vogliono tenere in piedi il sistema liberal-democratico “dovrebbero intervenire nel merito delle argomentazioni costituzionali e politiche del populismo, invece di demonizzarle, e rivedere alcune fondamentali regole del gioco in modo da restituire potere decisionale ai cittadini e permettere loro di esercitare un controllo più stringente sui loro rappresentanti”.
Le parole riportate sopra sono le conclusioni di Io, il popolo, di Nadia Urbinati, autorevole accademica italiana naturalizzata statunitense e professore ordinario di Teoria politica alla Columbia University di New York. Oltre all’insegnamento e alla ricerca, Urbinati scrive su diversi quotidiani italiani e partecipa attivamente al dibattito politico, sia sulla carta stampata che in appassionati interventi televisivi. Faccio queste precisazioni per fugare il timore che il suo libro abbia posizioni preconcette e sia critico verso il populismo da un punto di vista ideologico. L’analisi è frutto di un rigoroso lavoro accademico e rappresenta una disamina approfondita del fenomeno, descritto con grande precisione terminologica ma in un linguaggio chiaro e lineare (aiutato sicuramente dal fatto che la versione italiana deriva da quella in inglese, pubblicata lo scorso anno).
“Noi” e “loro”
L’autrice sostiene che il populismo non è esogeno ma scaturisce dall’interno della democrazia rappresentativa e intende far nascere un proprio modello di governo rappresentativo. La sua grande crescita internazionale, acceleratasi negli ultimi anni, soprattutto dopo la conquista della Casa Bianca da parte di Trump, dimostra che i leader populisti hanno saputo sfruttare problemi reali, insicurezze e timori profondi suscitati dopo la fine della guerra fredda, la globalizzazione senza controlli e la crisi delle ideologie socialdemocratiche. Dal secondo dopoguerra in poi ci sono stati trent’anni di sviluppo e prosperità, a cui sono succedute crisi ripetute, fino ad arrivare alla situazione globalizzata attuale che però ha arricchito il mondo in modo asimmetrico, con una progressiva concentrazione di ricchezza in poche mani. I leader populisti hanno saputo capitalizzare sulle paure di chi si sentiva tagliato fuori, dopo il fallimento dei partiti che avevano promesso una società più giusta e di fronte all’incapacità di creare istituzioni di governance internazionale in grado di edificare un cosmopolitismo democratico che coniugasse libertà, benessere e pace.
I capi populisti si presentano come i soli rappresentanti degli interessi del popolo, in contrapposizione ai partiti corrotti e all’establishment, venendo a configurare un “noi”, parte sana e “autentica” del popolo, contro un “loro” di corrotti e sfruttatori appartenenti alle classi privilegiate e a quelle istituzioni internazionali che impongono sacrifici e austerità. Il libro analizza, tra i tanti aspetti, la delicata questione della relazione tra fascismo e populismo, concludendo che è sbagliato equiparare i due fenomeni perché mentre il fascismo distrugge la democrazia il populismo la sfigura e la trasforma senza distruggerla. Quindi, “se consideriamo le due forme corrotte di potere che contraddistinguono il fascismo – la demagogia e la tirannide – vediamo che il populismo implica la prima, ma non la seconda. Il populismo resta una forma democratica nella misura in cui il suo fascismo latente resta incompiuto”. Per il populismo le elezioni non sono però un processo democratico che attribuisce il governo alla maggioranza, ma una “rivelazione” dei veri interessi del popolo. Una volta giunto al potere, il populismo ha la pulsione a impadronirsi delle istituzioni e utilizzarle per finalità di parte e trasformare le leggi costituzionali secondo i propri interessi, come dimostrano i casi di Ungheria, Polonia e Bolivia.
Secondo l’autrice, il populismo consiste in un governo dell’audience e per
l’audience, nel quale non sono le istituzioni, ma è l’opinione fideistica del popolo a giocare un ruolo di stimolo o di direzione del leader. Per questa ragione il populismo ha bisogno di una campagna elettorale permanente, si scaglia costantemente contro nemici veri o immaginari e denuncia complotti contro la propria politica salvifica. La superiorità dell’audience sulle istituzioni ci fa però comprendere il rischio insito nel rendere fragile una delle colonne portanti della nostra società democratica. Un pericolo aggiuntivo è rappresentato dal fatto che “mentre i capi dei partiti tradizionali sono vincolati dai loro stessi partiti, il leader populista è quasi del tutto libero nel suo potere decisionale. Ciò lo rende molto vulnerabile alla corruzione, pressoché incontrollabile”.
Che fare?
La tragica ironia della situazione è che il populismo non può risolvere i problemi contro i quali i movimenti populisti reagiscono. “Il paradosso del populismo al potere–scrive Urbinati- è che non può svolgere il suo lavoro pragmatico alla luce del sole, né soprattutto può indurre il sospetto di condurre una politica pragmatica come farebbe un qualunque partito. La sua identità pubblica è costruita su misura del lato «redentivo» del lavoro democratico, essendo quello «pragmatico» bollato come proprio dell’establishment”.
Riconoscendo che il populismo è l’indicatore di una corruzione politica sistemica, favorita anche dalla disuguaglianza economica, è necessario individuare degli strumenti efficaci per dare risposte politiche alle aspettative delle società contemporanee. Secondo l’autrice, la democrazia dei partiti, che per alcuni cruciali decenni ha svolto con successo un ruolo decisivo, si è dimostrata inadeguata a governare una società che non fa più affidamento su organizzazioni strutturate di lavoratori e cittadini e nella quale forme di democrazia della rete hanno acquisito credibilità, come espressione più diretta della volontà popolare.
Ciò non toglie che i partiti stessi rimangono uno strumento fondamentale di una società democratica, purché vengano adeguatamente riconfigurati. Si potrebbero imporre “norme interne volte a garantire trasparenza e in aggiunta esercitare un controllo rigoroso sulle loro risorse finanziarie; riscriverne gli statuti e rivederne le strutture in modo da renderli capaci di interpretare e rappresentare le rivendicazioni dei loro iscritti (ed emanciparli dai gruppi faziosi che li governano e trovano vantaggioso accentuare i dissensi interni e rendere debole la dirigenza collettiva)…Se, come abbiamo mostrato, il populismo è, sotto ogni riguardo, un esito del malfunzionamento della democrazia dei partiti, la cura della democrazia non può che essere cura delle istituzioni intermedie, e dei partiti in particolare”.
Nadia Urbinati
Io, il popolo
Come il populismo
trasforma la democrazia
Il Mulino, pp. 352, € 24
di Galliano Maria Speri
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