Torna l’epoca dei dittatori, come un secolo fa. Xi Jinping, Putin, Erdogan, Trump. Casi diversi, ma con alcuni aspetti in comune: la devoluzione del potere sovrano dei popoli a singole persone. E, come già accadde un secolo fa, a conseguenza delle condizioni di incertezza derivanti da crisi economiche, sociali, identitarie. Il dittatore sempre diviene l’incarnazione del desiderio di rivalsa che cova nei popoli che si sentono traditi, derubati, umiliati. Lui pensa di essere il salvatore della patria, e magari a volte lo è, ma col tempo tende a divienire il burattino di quella crisi emotiva. E, poiché difficilmente il dittatore è capace di formulare risposte di dialogo e collaborazione con altri popoli, la sua missione diviene quella dello scontro. Le dittature sono foriere di guerre. È il problema che si ripresenta nel mondo, seppure per ora si tratti solo di guerre verbali.
Cina e Xi Jinping
A Xi Jinping e Putin i rispettivi popoli hanno dato mandato di derogare alle regole o di cambiarle per perpetuare la loro permanenza nella stanza del comando.
La Cina ha sofferto umiliazioni per mano delle potenze europee, a cominciare dalla Gran Bretagna, dalla metà del XIX secolo (guerre dell’oppio, umilianti sconfitte militari, distruzione della sua flotta) per finire con l’occupazione giapponese cominciata nel 1937 e terminata solo con la fine della seconda guerra mondiale. La condizone privilegiata di Hong Kong (uno dei maggiori mercati finanziari del mondo, le cui banche sono rimaste i veicoli per il riciclaggio del denaro della droga) ha continuato a ricordare quelle umiliazioni. Che la struttura economica in epoca postmaoista sia drasticamente cambiata e abbia dato alla Cina una nuova era di crescente prosperità in drammatico contrasto con la miseria del periodo precedente, non ha cancellato dalla memoria delle sue strutture di potere, e delle sue genti, le sconfitte del passato. Quando è giunta a potersi misurare con gli Stati Uniti quanto a potere economico, ha deciso che avrebbe dovuto farlo anche sul piano militare (beninteso, l’atteggiamento militaresco statunitense difficilmente lasciava altre possibilità).
E a Xi Jinping, nuovo Mao senza la miseria del maoismo, è stato dato mandato di permanere al potere oltre i due termini per legge stabiliti: per compiere la transizione, a cominciare dalla diffusione delle trame del Partito comunista cinese nel mondo. Con Xi la Cina ha deciso che ovunque vi siano cinesi nel mondo, vi debbano essere cellule attive del PCC: una politica aggressiva che non si vedeva dai tempi del Cominform sovietico.
La Cina rimane ancora seconda per spese militari, dopo gli USA, e ambisce anzitutto a non avere rivali in Asia e desidera dimostrare che lì, vicino a casa, può resistere al potere americano. Il suo problema è che si scontra anche con l’insieme dei paesi vicini: Giappone, Corea del Sud, Vietnam e India. E c’è il caso particolarmente delicato di Taiwan, che sempre più si sente un Paese indipendente mentre la Cina continentale sempre più la vede come un territorio proprio sul quale indebitamente gli Stati Uniti allungano provocatoriamente le mani.
Le armi cinesi sono in prevalenza di derivazione russa, come nel caso delle sue due portaerei (e della terza in costruzione). La Cina è sempre stata una potenza continentale, ma ora sogna di avere una flotta sufficientmente forte da poter spadroneggiare nei mari vicini, per controllare i quali le sue navi sono state studiate e prodotte in quantità (si tratta di vascelli in gran parte di medie dimensioni a differenza delle flotte statunitensi, pensate per dominare ovunque nel mondo con le loro enormi portaerei).
Con la “Belt & Road initiative” aveva cominciato una politica di espansione economica e di dialogo collaborativo con altri Paesi, ma quando gli USA per bocca di Trump hanno suonato i tamburi di guerra, c’è voluto poco per ripiegare sulle politiche a carattere eminentemente stategico.
