Una lettura di Renato Banchi, Tra là, là, Poesie, Lecce, 2022
di Paolo L. Bernardini
Vel quia sum vates, vel quia sacra cano… (Ovidio, Fasti, VI, 8)
Scrivere sull’opera di un compagno di strada – sia pure poche, occasionali righe – è sempre compito arduo. Diverso quando la distanza temporale impone una prospettiva; come quando scrivo di Maestri, purtroppo sempre più spesso in occasione della loro scomparsa, o scrivo di allievi, e per allievi: ovvero per una o due generazioni passate, e almeno una futura.
Con Renato percorriamo da oltre mezzo secolo sentieri paralleli.
Iniziati nelle aule austere del Liceo D’Oria nel cruento 1977 – in questa icona genovese, mediterranea, vivaio di intelletti e fomite di drammi – e poi proseguiti non più nella Genova “novella” del novissimo quartiere della Foce – tra marmi e scaloni imperiali degli emuli del Piacentini – ma nella gloriosa e decantata e decadente Via Balbi principesca, nelle aule umide e basse di palazzi secenteschi – uno solo dei quali (ma al numero 5, a Diritto, provvidenzialmente lontano da noi, “dall’altra parte della Strada”) – destinato ab origine a luogo di sapere. Tutto (ci) suonava trionfale, in un passaggio non senza tormenti da un liceo classico ad una facoltà di lettere, da una Piazza della Vittoria (en faute de mieux!), ad una via dedicata ad una delle più illustri famiglie genovesi, quella che ha reso armonica e disciplinata Sestri Levante, tanto quando, feudo dei Fieschi, è allegramente anarchica la contigua Lavagna. E ne parlo, di questi luoghi, sia perché recluso a Moneglia vergo queste righe, sia perché Renato proviene dalla Riviera “altra”, e singolarmente ha tradito (non nel cuore) il Ponente originario con un Levante asperrimo, quell’entroterra di Recco idealmente separato dal mare dai ponti sospesi dell’autostrada, e da secolari inimicizie con la patria – tra leccornie e sport acquatici – degli scopritori delle Canarie e apripista dell’Impero spagnolo.
Addestratosi per decenni al mondo dell’Oriente, mediato dall’Occidente di Jung, all’insegna di Hui Neng – la cui mummia restaurata dopo le devastazioni comuniste, durante la Rivoluzione Culturale, in nome evidentemente di una “cultura” diversa, ancora si può ammirare a Guangdong – Renato Banchi non ha mai abbandonato il mondo della poesia; mentre si dedica alla cura della psiche umana tra Oriente e Occidente, all’agricoltura, al territorio, al sapere teorico e pratico che ben coniuga filosofie orientali con antiche pratiche ligustiche, Renato Banchi scrive ancora. E giova dunque, per comprenderne lo spirito (e non solo lo “stile”, memori del nostro Nietzsche, “lo stile è l’uomo”), fare un viaggio à rebours nel secolo scorso, oltre trentacinque anni fa (quasi un’eternità, e tutto quel che ha trasformato il mondo da allora, dal 1985, rende davvero questo lasso di tempo, quasi la speranza di vita di un individuo nel XVII secolo, per fare un esempio, un’eternità vera e propria), quando Renato pubblicava le sue prime poesie.
Lo faceva, con colui che scrive queste righe (e in allegra e sceltissima compagnia), a poco più di vent’anni, nel nobile alveo poetico, quasi un alveare, anzi, dell’editore San Marco dei Giustiniani, altra icona genovese, in un volume antologico: L’Antologia dei Poeti dell’Erbaspada.
L’Erbaspada è stata una rivista uscita dal 1984 al 1986, otto fascicoli in tutto, che riuniva alcuni studenti legati, come me e Renato, da amicizie risalenti al Liceo, e non solo. Allora – in qualche modo non tòcchi dalle prove della vita – la poesia viveva di quelle forze sorgive e malinconiche, d’una malinconia invero un po’ di maniera – viveva degli amori e dell’Amore “ideale”, in un crogiuolo di passioni realizzate o negate, mentre quel mondo “classico” affrontava la nuova ennesima “querelle des anciens et des moderns” da cui doveva uscirne distrutto, come pian piano si elidevano le roccaforti ideologiche ancor vive tra 1977, quando entrammo al Liceo, nel 1982 quando entrammo all’università, e tra 1987-1990, quando – scaglionati – uscimmo “laureati” dalla strada dei Balbi, ognuno intento a costruirsi un futuro quando ancora (occorre dirlo, per onestà intellettuale) molte vie erano aperte (assai più – purtroppo – di ora, nonostante il mondo sia diventato globale, e ogni confine sembri, fatto salvo per pause dolorose come quella che stiamo ora vivendo, spalancato e quasi inesistente).
Francesco Denini, un musicista e critico musicale come molti allora cresciuto con la teoria critica di Adorno e Horkheimer – di cui poi alla fine ci piaceva solo quell’aspetto da “Hotel Abisso”, l’assoluto pessimismo e la radicale critica alla società “borghese” quando ancora esisteva, su cui ironizzò, stigmatizzandolo, Lukács – scrisse la prefazione all’antologia.
Renato Banchi venne inquadrato, con mirabile intuizione, in un “caos della contingenza” in cui, trentacinque anni dopo, si barcamena, felicemente, ancora. Denini riportava una delle poesie presenti nel volume, che giova ricordare anche qui:
Fu per un’impazzita filologia
che mi trovai a pensare che ‘hapax’
volesse dire ‘senza pace’
e per questo il mio amore fu tale;
poi rinchiusi il quaderno senza follia
e pensai che, forse, teorema discende da
Dio.
