di Paolo L. Bernardini e Federica Beretta

The mask which concealed the visage was made so nearly to resemble the countenance of a stiffened corpse that the closest scrutiny must have had difficulty in detecting the cheat.

Edgar Allan Poe

Ho comprato una maschera di cera,
che un volto finge di donna gentil,
una parrucca che par chioma vera,
e velo nero d ‘ordito sottil.

Luigi Pirandello

Il Serlachius è un museo d’arte moderna e contemporanea, con interessanti puntate nel Rinascimento e non solo, che si trova nella Finlandia centrale, a Mänttää, immerso nella verdeggiante foresta finnica e circondato da immancabili laghetti, ed è una piccola perla.

Le collezioni permanenti, ospitate nell’edificio più antico, del 1935 – il museo è nato dalla volontà dell’industriale della carta Gösta Serlachius di cui porta il nome, spentosi nel 1942, le cui aziende peraltro sono ancora attive oggi – contengono alcune opere singolari provenienti da tutto il mondo, oltre ad una vasta rassegna, naturalmente, di artisti finlandesi. Per portare un solo esempio italiano, la “nobildonna” del Fasolo. L’allievo di Paolo Veronese e sodale del Palladio – l’autore tra le altre cose della mirabile raffigurazione dinastica dei Valmarana custodita nella villa di famiglia – ritrae in realtà, seconda una possibile interpretazione, non una nobildonna, ma una cortigiana. Lo indica il colore giallo e le dita della mano sinistra aperte. Siamo in fondo ai tempi di Veronica Franco, cortigiana per eccellenza, poetessa, amante, per una notte, di un giovanissimo Enrico III, re di Francia. Anche se forse la qualità dell’abito e l’atteggiamento fanno propendere gli storici verso il fatto che di nobildonna, in effetti, si trattasse. Una nobildonna con aspirazioni da cortigiana, o viceversa? Forse abbigliata troppo riccamente per essere davvero una cortigiana?

Nobildonna, o cortigiana, in ogni caso è una bella testimonianza del Rinascimento veneto in mezzo alle betulle e agli olmi finnici, e a quieti, riposanti, delicati laghetti che paiono usciti da un olio di Eero Järnefeld (1863-1937), cantore ottocentesco del paesaggio finlandese. All’Ateneum di Helsinki, imperdibile per chi si trovi ora nella capitale, è in corso una sua onnicomprensiva monografica, visitabile fino a fine agosto 2024, che fa il punto definitivo, per quanto possiamo stimare, sull’artista e patriota di Viborg.

Oltre alle permanenti, vale la pena di recarsi al Serlachius per una mostra ora in corso sulle maschere nella storia (dell’arte e non solo), inaugurata l’11 maggio e in programma fino al 14 settembre 2024. La curatrice di “Naamiot” (maschere in quest’ardua lingua), è italiana, Lorella Scacco, e al bel catalogo ha contribuito un’altra storica dell’arte del nostro Paese, Carolina Orsini, insieme a due studiosi finlandesi, Tomi Moisio e Pauli Sivonen, quest’ultimo direttore del Serlachius.

Come scrive nelle pagine iniziali del catalogo lo stesso Sivonen, la maschera è tema di tale portata che per affrontarlo, anche solo concettualmente, per dipanare un filo speculativo ed emozionale che ci consente di “comprendere” o perlomeno “ordinare” nel nostro immaginario la maschera e i suoi mondi, occorre risalire prima che a letture o stereotipi, proprio alle nostre proprie, primissime esperienze: ovvero, nel caso di Sivonen, alla sua infanzia, e alla maschera di Babbo Natale indossata dal nonno: al momento della difficile agnizione, del riconoscimento, che segna l’ingresso nell’età (quasi) adulta, che di una finzione si tratta, che Babbo Natale non esiste: è, per l’appunto, solo una maschera. Nascosta, e come poteva esser diversamente, tra le fascine di legno dell’immancabile sauna di famiglia.