Per dire, la convergenza di interesi che caratterizza il forte rapporto di collaborazione tra Cina e Pakistan segna anzitutto il comune interesse per il contenimento dell’India.
Russia e Putin
Quanto alla Russia di Putin, ha più volte proposto, all’epoca dei Presidenti statunitensi Bush (figlio) e Obama qualche tipo di convergenza di interessi con gli USA. Ma i vecchi sospetti della guerra fredda hanno impedito che maturassero, neppure dopo la minaccia del terrorismo islamico dell’11 settembre 2001. È stata scottata dal tentativo americano di schiacciarne l’economia quando Jeffrey Sachs con la sua “shock therapy” fu inviato in Russia per introdurvi il libero mercato supportando Boris Eltsin. Dopo che con Putin è riuscita a rialzare la testa, nel corso del XXI secolo la Russia si è sempre più distanziata dal mondo angloamericano, al quale peraltro dopo il ’91 avrebbe potuto utilmente allearsi.
Significativo è che dopo un decennio in cui, con la conclusione dei voli dello Shuttle americano, i rapporti tra Terra e Stazione spaziale (ISS) sono dipesi interamente da Baikonur, ora che la Cina sta preparandosi a nuove missioni verso la Luna (e Marte), la Russia indichi di preferire di associarsi a questa iniziativa. La Cina sta costruendo la propria stazione spaziale orbitante, essendo l’unica tra le grandi potenze a non partecipare all’ISS. Il profilarsi di questa alleanza Russia-Cina anche nell’ambito della ricerca spaziale indica con chiarezza quali sono gli orientamenti strategici per un futuro in cui lo spazio sarà sempre più luogo di competizione e, in caso di scontro, di guerra guerreggiata.
Dunque la Russia ha prima scelto Putin quale salvatore della patria dopo i disastri dell’accoppiata Eltsin-Sachs e ora, con la recente riforma costituzionale, delega a Putin il potere per i prossimi decenni facendone un nuovo dittatore, come Xi Jinping: con carta bianca per cercare di imporsi in un mondo dove la politica della collaborazioe economica pian piano è sostituita da quella della competizione dai risvolti militari.
La Turchia e Erdogan
Poiché il Mediterraneo orientale è sempre stato in effervescenza dal secondo dopoguerra, in particolare per la presenza delle più rilevanti fonti di petrolio – in quello che è stato, prima che il “secolo americano”, il “secolo del petrolio” – con la non risolta crisi emersa in Siria come parte delle “primavere arabe” del 2011, Ergdogan s’è visto nelle condizioni di poter ricostruire l’Impero Ottomano. Sta cercando di farlo. Le sue recenti iniziative in Libia questo significano: riprendere preminenza lungo tutto l’arco el Mediterraneo meridionale. Passo dopo passo ha consolidato il suo potere interno, anche con l’uso della forza, in particolare dopo il fallito tentativo di colpo di Stato nel 2016 condotto contro di lui da parti delle forze armate. E poiché non v’è nulla di più potente della religione per raccogliere favore e coesione tra i popoli, Erdogan sta diventando il campione nell’Islam in terra turca: di qui la ritrasformazione in moschea dell’edificio di Santa Sofia in Costantinopoli.
