Il 26 gennaio 2022 truppe speciali israeliane, appoggiate da decine di mezzi blindati ed enormi ruspe corazzate, sono penetrate nel campo profughi di Jenin, nel nord del territorio palestinese, per eliminare una “cellula terroristica”. Nell’operazione sono stati uccisi 10 palestinesi e 20 sono rimasti feriti. Il giorno dopo, un giovane palestinese ha sparato di fronte a una sinagoga di Gerusalemme uccidendo sette israeliani. Si è innescata una spirale di violenza dalle conseguenze imprevedibili anche perché i fanatici di estrema destra sono oggi al governo in Israele. Gli accordi di Oslo, che prevedevano la coesistenza pacifica di uno Stato palestinese accanto a Israele, sembrano definitivamente sotterrati.

I morti palestinesi hanno smesso di fare notizia da molto tempo, soprattutto da quando gli “Accordi di Abramo” del 2020 hanno consentito a Israele di normalizzare le relazioni con Emirati Arabi Uniti e Bahrein (col tacito consenso dell’Arabia Saudita) allo scopo di consolidare un asse anti Iran. Mentre il mondo solidarizza giustamente con l’Ucraina nella sua lotta contro l’invasore russo, la cosiddetta opinione pubblica è completamente muta sulla politica coloniale di Israele che, metodicamente, costruisce nuovi insediamenti nei territori nominalmente palestinesi, erodendo settimana dopo settimana lo spazio vitale dove dovrebbe nascere uno Stato riservato alla popolazione araba. Nel 2022, durante le proteste per questo stato di cose, i palestinesi uccisi dall’esercito israeliano sono stati più di 170. Nel solo mese di gennaio 2023 hanno perso la vita 29 palestinesi, molti militanti armati ma anche ragazze, ragazzi, anziani.

Israele e i diritti umani

David Ben Gurion (1886-1973), padre fondatore e Primo ministro di Israele dal 1948 al 1953, si rese conto che governare aree popolate da arabi palestinesi avrebbe implicato il rischio di apartheid, come è poi avvenuto.

Il 1 febbraio 2022 Amnesty International ha reso pubblico un rapporto in cui si afferma esplicitamente che la politica israeliana verso i palestinesi è una forma di apartheid e rappresenta quindi una violazione dei diritti umani. Mentre il governo Bennet, allora al potere, ha definito il rapporto “falso, unilaterale e antisemita”, in passato molti Primi ministri avevano assunto posizioni diametralmente opposte. In diversi avevano denunciato il rischio che governare i palestinesi avrebbe potuto portare all’apartheid, come sostenuto da Ben Gurion nel 1967, da Itzhak Rabin nel 1976, da Ehud Barak nel 1999 e da Ehud Olmert nel 2007.

Il rapporto descrive dettagliatamente un articolato sistema di discriminazioni e di restrizioni dei diritti. Il sistema vigente include la segregazione in Cisgiordania che, tra le altre cose, è caratterizzata da due sistemi legali e amministrativi separati; uno per la popolazione palestinese e l’altro per i coloni ebrei. Il rapporto sostiene inoltre che i palestinesi non hanno libero accesso ai terreni agricoli e alle aree di pesca nella zona costiera e questo contribuisce ad esacerbare ancora di più gli effetti socio-economici del blocco israeliano della Striscia di Gaza (che di per sé è già una violazione del diritto internazionale). I governi israeliani che si sono succeduti negli anni hanno continuato a realizzare progetti infrastrutturali che rendevano evidente la loro intenzione di appropriarsi stabilmente della Cisgiordania e della parte est di Gerusalemme.

Si possono fare piccoli appunti al rapporto, ma l’evidenza dei fatti dimostra come in Cisgiordania e nella parte orientale di Gerusalemme operi un sistema di discriminazione istituzionalizzato e permanente. Amnesty International ritiene pienamente legittime le misure governative volte a garantire la sicurezza degli israeliani, ma sottolinea altresì che queste devono essere proporzionate allo scopo da raggiungere. Il rapporto mette in evidenza come molte misure discriminatorie non possono essere giustificate con ragioni di sicurezza come quando viene negato l’accesso alle cure mediche in Israele agli abitanti della Striscia di Gaza o della Cisgiordania.

