Si è dimesso il ministro dell’Immigrazione britannico, Mark Harper. L’annuncio è stato dato il giorno 8 febbraio. Non aveva esportato capitali illegalmente, non subornato giudici, non insultato i colleghi parlamentari, non abusato dei proprio privilegi di ministro, non compiuto viaggi con seguito di mogli, amanti, amici, amici degli amici in business class e a spese dello stato, non acquistato gelati e altre leccornie a costo del contribuente, non…
La lista potrebbe continuare ripensando agli innumerevoli abusi di cui si legge giorno sì e giorno no sui giornali, riferiti alle disinvolte abitudini dei rappresentanti eletti del popolo italiano.
Harper ha fatto ben altro: non ha controllato che la signora che stipendiava per occuparsi della pulizia della sua casa fosse in regola col permesso di soggiorno.
Questo infatti le era scaduto. Certo è ironico che il ministro dell’immigrazione non si occupi di assicurare che la propria colf abbia le carte dell’immigrazione a posto. Si vede che Harper temeva la salace ironia cui avrebbe potuto essere stato soggetto se la notizia fosse trapelata. Così appena s’è reso conto della sua mancanza, ha deciso di chiudere la sua avventura ministeriale (ma la stampa britannica precisa che tuttavia non s’è dimesso dal parlamento) argomentando che, in quanto ministro dell’immigrazione, non poteva permettersi questa svista.
C’è un che di tenero in tutto questo: perché invece di dimettersi non è corso ai ripari mettendo in regola la sua impiegata? Che gli ci voleva, come ministro? Una telefonata, un bigliettino, un pizzino a qualche subordinato ossequiente. Visto così, da lungi, da questo universo nostro peninsulare che proprio recentemente è stato tacciato di essere tanto corrotto quanto tutti gli altri paesi del continente messi assieme, il gesto fa sorridere: ha un che di infantile, di sommamente ingenuo, quasi di patetico.
Ma come? Qui sosteniamo, difendiamo, coccoliamo in accesi dibattiti massmediatici i diritti di parlamentari sul cui capo pendono accuse infinitamente più gravi, e lì, per questo nonnulla uno si dimette: e per giunta volontariamente… senza pressioni, senza ingiunzioni, senza lunghe campagne di mobilitazione dell’opinione pubblica, sena raccolta di firme, senza indignazioni multiple, senza pressioni internazionali, senza mandati di comparizione. E poi sui giornali britannici ne parlano come di una cosa qualsiasi: non ci sono titoloni di prima pagina, quasi fosse un fatto di cronaca qualsiasi.
Il problema è che il rigorosissimo britannico ministro conservatore (si potrebbe dire quindi, di “centrodestra”) si era impegnato proprio in questo periodo in una campagna per far sì che coloro che danno lavoro agli immigrati si assicurino che questi abbiano le carte in regola, oppure li caccino. Non è un angioletto, Harper, è uno che pare ambire a liberarsi degli immigrati che sconfinino nella condizione dei “sans papier”: volesa ricacciarli tutti là donde vennero. Una campagna in cui si era impegnato anima e corpo, al punto da far appiccicare sui compassati autobus londinesi cartelli che bruscamente invitavano gli immigrati illegali a tornarsene a casa: “go home!” come dicono da quelle parti.
Ma qui il punto non è discutere se l’azione politica che svolgeva sia o no condivisibile: persino in Gran Bretagna è oggetto di dibattito. Il punto è che ci si trova di fronte all’ennesimo atto di coerenza da parte di un politico d’oltre Manica. Ministro, eppure desideroso di mostrarsi corretto, di essere soggetto alla legge, persino a una legge da lui stesso propugnata: insomma, una sua creatura, qualcosa di cui potrebbe ritenersi “padrone”. L’ho fatta io, perché mi ci devo sottomettere?
Probabilmente non ha studiato a sufficienza il diritto, per sapere che ogni regola ha le sue eccezioni, che la storia non è fatta di gesti di coerenza personale, ma di spade che tagliano nodi gordiani, anche ove questi siano quelli che dovrebbero vincolare il comportamento etico di ogni buon cittadino. Forse non sa che il ruolo delle persone che hanno responsabilità di governo non è dare il buon esempio ai sudditi (si ricordi che la Gran Bretagna è una monarchia) e neppure ai cittadini (nel caso si abbia a che fare con una repubblica), ma elevarsi al di sopra della folla ed esibire il prometeico vigore di chi sta sopra leggi e regole, in virtù di quell’aura sublime comunemente chiamata “potere” (che, com’è noto, logora chi non ce l’ha). Non è questo infatti il significato dell’inglesismo “leader” da tempo entrato in vigore per indicare i capi, anche in Italia? Per quanto nel mondo di origine, quello anglosassone, il termine sia associato al concetto di “prendersi la responsabilità” di qualcosa: non c’è discorso che pronunci un presidente statunitense che non includa l’espressione “to take responsability”, per manifestare la propria volontà di portare avanti una certa azione politica.
Qui da noi, invece, chissà perché il concetto di “prendersi la responsabilità” sembra collegato a quello di “essere colpevole di qualcosa”. “Bisogna che il tal dei tali si prenda le sue responsabilità” intima il polemista di turno, come dire: il bricconcello ne ha fatta una delle sue, lo riconosca in pubblico…
Tanto si sa che nessuno riconosce mai nulla di quanto abbia fatto o non fatto. E che più uno ha responsabilità, meno se le prende. E chissà che questa idea che ogni tanto salta in mente a qualche politico d’oltre Manica o d’oltre oceano, di dimettersi per via di qualche marachella compiuta, non abbia a che fare con quello strano connubio esistente nella lingua anglosassone tra “leadership” e “to take one’s responsability”. Si sa che la lingua registra abbastanza fedelmente le propensioni vigenti in una certa koinè culturale.
Insomma, Harper si è dimesso per non essere stato abbastanza coerente e rigoroso con se medesimo.
In Italia non se ne parla, di questo Harper e delle sue gesta: dove sta la notizia? Giustamente: con tutte le altre cose di cui abbiamo di che occuparci. Lasciamo a quei fanciulloni, dilettanti dell’amministrazione della cosa pubblica, l’esercizio del dimettersi. Evidentemente non sono professionisti: probabilmente lo fanno per gioco.
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