Gli USA e Trump
Con drammatico sincronismo, negli Stati Uniti l’elezione di Trump nel 2016 ha testimoniato il desiderio della cultura bianca, anglosassone e protestante di riaffermare la sua superiorità in un Paese la cui popolazione è sempre più meticcia, di origine ispanica e pertanto cattolica. C’è chi lo ha preso per un anti-sistema, per quanto Turmp sia espressione delle parti peggiori del sistema americano, quelle meno legate al dominio della legge e più legate alla mera ambizione di potere sfrenato e libero da vincoli (è il “Free to Choose” di Milton Friedman degli anni Settanta che diventa “America First” nel XXI secolo). Il problema degli Stati Uniti è che, dopo che sono state eliminate con l’assassinio le sue persone migliori negli anni Sessanta, sono sempre più scivolati nella logica di un impero che aspira a dominare con la forza militare, avendo sempre più perso la forza morale impressa nella sua Costituzione: ancora vigente, ma divenuta fantasma di un passato lontano. Col loro stratosferico bilancio militare, con le loro basi diffuse in tutto il mondo e con la finanza selvaggia che garantisce vette sempre più elevate di controllo economico alle sue élite, gli USA stanno diventando una “dittatura dal volto democratico”. Ovvero una dittatura ideologico-finanziaria di fatto, impersonale e priva di strutture istituzionalizzate, in cui possono emergere personaggi nuovi quali Mark Zuckerberg o Elon Musk in sostituzione dei Rockefeller e dei Mellon, ma tutti finiscono per diventare strumenti al servizio della sua nuova forma di impero che promuove guerre locali ovunque: guerre che non vince, ma la cui diffusione impedisce il consolidarsi di poteri politici locali, in tal modo lasciando mano libera ai poteri finanziari sovrannazionali.
Certo la persona di Trump ha molto della figura del dittatore, ma la sua sconfitta elettorale non garantisce affatto che cambi qualcosa nella politica americana. A meno che, ovviamente, non emerga qualche nuovo fenomeno tipo quel che rappresentarono i Kennedy negli anni ’60.
Ma il caso di Obama è rilevante al riguardo: aveva tutte le carte in regola per essere un “nuovo Kennedy”, ma la sua campagna elettorale fu così costosa e tanto si indebitò col sistema bancario, che le riforme che pure cercò di compiere (assistenza sanitaria, leggi volte a ridurre la libertà di azione delle banche sui mercati finanziari) ne risultarono fortemente limitate. E durante la sua presidenza i più ricchi e poderosi continuarono ad accrescere il loro potere malgrado la crisi finanziaria del 2008, come in seguito hanno continuato a fare anche grazie alle riforme fiscali servite loro da Trump.
Il problema dell’Europa
Insomma, siamo ripiombati nell’epoca dei grandi dittatori: sono tali non per forza propria, ma in quanto espressione di rivolgimenti intrinseci ai Paesi che sono stati chiamati a dirigere.
Per far emergere questi nuovi dittatori, sono stati introdotti cambiamenti istituzionali, sostanziali e peggiorativi delle condizioni di diritto su cui si fonda lo Stato, in Cina come Russia. Cioè nelle due polarità più rilevanti nel mondo oltre a quelle rappresentate da USA e Europa. Gli USA stanno andando nella stessa direzione per vie di fatto, per quanto conservino per ora le loro strutture di diritto.
Resta l’Europa. È per questo che il suo ruolo ridiviene centrale nel mondo: per contrastare le derive dei nuovi imperialismi. Ma per farlo deve acquisire coerenza interna e una forza propria. Quella, mancando la quale sinora è stata portata ad appoggiarsi agli USA, o alla Russia, o alla Cina.
La Brexit ha liberato il continente da una delle sue più grosse spine nel fianco: la longa manus della finanza angloameriana speculativa (che peraltro non manca di appendici qui e lá). È da vedere se questo basterà.
La situazione mette un enorme peso sulle spalle delle tre signore che ora incardinano l’Europa: Angela Merkel, Ursula von der Leyen e Christine Lagarde. Se riuscissero nell’intento di far emergere quanto di meglio l’Europa rappresenta, otterrebbero una grande vittoria. Per tutta l’umanità, come per l’agognata e tanto strapazzata parità di genere. Suona infatti di buon auspicio che nella crisi del Covid-19 si riconosca che gli Stati e i Governi diretti da donne abbiano dato prove migliori di quelle offerte da Stati e Governi diretti da uomini.
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