Dal 1 settembre 2021 tutte le navi, sia militari che commerciali, dovranno comunicare alle autorità marittime di Pechino porto di destinazione e rotta ogni volta che solcheranno il Mar cinese meridionale, in acque rivendicate dal gigante asiatico ma che sono, a tutti gli effetti, acque internazionali. Si crea così una situazione di grave tensione che potrebbe portare a incidenti seri, vista la grande importanza strategica e commerciale di quel tratto di mare, su cui si affacciano molti Paesi, ognuno con le proprie rivendicazioni. La Cina ha fatto una mossa molto aggressiva che rischia però di coalizzare contro di lei tutte le nazioni dell’area, molto preoccupate dallo strapotere del dragone.
Il Global Times, quotidiano in mandarino e inglese che fa capo all’ala più nazionalista del Partito comunista cinese, ha riportato con evidenza la notizia, specificando che la guardia costiera ha ora “il potere di cacciare o respingere una nave…nel caso ponesse una minaccia alla sicurezza nazionale della Cina”. Pechino, che possiede la più grande guardia costiera del mondo, intende sfruttare la propria superiorità per intimidire e intralciare la libera navigazione e le attività degli altri Paesi che si affacciano sullo stesso mare. Da tempo la Cina usa le maniere forti in quell’area, come è avvenuto all’inizio di aprile del 2020, quando un’unità della propria guardia costiera ha speronato e affondato una nave da pesca vietnamita, in prossimità delle isole Paracel, rivendicate da entrambi i Paesi. Poi è stata la volta della Malesia, che si è visto sabotato un suo progetto di esplorazione petrolifera al largo della costa del Borneo, su cui si è diretta una nave cinese per le prospezioni petrolifere, spalleggiata dalla marina militare e dalla guardia costiera. Per non parlare della flotta peschereccia filippina che si vede costantemente intimidita dalla presenza navale cinese.
La politica annessionistica di Pechino
La decisione delle autorità marittime cinesi di ufficializzare il proprio diritto a controlli in una zona di acque internazionali è un segnale di sfida alla comunità mondiale e una violazione di tutte le convenzioni che regolano la navigazione sui mari. Il fatto è che la Cina considera la maggior parte del Mar cinese meridionale come parte integrante del proprio territorio e questa strategia è una componente fondamentale del “Sogno cinese” del presidente Xi Jinping. Al centro delle controversie ci sono due arcipelaghi: le isole Paracel, rivendicate per intero da Cina, Vietnam e Taiwan e le isole Spratly, rivendicate in tutto o in parte da Cina, Taiwan, Vietnam, Filippine, Brunei e Malaysia. Le pretese cinesi si basano su una “linea a nove tratti” (vedi cartina qui sotto), elaborata inizialmente dal governo nazionalista nel 1947 e che include la quasi totalità del Mar cinese meridionale, a centinaia di miglia dalla Cina continentale.
Quest’area ha una rilevanza cruciale per Pechino non solo perché da qui transitano i suoi commerci per Medio Oriente, Europa e il resto dell’Asia, ma anche perché questa via d’acqua, che rappresenta il principale accesso all’Oceano pacifico, è al centro della strategia di deterrenza nucleare cinese, affidata ai sottomarini nucleari che hanno il compito di lanciare una rappresaglia in caso di attacco nemico. Un terzo elemento è che il Mar cinese meridionale viene visto come un retroterra strategico, da cui le forze armate possono mettere in atto strategie “anti-invasione”, come osservava qualche anno fa il contrammiraglio Luo Yuan, insegnante presso l’Accademia delle scienze militari dell’Esercito popolare cinese e noto commentatore nazionalista di questioni strategiche. (Per capire il tipo, basta ricordare un suo discorso a Shenzen nel dicembre del 2018 dove, a quanto riportato dal sito National Interest, ha affermato: “Adesso abbiamo i missili Dong-Feng-21D e Dong Feng-26. Questi sono killer di portaerei. Attacchiamo e affondiamo una delle loro portaerei. Infliggiamo loro cinquemila perdite umane. Attacchiamo e affondiamo due portaerei, diecimila perdite. Vediamo se gli Stati Uniti hanno paura o no?).