Il nuovo governo

In meno di tre anni, Israele è andato cinque volte alle urne e, dopo le elezioni del 1 novembre 2022, il 29 dicembre è entrato in carica il sesto governo di Benjamin Netanyahu a capo di una coalizione con personaggi di estrema destra che, come ha scritto il Sole 24 Orerischiano di entrare in collisione con i princìpi e i valori di uno Stato multietnico come Israele”. Nell’autunno dello scorso anno la televisione pubblica israeliana Kan 11 ha messo in onda una conversazione privata di Bezael Smotrich, leader del Partito Sionista Religioso e neo ministro delle Finanze, con un uomo d’affari in cui il politico israeliano diceva: “Sono un fascista omofobo, ma sono un uomo di parola…non lapiderò i gay...”. Non possiamo quindi meravigliarci che lo Stato maggiore israeliano avesse posto il veto alla sua nomina a ministro della Difesa.

Il ministro della Sicurezza interna e capo della polizia è invece Itamar Ben-Gvir, capo del partito Otzma Yehudit (Potere ebraico), fanatico ammiratore

La tomba di Baruch Goldstein (1956-1994) autore del “Massacro di Hebron”. Al suo funerale il rabbino Dov Lior di Kiryat Arba dichiarò che Goldstein era “il più santo di tutti i martiri dell’Olocausto”.

del rabbino estremista Meir David Kahane che predicava l’espulsione di tutti i cittadini arabi da Israele. Ben-Gvir è stato definito un “suprematista ebraico” da B’Tselem, l’organizzazione israeliana per la difesa dei diritti umani nei territori palestinesi. Nell’ultimo periodo, per motivi elettorali, ha ammorbidito formalmente le sue posizioni ma, fino a poco tempo fa, nel suo salotto era appeso un grande ritratto di Baruch Goldstein, l’estremista che, nel 1994, dopo gli Accordi israelo-palestinesi di Oslo, uccise 29 musulmani palestinesi in preghiera presso la Tomba dei Patriarchi di Hebron e ne ferì altri 125. Inoltre, il neo ministro della Sicurezza interna non ha mai nascosto le sue simpatie per Ygal Amir, il fanatico che nel 1995 assassinò il Primo ministro israeliano Ytzhak Rabin, artefice degli accordi di Oslo.

Aryeh Deri, il personaggio che Netanyahu aveva nominato ministro degli Interni e della Sanità, è ancora più problematico. Nel 2000 era stato condannato a tre anni per aver intascato 155mila dollari di tangenti quando era ministro degli Interni e aveva scontato 22 mesi in prigione. Fino al 2011 non ha svolto attività pubbliche ed è stato rieletto in Parlamento nel 2013. Alle elezioni di novembre il suo partito Shas ha ottenuto 11 seggi e questo gli è valsa la designazione a ministro. Ma la Corte Suprema israeliana ha respinto la nomina perché Deri è un condannato recidivo per reati fiscali, che ha ottenuto la sospensione dell’ultima pena in cambio della promessa, non mantenuta, di ritirarsi dalla vita pubblica. Obtorto collo, il premier Netanyahu è stato costretto a farlo dimettere ma, con i suoi stretti alleati Ben-Gvir e Smotrich, sta lavorando per una riforma della giustizia che, se approvata, permetterebbe al governo di annullare le decisioni della Corte Suprema con una maggioranza semplice.

La possibilità che un governo, con fanatici estremisti di destra in posizioni chiave, possa scavalcare la Corte Suprema ha sollevato paure giustificate sulla tenuta del sistema democratico. La società civile israeliana, che crede nello Stato di diritto e non considera terroristi tutti gli arabi (gli arabi israeliani sono quasi 2 milioni e rappresentano il 21 per cento della popolazione), si è mobilitata e, per il quarto sabato consecutivo, ha riempito le piazze con decine di migliaia di manifestanti. Poiché in Israele non esiste una Costituzione formale, molti temono che il premier Netanyahu, anche lui accusato di corruzione e con il processo sospeso, sia tentato dall’usare la legge per bloccare le indagini della magistratura a suo carico. Il suo governo si troverebbe poi ad avere mano libera nel deliberare sempre nuovi insediamenti nei territori palestinesi, mettendo in atto una politica di espulsione de facto della popolazione araba. A metà gennaio 2023, la maggior parte dei giudici e dei pubblici ministeri che hanno prestato servizio negli ultimi decenni ha firmato una lettera in cui dichiarava che le ventilate riforme del sistema giudiziario avrebbero “distrutto” l’indipendenza della magistratura.

