L’acqua è all’origine della vita, ma anche delle civiltà e dello sviluppo economico e possiede un profondo valore simbolico, espresso da moltissime religioni. Il saccheggio indiscriminato delle risorse naturali, operato da un liberismo sfrenato che conosce soltanto la logica del profitto a qualunque costo, sta creando le precondizioni per uno scenario in cui siccità, inondazioni, depauperamento delle potenzialità agricole rischiano di scatenare drammatiche migrazioni di massa. Un nuovo saggio analizza a tutto campo le complesse tematiche legate a un aspetto imprescindibile delle nostre società.
Fausta Speranza è una giornalista che collabora con Radio Vaticana e l’Osservatore Romano (è stata la prima donna nella storia del giornale a occuparsi di politica internazionale) oltre che con varie altre testate radiotelevisive e della carta stampata. L’autrice spiega che ha affrontato il tema dell’acqua “perché è il primo, basilare ed emblematico elemento naturale da cui partire per riflettere sulle urgenze del pianeta, ma anche perché rappresenta un fattore chiave per la sussistenza, utile per ragionare di un nuovo patto sociale globale”. Il suo è un interessante approccio multidisciplinare che parte dalla centralità dell’acqua nello sviluppo umano e ne analizza le implicazioni storiche, sociologiche, economiche, geopolitiche, ecologiche, religiose e artistiche. È chiaro che per l’autrice una problematica così profonda e articolata non può essere disgiunta dalla difesa dell’ambiente nel suo insieme e dalla questione dei diritti umani, con un’attenzione particolare al cruciale ruolo che le donne possono svolgere in questa battaglia.
Si è rotto l’equilibro uomo-natura
Il susseguirsi sempre più ravvicinato di epidemie e l’esplosione della pandemia di Covid-19, che sta avendo conseguenze comparabili a quelle di un conflitto di enormi dimensioni, mostrano che l’umanità si sta avvicinando a un punto di non ritorno, il che rende indispensabile prendere decisioni capaci di ripensare l’intero meccanismo economico mondiale. Secondo il Water Grabbing Observatory, nel 2030 il 47 per cento della popolazione mondiale vivrà in zone a elevato rischio idrico, e questo implica un elevatissimo stress sociale. Il 2020 è stato l’anno più caldo mai registrato a livello mondiale, dopo un decennio di temperature record a testimonianza del riscaldamento globale, come documentato dal Programma di osservazione della terra dell’Unione Europea. Con il surriscaldamento dei mari aumenta notevolmente la possibilità di tifoni e uragani, ma anche il pericolo di desertificazione che rischia di espellere dalla loro terre impoverite milioni di contadini.
L’International Food Policy Research Institute (Ifpri) prevede che, agli attuali tassi di crescita demografica e di consumo idrico, entro il 2025 il fabbisogno di acqua aumenterà di oltre il 50 per cento e gli agricoltori saranno i più colpiti, in particolare nei Paesi a basso reddito, dove i raccolti dipendono molto più direttamente da sistemi di irrigazione ad alto consumo d’acqua rispetto all’America Settentrionale o all’Europa. L’allarme riguarda soprattutto Medio Oriente e Nord Africa, ma anche l’India, che desta particolare preoccupazione per il numero elevatissimo della sua popolazione. Il saggio riporta che Paesi come “Qatar, Israele, Libano e Iran ogni anno prelevano in media più dell’80 per cento delle proprie risorse totali di acqua. Si traduce in un serissimo rischio di rimanerne a corto. Ci sono poi altri 44 Paesi, in cui vive circa un terzo della popolazione mondiale, che prelevano ogni anno il 40 per cento dell’acqua di cui dispongono. Per questi territori, che comprendono anche l’Italia, il rischio è meno elevato, ma comunque preoccupante”.