Ma oltre all’aspetto militare, il Mar cinese meridionale riveste un ruolo cruciale per il successo di un progetto di sviluppo economico denominato “China’s Greater Bay Area”, all’interno del quale è inserita Hong Kong. Un segnale ulteriore della politica annessionistica di Pechino è stato dato nel 2012, quando Sansha City, il centro amministrativo che si occupa di tutte le aree rivendicate dai cinesi negli arcipelaghi Paracel e Spratly è stato portato da circoscrizione al livello di prefettura. Il governo ha anche stanziato fondi per alloggiare in strutture moderne la piccola comunità di pescatori cinesi che vive lì, ha costruito una scuola elementare, un ospedale, una banca e ha attivato un sistema per la telefonia mobile. Per sottolineare ulteriormente l’appartenenza dell’area alla Cina, sono state organizzate visite turistiche e sono iniziate crociere che toccano tutte le isole.
Se si possono capire le preoccupazioni di sicurezza di un Paese che, a metà dell’Ottocento, subì sconfitte umilianti durante le “guerre dell’oppio” o la brutale aggressione giapponese contro la Manciuria nel 1931, è inaccettabile che questi obbiettivi vengano perseguiti in totale spregio della legge internazionale. La Cina ha infatti portato silenziosamente avanti una costante politica di militarizzazione dell’area, impossessandosi di isolette e atolli disabitati e trasformandoli in basi militari sia nell’arcipelago delle Paracel (in particolare Woody Island) che in quello delle Spratly (Fiery Cross, Subi e Mischief Reef sono i casi più emblematici). Con grandi colate di cemento Pechino ha trasformato piccoli isolotti disabitati in basi militari, sono stati costruiti piccoli aeroporti, moli che consentono l’attracco delle navi, centri radar che controllano l’area e ammoniscono tutti gli aerei e le navi che incrociano in zona ad allontanarsi immediatamente, se non vogliono incorrere in una ritorsione. Ma il problema vero per la Cina è che le sue rivendicazioni sono pretestuose e storicamente infondate, come è stato dimostrato nel 2016 dal contenzioso con le Filippine che avevano richiesto un arbitrato internazionale dopo che la marina cinese aveva preso il controllo di Scarborough Shoal, al largo dell’isola filippina di Luzon. Il tribunale internazionale dell’Aja ha deliberato che “non ci sono basi legali per cui la Cina possa rivendicare diritti storici su risorse nell’area marina”.
Finora, la diplomazia di Pechino è stata abilissima nel far passare la linea della sovranità
cinese su molte aree con argomentazioni che, a un’attenta analisi, non poggiano su solide ragioni storiche. Oggi tutti danno per scontato che Taiwan verrà presto riunita alla madrepatria, con le buone o le cattive (soprattutto dopo il disastroso ritiro americano dall’Afghanistan). Le autorità di Taipei fanno però notare che, per quanto riguarda Taiwan, le rivendicazioni cinesi si rifanno alla dominazione esercitata sull’isola dalla dinastia Qing (1636-1912) per circa 200 anni. Ma non viene ricordato il fatto che, con il Trattato di Shimonoseki del 1895, al termine della Prima guerra sino-giapponese, la Cina cedette al Giappone la sovranità su Taiwan, la penisola di Liaodong e le isole Pescadores. Nel 1951, con il Trattato di San Francisco, il Giappone rinunciò alla sua sovranità su Taiwan, senza però restituirla alla Cina. Questo significa che Taiwan è legalmente indipendente da settant’anni e non ha nessuna intenzione di tornare sotto il dominio cinese e fare la fine di Hong Kong dove, in spregio al vuoto slogan “un Paese, due sistemi”, Pechino ha incarcerato gli oppositori democratici, chiuso i giornali indipendenti e vietato ogni forma di critica al governo centrale comunista. A voler seguire criteri storici rigorosi, dovremmo dedurre che il controllo del Partito comunista cinese su molte aree come il Tibet, il Turkestan orientale, la Mongolia meridionale e la Manciuria ha basi molto fragili. Pechino argomenta che quei territori facevano parte dell’Impero della dinastia Yuan e questo è sicuramente vero. La dinastia Yuan è naturalmente quella fondata dal mongolo Gengis Khan, che conquistò non solo la Cina, come pure gran parte dell’Asia, ma le cui truppe si spinsero a lambire Vienna e Budapest. Fino a dove intende arrivare Pechino quando rivendica territori soggiogati da Gengis Khan?