L’estrema destra israeliana

Abba Achimeir (1897-1962), attivista ebraico che condivideva le tesi di Oswald Spengler sulla decadenza della civiltà occidentale, fu un grande ammiratore dei leader autoritari in grado di guidare i nazionalismi al successo.

Per un lettore italiano è molto difficile capire come sia possibile che nello Stato ebraico operino gruppi che si richiamino esplicitamente a un’ideologia di destra fanatica. Purtroppo, nella storia del movimento sionista è sempre stata presente un’estrema destra fascista, razzista e ultracolonialista. Come ci ricorda in un suo articolo recente su Orient XXI il giornalista francese Sylvain Cypel “il caso più famoso è quello dei Brit Ha’Birionim (“L’Alleanza degli zeloti”), un gruppo che si era dissociato nel 1928 dalla Gioventù della destra sionista, ritenuta troppo moderata. Il suo leader, Abba Achimeir, giornalista di origine ebraica, teneva una rubrica settimanale sul quotidiano Doar Ha-Yom dal titolo ‘Le cronache di un fascista’. La sua organizzazione durò solo pochi anni. Animato da un esasperato razzismo anti-arabo e dalla paura del comunismo, Achimeir arrivò fino al punto di sostenere Adolf Hitler. Pur riconoscendo il violento antisemitismo del leader nazista, Hitler era prima di tutto un anticomunista, e questo era l’essenziale”.

Il già ricordato Meir David Kahane, che aveva fondato la sua Lega di Difesa Ebraica negli Stati Uniti prima di stabilirsi in Israele nel 1971, cominciò a professare un’ideologia che coniugava un misticismo etnico ebraico basato sul culto della Terra d’Israele con un brutale razzismo nei confronti degli “arabi”, di cui si auspicava l’espulsione dalla Palestina. Dopo tre tentativi falliti, Kahane riuscì a farsi eleggere deputato alla Knesset nel 1984. Ma un accordo generale in Parlamento, con l’unione di destra e sinistra, portò alla sua esclusione. Nel 1988, la Corte Suprema israeliana, dopo aver definito “razzista” il suo partito, il Kach, ne vietò la partecipazione alle elezioni. Kahane fu assassinato a New York nel 1990 e il suo movimento venne sciolto, sia negli Stati Uniti che in Israele, ma il “kahanismo, il movimento che si ispira alla sue idee, è sopravvissuto in estremisti politici come Ben-Gvir e Smotrich.

Negli ultimi anni le violenze dei coloni contro i palestinesi sono cresciute esponenzialmente e l’esercito di Tel Aviv, che teoricamente dovrebbe gestire l’ordine pubblico, ha sempre osservato una benevola neutralità. Ma ora, con i razzisti antiarabi al potere, la situazione sta diventando drammatica per la popolazione palestinese, spinta sempre più alla disperazione. Nello stesso articolo, Cypel riferisce che in una recente aggressione dei coloni israeliani nella cittadina palestinese di Hebron “le truppe hanno ovviamente attaccato i palestinesi. Ma si è notato anche un soldato israeliano che picchiava violentemente un attivista anticolonialista ebreo mentre un suo collega spiegava alle telecamere la nuova realtà che d’ora in poi avrebbe regnato nei territori occupati. ‘Ben- Gvir sistemerà le cose da queste parti. Ora sono io che faccio la legge’, ha detto”. Il soldato che ha picchiato il militante antirazzista è stato condannato a dieci giorni di prigione e il ministro della Sicurezza nazionale Ben-Gvir si è subito precipitato a visitare la famiglia dell’aggressore per portare la sua solidarietà.

