La recente opera di Andrea Dall’Asta S.J. ( “La Croce e il Volto. Percorsi tra arte, cinema e teologia” edizioni Ancora, 238 pagine illustrate, 30,00 euro) indaga i modi in cui la raffigurazione della croce si è posta nelle diverse epoche come termine di confronto e metro di una bellezza che sorge dalla verità dell’essere, inteso quale relazione, non quale paga soddisfazione di chi galleggia nei flussi e riflussi modaioli.
Il volume di Dall’Asta restituisce una vera e propria “estetica della Croce”, una disamina che si snoda attraverso i secoli e che non dimentica le tappe artistiche più significative contemporanee, per mostrare come la raffigurazione del Cristo Crocifisso, vista nell’analisi più immediata e al contempo più profonda, sia in realtà una ricerca. Si tratta della ricerca del volto di Dio. L’artista cerca il “vero” volto di Dio, e nel cercarlo lo raffigura adeguandosi ai canoni della sua epoca. Da una parte vi è la bellezza di Dio, e dall’altra vi è l’atrocità della Croce. Da una parte vi è la gloria di Dio, e dall’altra la sofferenza del Cristo morto in Croce.
Dall’antichità al Rinascimento
Nel primo capitolo, intitolato “La Croce. La morte di un uomo” l’analisi di Dall’Asta parte da tre concetti chiave per comprendere la storia dell’estetica teologica: l’“invisibile”, il “visibile”, il “corpo”. Il Cristo sulla Croce non è il solo modo in cui l’uomo raffigura Cristo nel corso dei secoli, ma è la Croce il simbolo del nostro essere credenti e quindi è la crocifissione di Gesù la rappresentazione che nel corso dei secoli abbiamo sempre indagato, come uomini e come cristiani. All’Asta parla delle forme della sofferenza fisica, delle conseguenze delle crocifissioni sui corpi, di come la preoccupazione dei primi cristiani non sia l’attenzione ai dettagli legati alla passione quanto, invece, “l’annuncio di Cristo morto e risorto” (p. 14). La Croce di Cristo è follia per la razionalità greca ed è scandalo per il mondo giudaico. Importante per capirne il senso sono il momento dell’Ultima Cena, e gli annunci della Passione. “La croce è (…) un simbolo che parla di amore e di violenza, di vita e di morte, di perdizione e di redenzione, del senso più profondo del destino dell’uomo. Di orrore e di bellezza. Di risurrezione. Questa morte sarà messa in scena, interpretata di volta in volta, secondo le diverse prospettive teologiche, in una ricerca di senso, che continua ancora oggi” (p. 20).
Nel secondo capitolo, Dal Simbolo a un Corpo: il Christus Triumphans, Dall’Asta prende in esame la tradizione iconografica dei primi secoli che privilegia le rappresentazioni di Cristo glorioso, “vincitore della morte”. Dal tredicesimo secolo questa “gloriosità” del Cristo lascerà il posto all’aspetto della sofferenza, del dolore, passando così a un Cristo che è “patiens”. Da Platone ad Aristotele ad Agostino, e quindi dalla “bellezza greca” alla “via agostiniana”, il percorso estetologico conduce a un punto di arrivo, che a sua volta diviene punto di partenza per l’indagine delle epoche successive – dall’Alto Medioevo in avanti: dall’invisibile al visibile, la bellezza proviene dall’Assoluto. E, per i cristiani: la bellezza di Dio “si esprime soprattutto attraverso colui che ne rivela la forma: Cristo” (p. 30). La Croce è gloria, è vittoria: una storia di dolore ma di salvezza. L’analisi dell’Autore porta a comprendere come sia difficile e non immediato il processo che porta l’uomo a passare dalla rappresentazione della Croce a quella del Crocifisso. È il corpo ciò che deve essere rappresentato, ed è l’umanità di Dio il significato di questo corpo. Se nei crocifissi medievali il corpo di Cristo, totalmente avvolto nella luce, si staglia isolato su un fondo oscuro e si mostra come già risorto, il mondo rinascimentale umanizza sempre di più quel corp. E questo corpo “umanizzato” diviene la prefigurazione del Cristo già risorto.
Nel quarto capitolo la “bellezza” risiede nell’orrore della Crocifissione. La bellezza è lo splendore nella kenosi. Si pensi al Deus Absconditus di Martin Lutero o di Matthias Grünewald. Si pensi, anche, alla Risurrezione di Matthias Grünewald, che evoca quanto scrive Paolo di Tarso ponendo un parallelismo tra il corpo di Cristo e il seme del chicco di grano che diventa frumento. “Tanto maggiore era l’orrore del Crocifisso, tanto più grande è ora la grazia che Dio dona all’uomo, salendo con Cristo, con un corpo glorioso” (p. 99).
L’epoca moderna
La bellezza come senso di ascesi, il dolore come via di riscatto dalla schiavitù dell’errore. Se nella cultura classica l’estetica si fonda su canoni di perfezine apollinea, col cristianesimo la croce, strumento di obbrobriosa tortura, di morte infamante diviene medizione tra un’umanità ferita e la Grazia divina. Così dai primi secoli sino all’epoca moderna il racconto evangelico è ispiratore delle maggiori opere artistiche, che ambiscono esprimere l’ascesi spirituale.
Ma con la modernità ecco presentarsi un nuovo distacco.