Le reazioni all’espansionismo cinese
L’ufficializzazione del controllo di Pechino sul Mar cinese meridionale ha ovviamente scatenato commenti e proteste. Il ministro della Difesa filippino Delfin Lorenzana ha dichiarato alla rete televisiva CNN: “Sono molto preoccupato di questa nuova legge perché potrebbe causare errori di valutazione e incidenti”. Parlando con la ABC News, Michael Shoebridge, ex vicedirettore dell’Australian Defence Intelligence Organization, ha dichiarato che “il vero problema è che i singoli comandanti cinesi a bordo delle navi e degli aerei possono ritenere di fare esattamente quello che Xi Jinping vuole, provocando scontri e favorendo l’aumento delle tensioni”. Durante una conversazione con la stessa emittente, l’ammiraglio in pensione Harry B. Harris, ex comandante della flotta americana del Pacifico, ha sostenuto che è fondamentale che “si faccia tutto il possibile per impedire un aumento delle tensioni e una guerra vera e propria con la Repubblica popolare cinese”. L’ammiraglio ha proseguito affermando che nessuno vuole la guerra, né i cinesi né, tantomeno, gli americani, “ma dobbiamo stare in allerta per il comportamento aggressivo cinese, sia nel campo militare che in quello economico”.
Da anni la marina statunitense conduce manovre nel Mar cinese meridionale, da sola o in collaborazione con altri stati costieri, per ribadire il diritto di navigazione di quelle acque. Un passo in avanti per controbilanciare la presenza cinese è rappresentato dal fatto che il presidente filippino Duterte, un personaggio autoritario e molto debole nei confronti della Cina, abbia accettato di ridiscutere la possibilità di stanziare nuovamente truppe americane sul suo territorio. Anche l’Indonesia, che riveste un ruolo importante nel movimento dei Paesi non allineati, ha firmato un accordo con gli Stati Uniti per costruire una base della guardia costiera nell’isola di Batam, collocata in una posizione strategica. All’inizio di settembre, anche l’Australia ha firmato un accordo con Giacarta per un addestramento militare congiunto tra i due eserciti e la possibilità per i cadetti indonesiani di frequentare le accademie australiane.
Ma la risposta più vigorosa è arrivata il 15 settembre 2021, quando il presidente Biden ha annunciato un accordo trilaterale tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia per una nuova alleanza militare destinata a rafforzare la presenza occidentale nel Pacifico. Nell’ambito di questo accordo, gli americani e i britannici si sono impegnati a fornire all’Australia la tecnologia necessaria per costruire otto sottomarini nucleari, armati con missili da crociera. Questa decisione consentirà all’Australia una notevole proiezione nel Pacifico che le permetterà di controbilanciare l’espansione marittima cinese. Nell’accordo sottoscritto dai tre Paesi la Cina non viene mai nominata, ma è chiaro quale sia l’obiettivo di questo progetto. Come c’era da aspettarsi, il portavoce del ministero degli Esteri cinese ha parlato di “una prova di mentalità da guerra fredda, una mossa estremamente irresponsabile che mina la pace regionale e spinge la corsa alle armi”. Questo nuovo accordo, che rappresenta un messaggio molto chiaro rivolto a Xi Jinping, ha però fatto infuriare la Francia che si è vista annullare una ricca commessa di 12 sottomarini a propulsione diesel fatta dalla Royal Australian Navy. È così sfumato un affare da 37 miliardi di dollari, per il Naval Group di Parigi che, con l’italiana Fincantieri, aveva costituito una joint-venture denominata Naviris.
La mossa di Biden ha una notevole rilevanza strategica ma, oggettivamente, rappresenta uno schiaffo in faccia alla Francia e a tutta l’Europa, trattata con sufficienza, come ai tempi di Trump. Tuttavia, qualcosa ha cominciato a muoversi nella farraginosa strategia europea che, sulle questioni strategiche, ha la velocità di un bradipo. Il documento ufficiale della UE sulla regione dell’Indo-Pacifico afferma che vie di rifornimento marittimo libere, aperte e sicure rappresentano un interesse vitale per quella che è la più vasta area economica del mondo. Ma oltre alle dichiarazioni di principio, nell’aprile 2021, la Francia, la Germania e l’Olanda hanno elaborato progetti per aumentare la loro presenza navale nell’Indo-Pacifico, impegnandosi a stimolare la sensibilità di altri stati europei su questo argomento. Il primo agosto 2021, il governo tedesco ha fatto un passo concreto, annunciando la partenza della fregata Bayern per una crociera di sei mesi che la porterà a solcare le acque del Mar cinese meridionale. Il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas ha spiegato la missione dichiarando che la regione Indo-Pacifico sarà cruciale per decidere l’ordine del mondo futuro, da qui deriva l’importanza di una presenza tedesca nell’area. D’altronde, bastano pochi dati per capire la rilevanza strategica di quel tratto di mare: in un anno vi transitano circa 3,5 trilioni di dollari di beni commerciali e il 40 per cento del gas liquefatto globale passa da lì. Il 16 settembre 2021 la Commissione Europea ha finalmente presentato una nuova strategia, denominata Global Gateway, per promuovere la presenza europea nell’Indo-Pacifico.