Il commento che seguiva coglie l’essenza di questa poesia (ma soprattutto, della sua poetica) ancora oggi:
Disordinato e volutamente scomposto, il modo delle poesie di Renato Banchi si fa programma del suo rifiuto di ogni labor limae. La parola sgorga da un luogo che non tollera ritorni, né d’altra parte la ragione che lo vaglia sembra capace d’alcuna sua mimesi o sistemazione. I suoi momenti culminanti giungono alla voce come lapsus, accolti quali agnizioni da un ragionare consapevole della loro verità. Perciò il verso ‘spettinato’ ha più da dire, e il pensiero che si abbandona ai suoi luoghi comuni nutre più di ogni affamante intelligenza. La poesia è un hapax, che, come il motto di spirito, non è affatto il più insigne prodotto dell’intelligenza del soggetto pensante, quanto il procedere di una sua apertura in esso verso l’altro. Intelligente, se mai, è l’accettazione di questa faglia, il lasciapassare che il soggetto gli concede. Ma con la verità non è possibile un rapporto senza resti, una totale identificazione, ed è per questo che il poeta, o almeno questo poeta, è rigettato nel caos della contingenza.
Questa è ancora la cifra per comprendere la poesia di Renato Banchi, come si presenta in questo volume. Solo che vi è stato un “frattempo”, e l’astrazione dei “classici”, il loro presentare la vita bella e pronta e vissuta come un prêt-à-porter da indossare (e dismettere) quando si voglia, è divenuta esperienza di vita reale; tutto il grande apparato di mediazione e filtraggio (quasi come per l’olio e il vino) nel nostro contatto con la “vita” allora – da Nietzsche ai grandi romantici tedeschi, soprattutto Hölderlin – è stato spazzato via, per dir così, dalla vita stessa. Nella sua dolorosa fatticità, che seppellisce la poesia romantica tra i frantumi dell’esistere, sotto cumuli di rovine, come ci direbbe bene il Vico.
Resta il verso “spettinato” e scomposto, lo stile da “colloquio”, solo apparentemente semplice, e il giuoco con i sentimenti diventa giuoco con la realtà, perennemente in perdita non per eccesso di energie vitali, come a vent’anni, ma per il suo lento, progressivo, sfaldarsi. E dunque se pessimismo e disincanto vi sono, sono di una cifra infinitamente meno astratta. L’Oriente e i suoi “profumi” si sono fatti molto più reali di quanto non fosse ai tempi in cui la loro conoscenza era mediata dalle passioni per il sanscrito di un Federico Schlegel, o dall’orientalismo nefasto di un Arturo Schopenhauer: l’Oriente è divenuto dimensioni di vita, non di chimerica proiezione, di voli della fantasia. Una prima, fondamentale tappa della vita – allora solo temuta, o idealizzata, o neutralizzata proprio coi versi, nemici di ogni passione reale – si è realizzata:
Ho scalato la mia montagna
Alle spalle copioso sudore
Sembrava irraggiungibile
Ora ho la vita davanti.
E la seconda sezione è un omaggio all’altra “anima” di Renato Banchi, presente già pienamente nelle poesie del 1985: l’Occidente. Che è propriamente ancor più vitale e salvifico di un Oriente pur assimilato (e che ricorre assai spesso in mezzo ad un Occidente che alla fine perde ogni contorno), pur meditato, pur – per tanti aspetti – abbondantemente macinato nel mulino dell’esistere. La vita che si rinnova, la seconda figlia, che porta quel nome magico di “Sofia” che indica il sapere, ed i saperi, qualunque siano (anche il saper di non saper nulla, ad esempio).
A Sofia
Avevo blindato il mio cuore
Per troppa paura d’amare
Ma tu, scatenata, oggi mi mostri
Quanto sai essere forte e, a tutti i costi,
Libera, qui.
Non posso che amarti
E insieme a te imparare,
Di nuovo, a piangere.
Se fossi un “critico” – la qual cosa non sono, né ho ben chiaro che cosa sia – infilerei il Banchi tra i banchi della poesia ligustica, cui senz’altro appartiene. Quanto Oriente nei giardini di Levante, e soprattutto in quelli di Ponente da cui Renato proviene! La “ligusticità” che richiamò qui anche Nietzsche, e diversi suoi allievi magari pronti a cantare Sant’Ilario come Felix Hausdorf, o il dolce deliquio mediterraneo come Paul Lanzky, il tutto poi rivisto in salsa “autentica” dal Montale che non può non signoreggiare (in tutto il suo proverbiale understatement), tra questi versi e questi colli e questi fiori e questi panorami, nel 2020 come nel 1985. Dio – che ritorna così spesso nei versi – è qui divinità quasi come un lare, nei focolari di campagna, di campagna ma appunto sopra il “mare” montaliano, con i sempiterni penduli stocchi d’erbaspada, da sempre caduchi e mai caduti: e in questo crepuscolo che non si compie, così ligure, alla fin fine, è da leggersi – per me – la poesia di Renato Banchi. Ma tutto si tiene, non esistono poi fratture mortali – che non siano quelle di una Vita – a distanza di decenni. E allora, finalmente, val la pena di riportare i versi “spettinati” di allora, che gettano una luce obliqua, ma in qualche modo vera, su una poetica di margini, riflessi, scampoli, e attese, che seppur in gran parte colmate, “riempite”, vi saranno, in Renato Banchi, per fortuna, sempre:
Piccole fiaccole salgono al monte
La sera della morte e recano
Messaggi a chi non li può udire.
Alla luce degli occhi bassi
Strusciamo un fiore
Ci affascinano (sempre)
Le righe sulla carta…
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