C’è chi ha inteso l’elezione di Donald Trump come una sconfitta dell’establishment statunitense. E sembrava che si potesse ottenere un progressivo disimpegno militare statunitense nei molteplici teatri di guerra nei quali il “complesso militare industriale” ha spinto gli Stati Uniti a impegnare miliardi e miliardi di dollari in armi dal Vietnam in poi.

L’uccisione del generale iraniano Qassem Suleiman a Baghdad nelle prime ore della mattina del 3 gennaio 2020 dimostra invece che Trump è proprio il contrario dell’auspicata espressione anti establishment. Se c’è un presidente statunitense che incarna alla perfezione la figura del venditore al soldo del complesso militare industriale è proprio lui. E ora ci troviamo di fronte all’ennesimo dei passi compiuti con quella strategia basata sull’istinto più che sulla ragione che è la nota caratteristica del trumpismo.

Si tratta del tipico fenomeno della degenerazione della demagogia che diventa preda dei bassi istinti che evoca, sollecita ed esacerba. Il demagogo si sente “leader”, in realtà diviene schiavo dello stile grazie al quale viene portato ad emergere come espressione del sentire diffuso: è la trappola del potere. Guidare un paese non è come dirigere un’azienda.

Gli Stati Uniti con gli altri Paesi occidentali avevano raggiunto un’intesa con l’Iran nel 2015: era l’apertura di una possibile nuova era nel Medio Oriente, qualcosa che avrebbe potuto portare a estendere il tipo di accordi esemplificati da quello di Camp David del 1978 tra Israele ed Egitto. Ma la strategia negoziale trumpista, far la voce grossa per ottenere i risultati migliori per la propria azienda, apparire imprevedibile per minacciare e costringere l’avversario a piegarsi, diventata la linea seguita dagli USA in politica estera, non fa che esacerbare tensioni.

In un mondo che ha bisogno di stabilità, muoversi come un elefante in un negozio di cristalli può funzionare sinché si è veramente il più forte e incontrastato sulla scena.

Oggi non è più così: la Cina è il contraltare sempre più efficace del potere economico e in prospettiva anche militare degli Stati Uniti. E mentre Trump si diverte a fare il forsennato, la Cina si propone come il paziente mediatore, in questo accrescendo il proprio prestigio mentre quello statunitense sprofonda nel baratro delle crisi a ripetizione.

Significativo è che l’escalation di scontri in Irak tra forze pro iraniane e statunitensi, sfociata nell’assedio all’ambasciata statunitense a Baghdad il primo giorno del gennaio 2020, si sia scatenata a seguito della rappresaglia innescata dagli Stati Uniti contro le milizie pro iraniane dopo l’uccisione di un “contractor” americano: ovvero di uno dei tanti mercenari messi in campo dagli Stati Uniti dalla seconda invasione dell’Irak compiuta dal presidente Bush figlio nel 2003, sulla base della nota “fake news” che l’Irak stesse armandosi di bombe nucleari. Questi mercenari sono l’espressione più tipica del complesso militare industriale: la privatizzzione dei conflitti. Non un ritorno al Medioevo, quando le milizie mercenarie erano assoldate da questo o quello stato, da questo o quel signorotto. Ma una nuova era in cui i conflitti sono promossi per promuovere gli affari che ne possono derivare (traffici di armi, droghe psicotropiche, speculazioni finanziarie).

È la cessione della sovranità degli Stati all’impresa privata, e gli USA trumpiani sono l’espressione più avanzata di questa condizione. E la Cina è anche in questo il suo contraltare: la preminenza dello Stato sull’iniziativa privata.

Se negli anni Ottanta del XX secolo, col crollo del Muro abbiamo assistito al trionfo dell’iniziativa privata di stile Friedmanita, ora ci troviamo di fronte al riflusso. Lo Stato nella versione cinese prevale, sia nelle prestazioni economiche, sia nella politica internazionale.

Saprà l’Europa trovare un proprio modo di muoversi in questo mondo nuovo? Sapranno gli Stati Uniti recuperare la propria anima hamiltoniana, in cui l’economia era assoggettata alla politica e questa mirava al benessere della res publica, non al prevalere di pochi fortunati?

Sono le domande che con crescente urgenza si propongono a quello che era il mondo occidentale. Da come vi si risponderà dipenderà se questo tramonterà o no.

L’uccisione di Suleiman a Baghdad non è un’espresione di forza, ma la conseguenza della debolezza degli Stati Uniti attuali, non più capaci di una politica fondata sugli interessi di un popolo, ma sulle bramosie di un potere che si illude di dominare solo grazie alle armi e al denaro.

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