It’s the economy, stupid
Tutti gli studiosi di questioni economiche concordano sul fatto che il centro della crescita del XXI secolo sarà l’Oriente, dove la Cina si appresta a fare al parte del leone. Ma c’è un aspetto della produzione mondiale che non è stato preso adeguatamente in considerazione da un punto di vista geostrategico ed è la produzione e commercializzazione dei semiconduttori, alla base di tutti i principali dispositivi elettronici e microelettronici. Tutti i mezzi di comunicazione hanno ampiamento riportato che la ripresa post-Covid in molti settori industriali è stata molto rallentata dalla grave carenza di semiconduttori, tanto che diversi produttori di automobili hanno dovuto chiudere temporaneamente gli stabilimenti per carenze delle componenti elettroniche. Un materiale indispensabile per tutta l’elettronica avanzata, ma anche per le nuove tecnologie, è rappresentato dalle cosiddette terre rare, un gruppo di 17 elementi chimici della tavola periodica classificati come metalli. I maggiori giacimenti si trovano in Cina, che possiede circa un terzo delle riserve mondiali, Vietnam, Brasile, India, Australia, Groenlandia e Stati Uniti. La Cina è l’indiscusso leader del settore e controlla circa il 90 per cento della produzione mondiale e, oltre alla produzione domestica, ha stretto numerosi accordi con Paesi africani per l’estrazione delle terre rare.
La crisi ambientale ha ulteriormente accelerato la transizione ecologica e questo ha aumentato ancora di più la domanda di terre rare, fondamentali anche per le nuove tecnologie non inquinanti. Finora, molti Paesi hanno ritenuto conveniente non investire nell’estrazione di terre rare, la cui produzione ha un notevole impatto ambientale, preferendo acquistare il materiale prodotto in Cina, che si è avvantaggiata di leggi molto blande sulla protezione dell’ambiente. Questo però ha permesso a Pechino di crearsi una posizione monopolistica de facto, che si è rivelata nella sua dimensione profonda nel 2010, quando la Cina ha bloccato l’esportazione di minerali trattati verso Tokyo come ritorsione per l’arresto del un capitano di una nave cinese in acque adiacenti alle isole Senkaku, ufficialmente parte del Giappone ma rivendicate anche dalla Cina. Se consideriamo che l’80 per cento del fabbisogno statunitense di terre rare (fondamentali anche per l’industria degli armamenti) proviene dalla Cina, ci rendiamo conto di quanto sia importante l’argomento. Gli Stati Uniti hanno recentemente stretto accordi con Paesi africani come il Burundi e il Malawi, mentre la stessa Unione Europea, che importa dalla Cina il 98 per cento del suo fabbisogno, ha annunciato il proposito di diminuire la sua dipendenza da Pechino e stabilire partenariati strategici con Paesi africani.
Per le ragioni prima elencate, la Cina possiede le conoscenze più sofisticate per l’estrazione delle terre rare e ha sviluppato la più avanzata tecnologia per l’estrazione dai fondali marini di quelli che gli esperti definiscono noduli polimetallici, che contengono al loro interno notevoli quantità di terre rare. È stato appurato che i fondali del Mar cinese meridionale sono estremamente ricchi di noduli polimetallici e per poterli estrarre in grandi quantità, queste acque vanno trattate come se fossero territorio cinese, il che spiega la determinazione con cui Pechino persegue la sua politica di controllo e sfruttamento dell’area, anche a costo di confrontarsi con il resto del mondo. Sembra però volgere al termine il tempo dell’acquiescenza generale rispetto all’aggressività cinese.
Galliano Maria Speri
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