Mario Lettieri Paolo Raimondi

La banca delle banche centrali, la Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, nel suo Rapporto Economico Annuale sostiene che”il rallentamento dell’economia mondiale sta peggiorando e si sta allargando”. Questo giudizio ovviamente non farà piacere a Trump che sostiene che l’economia americana non è mai andata così bene. Il presidente, in verità, più che limitarsi a considerare solo alcuni dati statistici favorevoli, dovrebbe soffermarsi su certi preoccupanti andamenti finanziari, quali il debito delle imprese.

Non è un caso, infatti, se alcuni governatori della Federal Reserve e suoi presidenti regionali, tra cui quelli di New York e di St. Louis, abbiano chiesto che la banca centrale diminuisca il tasso di sconto.

Secondo la BRI, “la decelerazione economica è più forte di quanto si aspettasse e sta creando tremori sui mercati finanziari”. Sono 4 le ragioni identificate:1) le tensioni commerciali internazionali; 2) il rallentamento della crescita in Cina, con Pechino concentrato sulla necessità non più procrastinabile della riduzione del debito;3) le politiche restrittive della Fed che influenzano, in particolare, i paesi emergenti dipendenti dai crediti e dai finanziamenti in dollari; 4) la contrazione economica di molti paesi occidentali e anche di quelli emergenti.

Il rallentamento si colloca all’interno di alcune tendenze in atto da più lungo periodo, quali l’inflazione più bassa delle aspettative, il ruolo sempre più imprevedibile della finanza globalizzata, la bassa produttività del lavoro, combinata con salari bloccati da tempo, e l’indebolimento dell’ordine economico del libero mercato a seguito delle misure protezionistiche.

La preoccupazione della BRI, tuttavia, riguarda la crescita del debito, in particolare quello privato. La vulnerabilità maggiore è rappresentata dal “surriscaldamento del settore corporate, quello delle imprese, in molte economie avanzate”. Il mercato dei leveraged loan, cioè dei crediti concessi a imprese già pesantemente indebitate e di bassa affidabilità e, quindi, ad alto rischio, ha raggiunto i 3.000 miliardi di dollari. Ciò è paragonabile a quanto accadde con i crediti immobiliari subprime nella crisi del 2007-8. Sono aumentati i prodotti strutturati, titoli derivati, come i collateralized loan obligation (clo), che per il 60% sono detenuti dalle banche americane, per il 30% da quelle giapponesi e per il 10% da quelle europee.

Naturalmente la somma citata rappresenta la parte evidente “in sofferenza” rispetto alla complessiva bolla di debiti corporate. Particolarmente interessati sono gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Non è un caso che anche la Bank of England abbia recentemente condiviso le preoccupazioni della BRI.

Si teme che se la situazione dovesse deteriorare, l’impatto economico sarebbe di molto amplificato attraverso il sistema bancario. Del resto la BRI aggiunge che si dovrebbe essere preoccupati dei debiti corporate più che di quelli degli Stati sovrani.

In questi anni la qualità dei crediti concessi alle imprese è andata sempre più peggiorando. Negli Usa il lowest investment grade rating, cioè la valutazione più bassa applicata agli investimenti, rappresentava il 29% di tutti i crediti concessi nel 2000 mentre oggi è il 36%. La situazione in Europa è peggiore, perché nello stesso periodo questo rating è passato dal 14% al 36%.

Per quanto riguarda il settore specifico delle obbligazioni corporate, il rating più basso, che era del 22% in Europa e del 25% negli Usa, è salito al 45% per entrambi.

Le preoccupazioni menzionate relative alle economie dei paesi emergenti sono confermate anche da un recente studio della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad), secondo il quale la passata politica di tasso zero della Fed li avrebbe indotti a indebitarsi in modo sproporzionato, soprattutto nei settori privati. Infatti, la percentuale del loro debito sul totale mondiale è passata dal 7% del 2007 al 26% del 2017. Nello stesso periodo il debito privato delle imprese e delle famiglie delle economie emergenti in rapporto al loro pil è passato dal 56 al 105%. I dati sono eloquenti.

Com’è noto, i paesi in questione sono molto dipendenti dal dollaro e dalle sue evoluzioni valutarie per cui le politiche della Fed vi determinano forti ripercussioni. Vedesi l’instabilità dell’Argentina, del Brasile, dell’India, dell’Indonesia, della Turchia e del Sud Africa.

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