La mostra è curata in modo intelligente e discreto, con puntate nell’avanguardia, anche finnica, e classici, dal mondo etnologico a quello fotografico. A quattro anni dalla scomparsa di Giovanni Gastel (1955-2021) è giusto ricordarlo, con la sua attenzione alla trasformazione del volto, alla maschera come difesa e riparo dalla fragilità, e come sublimazione di bellezza. Come è doveroso l’omaggio (in un percorso straordinario nel bianco e nero, à rebours) alla contessa di Castiglione, e al suo essere artista d’avanguardia nel mondo fotografico parigino, cosa che non sempre si ricorda. A lei si deve, in gran parte, l’Italia unita, Cavour le diede esplicito ordine di “coquetter” (come da lettera ben chiara di istruzioni, più volte ricordata dalla storiografia) con Napoleone III e lei con sommo piacere lo fece, rendendo furiosa l’imperatrice ma unita l’Italia. Peraltro, bella era anche lei, Eugenia de Guzman, bellezza latina non meno della rivale toscana, come ci ricorda la tela del 1853, ben nota, di Franz Xaver Winterhalter, che la ritrae in giovane età. Il suo sodalizio di quarant’anni con Pierson, oltre settecento immagini splendide che furono oggetto di una memorabile monografica, “La Divine Comtesse”: Photographs of the Countess de Castiglione, al Metropolitan, nel 2000, viene qui ricordato con una delle più note: lei “mascherata” ed infinitamente sensuale, com’era – Cavour era un ottimo talent scout quando si trattava di realizzare il proprio sogno politico, l’invenzione dell’Italia unita per citare l’ormai classico libro di Roberto Martucci, del 1999 –, con una maschera singolare: non una vera e propria semplice maschera per gli occhi nera, ma una cornice da tavolino per fotografie ovale, messa in orizzontale: tocco di genio, si incornicia da sola, in attesa di entrare, come in un gioco di scatole cinesi, in una cornice “vera”. Due volte incorniciata, ed infinitamente bella.

La maschera, dunque. In quest’Europa 2024 occorre riflettervi ampiamente. Ma forse occorre riflettervi in una dimensione globale, piuttosto che soltanto europea.

La letteratura (per cominciare con quella) che si occupa dei modi e delle forme del nostro camuffamento cresce. In fondo, viviamo sempre più in identità multiple, rischiando sempre più di perdere la nostra, posto che esista ancora o che sia mai esistita. Se pensiamo a maschere riprodotte anche qui, magari nei disegni di Gino Severini, quelle della commedia dell’arte, la letteratura rivela sempre più gli strati complessi che compongono alcune, come il Pierrot stralunato e supremamente malinconico di Jules Laforgue – maschera alla fine essenziale e quasi inesistente, una patina di bianco sul viso – o magari il ben più diabolico Arlecchino: sulla cui genesi si può ora leggere l’avvincente libro di Massimo Oldoni, La famiglia di Arlecchino. Il demonio prima della maschera (Donzelli, 2023), che dice molto sulla vitalità intellettuale e immaginativa del Evo Medio, ingiustamente per decenni svillaneggiato dagli storici (i “secoli bui” sono quelli che immaginano e descrivono solo le menti altrettanto “buie”). Oldoni ci conduce in intricate vicende di mascheramenti e smascheramenti a volti buffi, a volte drammatici, comici e surreali, magici e mortiferi al contempo. Il potenziale di distruzione e redenzione della Commedia dell’Arte, e di Arlecchino soprattutto, aveva già stimolato l’onesta e sana reazione al dogma neoclassico dell’Illuminismo in un’operetta di Justus Moeser, del 1761, una “difesa del grottesco” tradotta in inglese, ma per ora non in italiano, degna di attenzione.

La maschera ci accompagna da sempre, in ogni aspetto della nostra vita, dai carnevali ai fumetti; l’Uomo Mascherato, in fondo, The Phantom nell’originale, ebbe immenso successo anche in Finlandia, e qui riproduciamo una vignetta e la copertina di un numero del 1989 (“Paholainen” significa demonio in finlandese, e davvero demoniaco è quest’avversario dell’eroe, raffigurato nella copertina sotto riportata), e continuano ad averlo i suoi epigoni. In Italia da Diabolik a Kriminal (e l’affascinante Satanik, oltre a numerosi altri “minori”) il fumetto ha creato eroi e anti-eroi legati alla maschera, che ora si tolgono, ora no. Se è vero che la maschera risale almeno al Paleolitico, si può dire che mai come essa trionfi: negli infiniti camuffamenti di cui, come eroi pirandelliani – e il riferimento allo scrittore non poteva mancare nel saggio della Scacco – siamo allo stesso tempo ignari e consapevoli, vittime e carnefici.

Tanto che si potrebbe ben recuperare un culto di un santo assai poco noto ora, uno dei Padri del Deserto, San Baradato, che visse, e perfino fa rima, la vita intera mascherato, anzi del tutto coperto, viso e corpo, con poche fessure nella maschera, per respirare, e comunicarsi. La maschera, generalmente, copre un volto. Ma vi sono maschere permanenti che non coprono il volto, soltanto (anche se spesso anche quello). E allora ci sarebbe da visitare a Milano la mostra sui tatuaggi al Mudec: “Tatuaggi. Storie dal Mediterraneo”, che chiude il 24 luglio 2024. Infingimento infinito. Forse perché si teme che tolta la maschera, non rimanga nulla, o rimanga la cieca natura, la brutalità della vita. Come si è quando si viene “smascherati”.

