Di Domenico Maceri
“Non ho nessuna intenzione di permettere alla guardia nazionale dell’Oregon di essere usata come distrazione dai problemi di Washington”. Con queste parole, Kate Brown, democratica, governatrice dell’Oregon, si è rifiutata di accedere alla richiesta di Donald Trump vedendola come un tentativo di “militarizzare il confine col Messico”. Susana Martinez, Greg Abbott e Doug Ducey, tutti repubblicani, rispettivi governatori del New Mexico, Texas e Arizona, hanno invece accettato la richiesta di Donald Trump per mantenere la sicurezza al confine. Brian Sandoval, il governatore repubblicano del Nevada, invece si è dichiarato contrario. lIl governatore della California, Jerry Brown, democratico, non si è ancora pronunciato ma il silenzio ci fa intendere che si opporrebbe anche lui.
Dopo avere visto alla Fox News una storia su una carovana di migranti dell’America Centrale che era entrata nel Messico e si stava muovendo verso gli Stati Uniti, Trump ha deciso che bisognava agire per fermarli. Il 45esimo presidente è ritornato a premere su uno dei temi di campagna elettorale, parlando di invasione di immigrati e dell’importanza di fermarli per controllare le frontiere. Alcuni analisti, come Ann Coulter, grande sostenitrice di Trump, in un’intervista al New York Times, ha fatto notare che durante la campagna elettorale Trump aveva ripetuto ad nauseam la costruzione del muro al confine col Messico ma non è riuscito a mantenere la promessa. La “crisi” alla frontiera va vista dunque in questa luce di soddisfare i bisogni della base del presidente.
Trump, infatti, ha implicitamente riconosciuto questa situazione quando ha minacciato di non firmare la manovra del bilancio perché non includeva i fondi per il muro al confine. Un’altra riserva di Trump sulla legge era la mancata inclusione di risolvere la questione del Daca, l’ordine esecutivo di Barack Obama che protegge temporaneamente i giovani portati in America dai loro genitori senza documenti. Dopo avere addossato la colpa ai democratici, Trump ha alla fine firmato la legge perché, secondo lui, migliorava il bilancio delle forze armate.
Trump, considerandosi grande negoziatore, avrebbe potuto intervenire e affrontare questi punti ma non lo ha fatto, rimanendo in disparte. Dopo ha però espresso le sue forti delusioni su Paul Ryan, speaker della Camera, e Mitch McConnell, presidente del Senato. La manovra fiscale di 1300 miliardi di dollari include però 1,6 miliardi per barriere al confine che equivalgono a delle briciole considerando i 25 miliardi che la Casa Bianca aveva richiesto. Se il muro e la soluzione al Daca fossero stati temi importanti, Trump avrebbe potuto spingere di più per ottenerli.
La carovana di un migliaio di migranti che sfuggono dalla violenza dell’Honduras e altri Paesi centroamericani però ha offerto al 45esimo presidente la scusa per agire. In una lunga serie di tweet velenosi, tipici del suo stile senza filtri, Trump ha accusato le inefficienti leggi americane che impediscono alla polizia di frontiera di compiere il loro lavoro a causa dei “deboli democratici”. L’inquilino della Casa Bianca ha mostrato la sua frustrazione minacciando la fine del Daca e di togliere i contributi americani all’Honduras. Trump ha anche accusato il Messico di dare il via libero ai profughi per raggiungere gli Stati Uniti minacciando anche di eliminare il Nafta.
Quando Trump non riesce a compiere qualcosa ritorna alla strategia accusatoria della campagna elettorale usando lo stesso linguaggio che tanto fa piacere ai suoi sostenitori, la cui visione del mondo è parente molto distante dalla realtà obiettiva. Il migliaio di profughi entrati in Messico consiste di 300 bambini, 400 donne e il resto uomini, maggiormente dell’Honduras, che sfuggono da un Paese pieno di corruzione, violenza politica e numerosissimi omicidi. I migranti viaggiano insieme per ragioni di sicurezza e proteggersi da stupri e altri pericoli, secondo un cronista del New York Times che ha visitato il complesso sportivo in Messico in cui i profughi si sono fermati. Non cercano la protezione del Daca, come ha indicato Trump in suo tweet, programma che copre giovani residenti negli Stati Uniti dal 2007.
Il Messico ha già deportato 400 di questi individui della carovana e sta negoziando con i rimanenti per vedere se qualificano per lo status di rifugiati in Messico o negli Stati Uniti. In alcuni casi, funzionari messicani hanno distribuito permessi di transito validi per 20 giorni, dando tempo per lasciare il Paese o fare domanda di asilo politico in Messico. Altri stanno consultando con avvocati in Messico per cercare di determinare se i loro casi specifici sarebbero validi per status di rifugiati in America o scegliere di rimanere in Messico. Gli organizzatori della carovana, un evento annuale durante le feste di Pasqua, intendono attirare attenzione sulla triste situazione dei profughi. Si tratta dunque di un problema umanitario invece di un pericolo di sicurezza.
Trump ha però attaccato questi vulnerabili individui aggiungendo 4mila membri della guardia nazionale ai 20mila poliziotti della frontiera. Lo ha spiegato come un “muro” umano finché si costruirà quello che lui ha promesso in campagna elettorale. I numeri però non giustificano questa militarizzazione della frontiera. Gli arresti al confine infatti sono scesi da 700mila nel 2008 a 400mila nel 2016 durante la presidenza di Obama. Nel 2017 il numero di individui fermati è sceso a 300mila, il più basso in 46 anni.
Si potrà capire la frustrazione di un presidente americano dalla complessità del problema migratorio. Obama, con una legislatura repubblicana intransigente, cercò di fare il possibile per migliorare la situazione con il suo ordine esecutivo sul Daca. Trump, partendo da una visione fasulla della realtà, ha parlato di chiudere la frontiera con un muro per bloccare le entrate, rifugiandosi nel suo slogan di “America first” e al diavolo il resto del mondo. Una migliore strategia sarebbe invece di aiutare gli honduregni a risolvere la critica situazione del loro Paese offrendogli alternative a casa loro invece di sentirsi costretti a intraprendere un lungo e pericoloso viaggio come soluzione.
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Domenico Maceri, PhD, University of California, scrive su politica americana. Alcuni dei suoi articoli hanno vinto premi della National Association of Hispanic Publications.
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