Tchou è l’uomo giusto al momento giusto e non è certo un caso che anche Enrico Fermi lo considerasse un genio. A differenza degli accademici, che si chiudono spesso nelle loro torri d’avorio, il giovane ingegnere era apertissimo al nuovo e selezionava i collaboratori non tanto sulla base delle loro conoscenze ma valutando la loro capacità di capire e sviluppare idee nuove. Infatti, proprio tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso venivano gettate le basi per la crescita sempre più rapida dell’elettronica che avrebbe dischiuso le porte al mondo contemporaneo. Non sfugge però la rilevanza strategica delle nuove tecnologie che avrebbero dato un vantaggio enorme a chi le padroneggiava, né possiamo sorprenderci che gli anglo-americani guardassero con sospetto e preoccupazione un piccolo Paese come l’Italia mettere a punto strumenti tanto potenti in un mondo diviso in due dalla Guerra fredda.
In un’intervista al quotidiano Paese Sera del 1959 Tchou aveva spiegato che le “cose nuove si fanno solo con i giovani. Solo i giovani ci si buttano dentro con entusiasmo e collaborano in armonia senza personalismi e senza gli ostacoli derivanti da una mentalità conservatrice”. In effetti, nel laboratorio di Barbaricina il clima è estremamente creativo, soprattutto dopo l’arrivo di Pier Giorgio Perotto. Secondo Ettore Stanghellini, uno dei ricercatori del gruppo citato in un saggio di Giuseppe Rao, Mario Tchou si rivelò un leader ante litteram, “nel senso moderno del termine; oltre alle direttive di carattere strategico, egli rappresentava la corazza che ci proteggeva dai meccanici di Ivrea –ostili verso l’elettronica- mentre all’interno personificava l’unitarietà dell’obiettivo da raggiungere. Non ho mai sentito da parte di Tchou un ‘ordine’, ma solo delle indicazioni e dei suggerimenti, che naturalmente erano più efficaci degli ordini”.
La nascita del primo computer moderno
Nel 1950 l’americana Remington Rand mette a punto l’Univac-1, primo calcolatore elettronico concepito a scopi commerciali. È una struttura completamente a valvole che pesa 5 tonnellate, lunga più di quattro metri e mezzo e alta due metri e sessanta. Tre anni dopo, con la collaborazione del fisico Robert Oppenheimer e del matematico John von Neuman, entrambi collaboratori di Enrico Fermi nel progetto Manhattan, la IBM lancia l’IBM 70, destinato al mercato della difesa. Questi enormi macchinari a valvole avevano bisogno di tantissima energia, il che ne limitava notevolmente le potenzialità. Il salto di qualità arriva con l’invenzione del transistor, realizzata, a partire dalla fine degli anni ’40, nei laboratori Bell da John Bardeen, Walter Brattain e William Shockley che riceveranno il Nobel per la Fisica nel 1957.
Anche il primo prototipo realizzato a Barbaricina e denominato Elea 9001 è a valvole, come pure il secondo, con tutti gli inconvenienti descritti prima. La svolta si ha nell’autunno del 1957 quando Tchou decide di non andare in produzione industriale con la macchina a valvole ma di commercializzare direttamente un elaboratore a transistor. Questi componenti avevano il vantaggio delle piccole dimensioni, della durata maggiore e della ridottissima produzione di calore. Scegliere l’uso esclusivo del transistor implicava un rischio tecnologico non indifferente e anche un ritardo di circa un anno rispetto ai tempi fissati, ma Tchou, che aveva la capacità di guardare molto lontano, non ha dubbi. Nasce così il progetto per Elea 9003, il primo computer realizzato completamente a transistor, che batte sul tempo l’IBM che aveva prodotto a sua volta il suo modello interamente a transistor, denominato IBM 7090.
L’Elea 9003 viene presentato alla Fiera campionaria di Milano del 1959 e, mostrando la capacità di saper coniugare la tecnologia avanzata con l’estetica, vince il premio Compasso d’Oro per il disegno industriale. Elea 9003 è il primo calcolatore in assoluto che può operare in multiprogrammazione, ed è in grado di elaborare 100.000 istruzioni al secondo, con una memoria centrale espandibile da 20.000 a 160.000 caratteri. Sua particolare caratteristica è la capacità di gestire fino a 20 unità periferiche a nastro magnetico. La potenza raggiunge i 100 kHz. Costa, a seconda del modello, dai 300 ai 500 milioni ed è acquistato da Monte dei Paschi, Fiat ricambi, ENI, Cogne, Credito Italiano, Inps, Automobil Club, Banca San Paolo, Ferrero, Lancia, Motta. È chiaro che l’Elea sta entrando, con mezzi molto limitati, in un agguerrito contesto mondiale dominato dalla IBM.
Di fronte alla difficoltà di reperire sul mercato tutti i componenti necessari alla realizzazione dei transistor, Tchou convince Roberto Olivetti, il figlio di Adriano che aveva il compito di coordinare la divisione elettronica, a dar vita insieme alla Telettra e alla Fairchild a una fabbrica per produrre il necessario e nasce così la Società Generale Semiconduttori (SGS) che oggi si chiama ST Microelectronics ed è una delle principali imprese del settore. Con enorme preveggenza, il giovane scienziato italo-cinese aveva capito perfettamente la valenza strategica del controllo delle linee di produzione. Infatti, sia negli Stati Uniti che in Europa, è in corso uno sforzo enorme per la produzione indipendente dei semiconduttori, un po’ come avvenne per i transistor settanta anni fa, per non dover dipendere dalla Cina, attualmente il principale produttore mondiale.