Possiamo immaginare che in questo contesto i coloni, che girano sempre armati e pronti ad usare i mitra che hanno a tracolla, si sentiranno galvanizzati dal senso di impunità che comincia a penetrare la società israeliana. In passato, era successo diverse volte che i vertici militari avessero definito come “progrom” le violenze perpetrate dai coloni. Il 7 dicembre 2008, l’allora Primo ministro Ehud Olmert aveva dichiarato: “Mi vergogno del comportamento pogromista dei coloni a Hebron”. Prima di lui, il 30 luglio 2002, anche il colonnello Moshe Givati, consigliere del ministro della Sicurezza interna, aveva definito “pogrom” gli atti dei rivoltosi ebrei. Ben Gvir quindi non è il primo politico che incoraggia la violenza coloniale nei territori occupati. Tuttavia, la sua nomina a un dicastero così sensibile rappresenta il punto d’arrivo di un lungo processo che, in quarant’anni, ha visto il “kahanismo” passare da una posizione marginale all’interno della società israeliana a una legittimità riconosciuta dalla maggioranza della classe politica. E questo rappresenta una pesantissima ipoteca sul futuro dell’unica democrazia riconosciuta come tale in Medio Oriente.

E ora?

Al momento di scrivere, Netanyahu e i suoi ministri stanno mettendo a punto una strategia per fronteggiare la “minaccia alla sicurezza” di Israele. Dopo l’attacco terroristico di Alqam Khayri, un palestinese di 21 anni residente a Gerusalemme est, che ha aperto il fuoco di fronte a una sinagoga uccidendo 7 israeliani e ferendone diversi altri prima di essere abbattuto dalle forze di sicurezza, sono state arrestate 42 persone, parenti o amici dell’attentatore. Il premier Netanyahu ha annunciato una risposta “forte, rapida e precisa” che include la distruzione delle case e la cancellazione di welfare e prestazioni sanitarie alle famiglie di quanti siano coinvolti in attentati. Il Consiglio dei ministri esaminerà inoltre un disegno di legge per revocare la cittadinanza dei familiari dei terroristi e il loro trasferimento automatico nei territori palestinesi, una misura in contrasto con qualunque legge vigente nei Paesi democratici. È stato inoltre annunciato un aumento del numero di soldati presenti in Cisgiordania.

Un’altra proposta è quella di accelerare e semplificare il processo per ottenere il porto d’armi per i cittadini israeliani di religione ebraica. La minoranza

La radicalizzazione degli scontri e la filosofia stessa dell’attuale governo israeliano segnano la fine dell’idea dei “due Stati” in Palestina. Nella foto Ytzhak Rabin e Yasser Arafat ricevuti alla Casa Bianca dal presidente Bill Clinton dopo la firma degli accordi di Oslo il 13 settembre 1993.

araba, invece, non avrà nessuna facilitazione. Parlando all’esterno di un ospedale di Gerusalemme, il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha dichiarato che “quando i civili hanno armi, possono difendersi”. I sostenitori dei mezzi forti contro il terrorismo accoglieranno con gioia questa decisione, anche se l’esperienza degli Stati Uniti dimostra chiaramente che una maggiore circolazione di armi non fa che incrementare sparatorie e morti, soprattutto in una situazione fortemente radicalizzata come è quella di Israele. Se questa proposta passerà, esiste il rischio concreto di un aumento esponenziale di sparatorie che colpiranno sia gli arabi israeliani che i palestinesi nei territori occupati. Con un capo come Ben-Gvir, ogni cittadino arabo saprà che non potrà più fare affidamento sulla polizia e sarà quindi spinto verso un frustrazione rabbiosa, oppure inizierà a simpatizzare con gli estremisti della jihad che predicano la distruzione dello Stato ebraico.

Mentre l’attenzione del mondo è tutta rivolta al drammatico conflitto in Ucraina, c’è il rischio concreto che gli estremisti oggi al potere a Tel Aviv, siano tentati di dare una spallata finale e risolvere una volta per tutte la contraddizione di uno Stato nato per ospitare gli ebrei fuggiti dalle persecuzione antisemite e, dopo la Seconda guerra mondiale, dalla Shoah, che si ritrova al proprio interno una corposa minoranza di arabi. Diventa sempre più chiaro che gli accordi di Oslo che prevedevano la nascita di uno Stato Palestinese indipendente ed economicamente vitale sono ormai falliti. Gli Stati Uniti sono molto polarizzati al proprio interno e completamente assorbiti dal confronto con Putin per l’invasione dell’Ucraina e quindi non sembrano intenzionati a fare grandi pressioni su Israele perché si torni al tavolo dei negoziati. Si preparano tempi molto cupi per i palestinesi e c’è il forte timore che l’unica pace che si affermerà nell’area sarà la pace dei sepolcri.

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