Un ritorno all’Ade: l’oltretomba ove si entrava e si vagava in un crepuscolo senza fine, percossi da un destino ineludibile di pena. Non c’era speranza nell’aldilà pagano, dove l’ingiustizia restava cristallizzata in una vendetta inevitabile e la colpa era quella di non essere dèi né loro figli. Il mondo pagano e le sue tragedie protratte di generazione in generazione, come nella sequela infinita di colpe che ricadono sui figli senza mai remissione nella tragedia greca: Elena, Agamennone, Clitemnestra, Elettra, Oreste…
Se il ciclo della violenza pagana era stato interrotto dalla riconciliazione cristiana, nel Novecento l’arte registra l’avvenuto regresso: la nuova separazione frappostasi tra l’uomo e Dio. Il frutto dell’orgoglio e della ribellione è còlto nuovamente, e nella modernità lo si consuma con devota metodicità. “Per tanti anni – scrive Dall’Asta – Dio e l’uomo hanno percorso assieme il medesimo percorso. Ricercare se stessi è affidarsi a un altro, direbbe Agostino…”. Ma con la “morte di Dio” annunciata da Nietzsche a coronamento del lungo percorso di autocontemplazione cominciato col razionalistico “cogito ergo sum” di Cartesio, la ricerca dell’identità rifiuta l’alterità, lascia l’ancoraggio spirituale, abbandona il confronto. E si perde nella questione ontologica, divenuta irresolvibile. Il dialogo che si era fondato sulla buona novella, sulla speranza della risurrezione, sulla contemplazione della perfezione divina, sul godimento del perdono donato dal Padre attraverso il sacrificio del Figlio, diviene monologo. Dalla visione di un paradiso futuro si ripiomba nelle tenebre delle colpe senza espiazione che si cumulano nell’animo. Come sostiene Dall’Asta, la ricerca a questo punto si compie nella soliturdine, col rischio di perdersi come era accaduto a Narciso che, incapace di amare veramente (e conoscere) se stesso nel dialogo con l’altro, ama solo l’effimera vacuità della propria immagine.
Ed ecco che nella disperazione fioriscono le manifestazioni di sofferenza senza senso: e risuona l’urlo di disperazione esistenziale di Munch. I corpi sfigurati ritratti da Picasso in Les Demoiselles d’Avignon sono prodromi dello strazio manifestato dai tanti esponenti di una body-art in performance quali quelle di Stelarc, Gina Pane, Ron Athey, espressioni che divengono autolesioniste com’è autolesionista l’adolescente che esita alle soglie della vita adulta e, intrappolato nel senso di colpa, si rifugia nell’autopunizione.
In tale contesto la bellezza del sacrificio donato da Cristo a vantaggio della salvezza dell’uomo, diviene insensata sofferenza di vite “gettate”, secondo l’espressione cara a Heidegger, in un’esistenza dove la bellezza, ridotta a puro estetismo esteriore, a pulsione effimera, va verso una morte senza più redenzione.
Là dove il sacrificio cristianamente inteso recava il segno della luce della salvezza, quello privo di scopo è tanto sgraziato quanto insensato. Siamo nel secolo delle grandi guerre, delle persecuzioni, dei genocidi, ma anche della spersonalizzazione dei movimenti di massa, dell’uomo “a una dimensione” ridotto a funzione, del leviatano che intrappola l’individuo in spire kafkiane.
In questo magma che pervade culture e società, tuttavia, proprio la riflessione sui grandi drammi collettivi può riavvicinare anche all’essenza del messaggio cristiano.
Emblematica è la figura della Crocifissione bianca di Marc Chagall. Sullo sfondo dei drammi aggrumatisi nel secolo breve, nel sommarsi di movimenti ideologici, di spersonalizzazione, di persecuzione, di guerra e genocidio… il Cristo sofferente sulla croce è l’ebreo perseguitato – e in sé riassume il legato di tutti i popoli del Libro, e dell’umanità intera che è vittima dell’iniquità terrena. Ma è anche illuminato da un raggio di sovrana pietà che traluce nell’espressione di pace che gli si dispiega sul volto e lo conferma Figlio di Dio, accolto nella sua Grazia. E la corona di spine si confonde con l’aureola della santità mentre la sua umanità è vivificata proprio dal suo essere uno come tutti noi. Un segno di riconciliazione, ben riconosciuto da Chagall che spiega: “era uno dei nostri rabbini più amorevoli e soccorreva sempre bisognosi e perseguitati… è l’archetipo del martire ebreo di tutti i tempi”.
Ma l’arte del Novecento non è solo intrisa di rifiuto e di disperazione. Ritrova la speranza, e la ritrova proprio nel segno della croce, là ove questa è riconosciuta come via di salvezza, anche al di là della confessione religiosa. Attraverso la condivisione.
Lo ripete Dall’Asta a conclusione della rievocazione del film “Rosetta” dei fratelli Dardenne. Il dramma della ragazza che vive nell’emaginazione, in roulotte scompaginate, sfibrata tra misere ambizioni che la spingono al tradimento e la disperazione che le fa desiderare il suicidio, si risolve grazie alla scoperta dell’altro che, malgrado tutto, la aiuta: “Tutti siamo chiamati a un’assunzione di responsabilità verso gli altri. È questa la bellezza della croce”. Una bellezza che sa rivelarsi e vivere pur nelle iniquità più crude.
Ecco che se l’esteriorità superficiale può trovare facile espressione anche in raffigurazioni sacre melensi e di maniera, che sembrano porsi quali contrappunto apollineo a fronte degli aspetti dionisiaci dell’arte contemporanea volta alla disgregazione dell’essere, la verità che redime può essere recuperata solo nelle espressioni artistiche che, lungi dall’evitare la realtà delle tante sofferenze, la assume come figura del Christus patiens. Persona che sa condividere e compatire, in questo indicando la via della resurrezione. Conclude Dall’Asta: “Di fronte alle sterili immagini estetizzanti e vuote di tante rappresentazioni ‘sacre’ contemporanee, il Christus patiens può aprire la strada a una riflessione sulla Bellezza che non sia solo superficie”.
(Michela Beatrice Ferri e Leonardo Servadio)
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