Una battaglia pericolosa con poche munizioni
Nell’ottobre del 1959 Adriano Olivetti rileva il 30 per cento della Underwood, storica fabbrica americana di macchine da scrivere, con oltre 10.000 dipendenti e con una capillare rete di vendita. È il primo passo per la penetrazione sul mercato statunitense ed è anche la prima volta che un’impresa italiana compra un’azienda americana di tecnologie. Purtroppo, il 27 febbraio 1960 Adriano Olivetti muore di infarto sul treno che lo porta da Milano a Losanna. Per Tchou è un colpo durissimo, ma prosegue a fa anche un salto di qualità quando il gruppo di Barbaricina si trasferisce a Borgolombardo, vicino a Milano, in cui lavorano 2.000 ricercatori. Il presidente della Repubblica Gronchi, laureato alla Normale di Pisa, presenzia all’inaugurazione del nuovo centro, ma non riesce a far dimenticare il totale disinteresse della politica verso un settore cruciale della tecnologia moderna. In un’intervista a Paese Sera del 1959, Mario Tchou commenta: “Attualmente, possiamo considerarci allo stesso livello dei concorrenti dal punto di vista qualitativo. Gli altri però ricevono aiuti enormi dallo Stato. Gli Stati Uniti stanziano somme ingenti per le ricerche elettroniche, specialmente a scopi militari. Anche la Gran Bretagna spende milioni di sterline. Lo sforzo della Olivetti è molto notevole, ma gli altri hanno un futuro più sicuro del nostro perché sono aiutati dallo Stato”.
Il progresso dell’elettronica non ha però soltanto una valenza economica, grazie al balzo della produttività con l’introduzione dei computer, ma anche militare, considerando che questa nuova tecnologia si sviluppa nel momento più intenso della Guerra fredda. Secondo Giuseppe Rao, funzionario del ministero degli Esteri italiano e addetto all’innovazione scientifica e tecnologica presso l’ambasciata d’Italia a Pechino che ha dedicato un saggio al lavoro di Tchou, è evidente che in quegli anni gli Stati Uniti avessero tutte le intenzioni di salvaguardare il loro predomino nel settore nascente dei calcolatori. I timori sull’Italia erano anche accresciuti dal fatto che il PCI era la più grande organizzazione comunista dell’Occidente.
In una conversazione con il Corriere della Sera dell’11 gennaio del 2020, Elisa Montessori, vedova di Tchou, racconta un particolare inedito: “Nel 1961 partiamo improvvisamente per la Cina. Arriviamo a Hong Kong dove troviamo Roberto Olivetti e sua moglie Anna Nogara. Dopo un po’ capisco che volevano entrare nella Cina comunista. Il progetto era occupare quel mercato enorme con le tecnologie Olivetti. Ci fecero sapere che saremmo potuti andare con una barca, di notte, con pochi bagagli. I dirigenti locali in seguito ci avrebbero fatto incontrare i responsabili per il settore della Cina di Mao. Io non ero d’accordo. Avevamo due figlie. E se ci avessero trattenuti? Se avessero voluto usare il cervello e le competenze di Mario per i loro scopi? Dissi che io sarei ripartita e anche Mario, alla fine, accettò di tornare per non rischiare”. Se da un lato l’aneddoto mostra la grande intraprendenza di Olivetti e Tchou, mette anche in evidenza i rischi che correvano per sviluppare il loro disegno strategico. Nella stessa conversazione, Elisa racconta che una volta, a Parigi, Roberto fece loro cambiare posto in un ristorante perché aveva la sensazione che qualcuno, forse dei concorrenti, li spiasse. Probabilmente non aveva torto, visto che da tempo i successi dell’Olivetti avevano messo la CIA in allarme.
A differenza di Mattei, che dirigeva una grande impresa statale, aveva creato un proprio quotidiano e finanziava tutti i partiti perché non intralciassero i suoi disegni, Adriano Olivetti aveva pochissime coperture politiche e si assumeva grandi rischi in proprio. Sicuramente, l’idea avveniristica di sbarcare in Cina e il piano di Tchou per usare il know how acquisito per far fare un salto di qualità alle macchine utensili e contabili doveva aver sollevato non poche preoccupazioni nella concorrenza internazionale. Anche la generazione successiva di calcolatori, messa a punto nel 1961 e denominata Elea 6001, più ridotta e promettente del modello 9003 e con più di cento esemplari venduti, non era certo fatta per tranquillizzare gli Stati Uniti. Inoltre, conscio della necessità di superare diversi problemi tecnici, Tchou aveva affidato al matematico Mauro Pacelli il compito di studiare un nuovo linguaggio, il Palgo (programmazione algoritmica), che avrebbe ottimizzato la compilazione e l’esecuzione di programmi scritti nel nuovo linguaggio. Se nell’Italia del tempo ci fosse stata una classe politica capace di capire e sostenere l’intraprendenza di Olivetti e le grandi intuizioni di Mario Tchou, saremmo potuti diventare senza troppi problemi quello che è oggi la Corea del Sud.
(continua)
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