Leonardo Servadio
Tra le tante osservazioni compiute sul viadotto autostradale sul Polcevera a Genova, che fu completato nel 1967 e che è crollato il 14 agosto del 2018, vorremmo aggiungerne una di carattere estetico. Era un brutto ponte: l’uso del calcestruzzo per gli stralli collegati ai tre piloni principali (chiamati “aste”) alti novanta metri ha portato a un tipo di struttura che appariva incongrua. Dava un senso di rigidità inappropriato per quel tipo di opera. Mancava totalmente dell’agilità e dell’eleganza delle catenarie che caratterizzano i più bei ponti in acciaio storici come il Giovanni da Verrazzano a New York o il Golden Gate a San Francisco.
Mancava del ritmo ripetuto e confortante dei tanti stralli (“iperstatici”) del viadotto Millau in Francia.
I problemi strutturali sono all’origine del viadotto di Genova. E dall’inizio ne era evidente la bruttezza. Le due cosa vanno assieme. Nelle strutture riuscite, venustas e firmitas vanno assieme. Vien da chiedersi se, nel caso fosse stato più valido sul piano estetico, non sarebbe stato più curato e meglio conservato.
Riccardo Morandi concepì gli stralli in calcestruzzo armato precompresso al fine di proteggere i tiranti in acciaio dagli eventi atmosferici, ovvero dall’ossidazione derivante dall’umidità dell’aria e al fine di dare maggiore rigidità alla struttura. In un articolo pubblicato nel 1967 su Industria Italiana del Cemento dal titolo “Il viadotto sul Polcevera per l’autostrada Genova Savona” e riportato da Ingenio del 20 agosto 2018, Morandi indica che l’uso del calcestruzzo per gli stralli avrebbe conferito alla struttura una serie di vantaggi che elenca così:
1.eliminazione della fessurazione delle guaine e quindi eliminazione della possibilità di danneggiamento dell’acciaio per l’opera degli agenti atmosferici attraverso lesioni;
2.riduzione dell’ampiezza del campo di variazione delle sollecitazioni nell’acciaio con conseguente aumento della sicurezza per fatica dovuta a tensione ondulante”;
3.riduzione delle rotazioni della travata in corrispondenza degli appoggi sui ritti obliqui, per riduzione degli allungamenti dei tiranti al passaggio dei carichi accidentali;
4.riduzione degli spostamenti longitudinali orizzontali della sommità del sistema antenna, per effetto di stese dissimmetriche di sovraccarichi accidentali
Il desiderio di conferire rigidità a un sistema strutturale retto da piloni alti 90 metri a prima vista appare qualcosa di insensato: la rigidità strutturale in caso di sollecitazioni sismiche tende piuttosto a tradursi in rotture e crolli. Ma probabilmente Morandi aveva in mente il crollo del ponte sospeso di Tacoma Narrows negli Stati Uniti, avvenuto nel novembre del 1940 quattro mesi dopo il suo completamento, a seguito delle oscillazioni impresse da un vento neppure tanto forte (64 km/h) alla struttura che entrò in risonanza.
In realtà quel genere di problemi viene efficacemente risolto tramite lo studio dell’aerodinamica delle strutture, piuttosto che con la rigidità.
E che il calcestruzzo potesse proteggere l’acciaio dei tiranti dalle intemperie si rivelò ben presto una pia illusione (e come poteva essere altrimenti?): la rigidità non appartiene agli stralli, e bastano piccoli movimenti per causare microfessurazioni nelle quali si insinua l’umidità che attacca i ferri dell’armatura.
Infine, l’uso di stralli a bilanciere, secondo il sistema “isostatico” (se se ne rompe uno tutta la struttura immediatamente cede) invece del sistema “iperstatico” (a più stralli in serie, tale che se se ne rompesse uno vi sarebbe tempo per correre ai ripari) non ha fatto che accentuare i rischi. E a tutto questo va aggiunto che il peso degli stralli in c. a. è ovviamente maggiore di quello di stralli in solo acciaio: e caricare di peso le parti elevate delle strutture non fa che aumentare gli effetti delle sollecitazioni laterali, che a loro volta alla lunga danneggiano la struttura.
Tutte queste sono osservazioni banali, di buon senso comune, non svolte da un “tecnico”. Curioso che sfuggissero a strutturisti di primo piano e di fama mondiale. Curioso che nessuno abbia obiettato che anche una struttura funzionale come un viadotto autostradale dovrebbe avere un minimo di equilibrio e di eleganza.
Se l’avesse avuto, forse sarebbe stato anche più curato, invece di essere lasciato languire in preda alla fragilità del c. a. a vista, corroso dalla salsedine, dai venti, dall’umidità, dalla ruggine.
Se ne può solo dedurre che quel ponte sia stato concepito e accettato perché l’approccio razionalista, ovvero l’illusione che la tecnica possa tutto, ha teso a non tenere in conto le condizioni ambientali: a supporre di poter agire tramite la forza, nell’illusione che tutto possa la “volontà di potenza”.
In fondo qualcosa di simile è accaduto col disastro della diga del Vajont: dove la struttura in c. a., costruita con grande maestria, ha retto benissimo alle condizioni idrogeologiche e al passaggio del tempo. Ma la grande massa d’acqua raccoltasi nel lago generato dalla diga stessa, ha dato luogo a uno sconvolgimento ambientale tale da portare al crollo di una parte della montagna, che a sua volta ha generato l’ondata che il 9 ottobre del 1963 ha sommerso Longarone e ucciso duemila persone. La diga è ancora lì, capolavoro di ingegneria; la natura e la vita umana ne sono rimaste sconvolte.
Riguardo al ponte di Genova, la sua bruttezza risiedeva proprio nella lontananza tra il suo progetto e la ricerca di armonia tra il costruito e la natura.
Diversa è la situazione dei ponti sospesi: l’ampia curva descritta dalla catenaria segue una disposizione naturale, che stabilisce un rapporto di collaborazione tra costruito e forza di gravità. Certo il crollo del ponte di Tacoma Narrows mostra che questo di per sé non basta: ma con l’uso delle catenarie si è sulla strada di chi ricerca eleganza e armonia oltre che imponenza, e segue linee che parlano di elasticità e morbidezza e non di pesantezza e rigidità.
Gli arzigogoli del design a volte fan pensare che questo sia totalmente estraneo alla struttura portante. E spesso gli architetti badano alla forma ma non pensano a come questa possa stare in piedi. È questa l’altra faccia della medaglia: l’indice della scollatura che in particolare a causa di come il calcestruzzo armato può plasmarsi, si è verificata tra forma e struttura. Più recentemente le opere di Frank Gehry (v. il notorio Gugenheim di Bilbao) e dei suoi epigoni, nonché quelle di Santiago Calatrava (v. le innumerevoli cause aperte nei suoi confronti a seguito di problemi emersi in opere di grande appariscenza formale spesso lontane dalla necessità strutturali) e dei suoi epigoni non fanno che insistere su tale discrasia.
L’architettura contemporanea e con essa l’ingegneria strutturale dovrebbero piuttosto ritrovare il gusto di progettare edifici coerenti con i campi di forza (siano queste la gravità, i venti, le sollecitazioni sismiche) in cui si inseriscono, così che struttura e disegno non siano estranei l’uno all’altra.
In questa armonica unione sta la bellezza di opere quali la cupola del Brunelleschi, i ponti romani, le fantasiose creazioni di Gaudí, i tanti progetti che Eiffel ha consegnato alla storia quando già l’acciaio mostrava quanto si potesse compiere di nuovo, diverso e grandioso – ma non arbitrario.
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