Numerose sarebbero le risposte ma l’arte finnica – visto che qui siamo, occorre bene omaggiare il luogo e i suoi talenti – ne forse alcune. Dallo scandaloso Courbet del 1866 passano alcuni anni e Akseli Gallen-Kallela (1865-1931), ci fornisce l’elaborazione del medesimo in “Démasquée”, del 1888, che fu incorporato nelle collezioni del Serlachius proprio in quel 1935 in cui il museo nordico venne inaugurato. Ecco qui:

Di grande interesse, in generale, la presenza della maschera nella cultura finnica, e in quella nordica in generale, e il catalogo presenta numerosi cenni a questo. Vieni così da chiedersi se nell’epica per eccellenza del mondo finlandese, il Kalevala, vi siano personaggi mascherati, ma non sono molti. Vi sono se mai personaggi proteiformi, generalmente nefasti, come i näkki, demoni dei laghi, terribili per bambini e sprovveduti. Vi è poi, ricordato qui, un riferimento al mondo cristiano, all’Epifania nordica di San Canuto, St. Knut, che “tutte le feste si porta via”, con un velo di tristezza, e anche paura. In questo caso l’uso della maschera, grezza, molto efficace nella sua portata di spavento, vige tuttora. Ed è in questa mostra rappresentato. Una pagina importante dell’etnologia finnica. Ma non solo finnica, nordica e scandinava in generale. San Canuto è ricordato ovunque, qui, si pensi al knutgubbe in Svezia, il “saccheggio”, ovvero la spoliazione, dell’albero di Natale.

Ma molto ancora vi sarebbe da dire sulla maschera nella letteratura nordica, ovviamente, tema di gran fascino per etnologi, comparatisti e storici. Il noto poeta, scrittore e docente universitario svedese Lars Gustafsson (1936-2016), ha dedicato un bel saggio allo “smascheramento” del poeta e alla ri-nascita della poesia ingenua e sentimentale, che qui ricordo nella traduzione francese di Monique Rask: Le poète masqué et démasqué. Études sur la mise en valeur du poète sincère dans la poétique du classicisme et du préromantisme, pubblicata dall’università di Uppsala nel 1968. Non a caso nasce la poetica della maschera, surrealista, nel momento in cui sembra necessario uno smascheramento del poeta e della poesia, un ritorno al primitivo. Su tutto questo, anche nell’ambito della pittura finnica, si sofferma Tomi Moisio in uno dei saggi del catalogo.

Alla fine, si può trovare una maschera e un ricoprimento ovunque, una finzione in ogni dove: si pensi a questa cartina geografica della Scandinavia del 1808: ebbene la Finlandia, che l’anno dopo ri-ottenne parziale indipendenza sotto la Russia come granducato, non vi compare neppure, “mascherata” dalla Svezia che ancora in gran parte la possedeva. Invece vi appare la Norvegia, che era danese. Almeno fino al 1814, quando divenne svedese al seguito del trattato di Kiel. Perché questa piccola mappa parla di due stati che sono l’uno un impero, e l’altro una colonia, sullo stesso piano? Che mascheramento implica?

Euristicamente, la ricerca sulla maschera – così mirabilmente interdisciplinare – può portare davvero lontano, e mostre come queste contribuiscono ad un migliore apprezzamento della multidimensionalità del soggetto. Dal momento poi che ogni o quasi ogni cultura del mondo prevede la propria dose di maschere, mostre così latitudinarie non fanno che invitare, dalla prospettiva del luogo, apparentemente remota, talora, a guardare a quella globale.

Con rinnovato, e più acuto occhio, naturalmente.

La stesura del presente saggio, insieme a molto altro, è stata resa possibile dalla generosità dell’Università di Jyväskylä, in particolare dal Prof. Dr. Ere Nokkala, che ci ha invitato a trascorrere un periodo di ricerca presso il Dipartimento di Storia ed Etnologia dell’ateneo finnico (nel quadro di un finanziamento ERC), in un luogo per più aspetti ideale per condurre ricerche e anche riconciliarsi con la natura, da metà maggio a metà giugno 2024. A lui e a tutto l’ottimo staff del dipartimento e dell’ateneo vanno i nostri sinceri ringraziamenti. Il titolo che abbiamo scelto per questo saggio è un riferimento al libro omonimo di Alessandro Fontana, allievo di Michel Foucault e studioso di storia veneziana (e non solo), di grande finezza interpretativa. (vd. il suo libro postumo La verità delle maschere, del 2015). Un piccolo omaggio, dunque, alla città delle maschere per eccellenza, che ricorre anche nel catalogo nella mostra di cui qui parliamo.

(Tranne quella di copertina, le foto sono tutte di Paolo L. Bernardini e Federica Beretta)

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