La gravità della situazione è poi esacerbata dall’agricoltura intensiva e dalla produzione di carne per i ricchi mercati del Nord del mondo che, insieme allo sfruttamento minerario indiscriminato, consumano enormi quantità d’acqua. Anche l’inquinamento delle falde acquifere causato dagli scarichi industriali ha un ruolo nel ridurre la disponibilità idrica. Ricordiamo che la popolazione mondiale ha a disposizione soltanto il 2 per cento dell’acqua, mentre il restante 98 per cento viene destinato a usi industriali, agricoli, forestali e minerari. Ma anche una nazione relativamente ricca d’acqua come l’Italia vede ridursi le sua capacità di approvvigionamento a causa di una rete di acquedotti fatiscenti che perde circa un terzo della propria portata, in uno spreco inaccettabile. Il saggio rilancia il forte appello lanciato da scienziati e geologi affinché il tema della fragilità idrogeologica diventi centrale nell’elaborazione della politica italiana.
Acque agitate nel Mare Nostrum
Secondo i dati riportati nel saggio, il Mediterraneo ha una velocità di riscaldamento che è del 20 per cento superiore rispetto alla media globale, e questo fa temere che entro pochi anni circa 250 milioni di persone si potranno trovare in una condizione di insicurezza idrica. Viene previsto un innalzamento delle acque di venti centimetri, che va interpretato non come acqua che sale e va a coprire il terreno, ma come acqua salata che sale e s’insinua nelle terre costiere. L’autrice riprende uno studio degli esperti dell’Unione per il Mediterraneo secondo il quale “non sono gli impatti diretti del caldo sulla fisiologia umana, compreso il coronavirus, né i danni alle infrastrutture a rappresentare il nodo del problema; il vero pericolo è che un clima reso instabile non è più prevedibile e, di conseguenza, tutta l’organizzazione economica e sociale umana non si regge più”.
A questo vanno ad aggiungersi le tensioni tra Atene e Ankara che, da mesi, si rinfacciano ingerenze e incursioni illegittime nel tratto di mare al largo di Cipro e Creta, un’area con ricchi giacimenti di gas. Quando il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis ha annunciato in parlamento che il governo sta lavorando a un disegno di legge che estenderà le acque territoriali della Grecia nel Mar Ionio da sei a dodici miglia nautiche, la Turchia ha avvertito che una mossa simile da parte della Grecia verso Est costituirebbe un casus belli. La disputa più grave tra i due Paesi riguarda l’isola di Cipro, divisa tra la Repubblica di Cipro, grecofona e riconosciuta a livello internazionale, e la Repubblica di Cipro Nord, sorta dopo l’invasione militare turca del 1974, e riconosciuta dalla sola Turchia. Nel 2019 l’Unione Europea ha imposto sanzioni alla Turchia per aver trivellato illegalmente nelle aree intorno a Cipro Nord.
Ecologismo radicale e movimento del politically correct
Purtroppo, c’è anche una maniera profondamente sbagliata nell’affrontare le questioni legate
alla difesa della natura. Un capitolo molto interessante va a toccare un serie di questioni e personaggi che hanno coniugato il loro amore verso l’ambiente naturale con concezioni aberranti. Lo zoologo e biologo Ernst Haeckel, grande divulgatore delle teorie di Darwin nei Paesi di lingua tedesca, coniò nel 1867 il termine “ecologia” come nuova disciplina scientifica dedicata a studiare le interazioni fra organismo e ambiente. Ma, oltre ai suoi innegabili meriti scientifici, Haeckel “credeva nella superiorità razziale nordica, era strenuamente contrario alla mescolanza delle razze ed era un entusiasta sostenitore dell’eugenetica razzista. In vecchiaia aderì alla società Thule, un’organizzazione segreta della destra radicale che ebbe un ruolo chiave nell’istituzione del movimento nazista”. È poi ben noto che sia Adolf Hitler che Heinrich Himmler “erano vegetariani rigorosi, interessati alle cure omeopatiche, fortemente contrari alla vivisezione e alla crudeltà sugli animali. In varie occasioni Hitler si occupò di fonti energetiche alternative a quelle fossili e queste tematiche hanno riscontro anche all’interno di atti normativi emanati dal regime”.
L’autrice sottolinea un concetto che si ritrova in molti scritti nazisti: la condanna di ogni tentativo umano di dominare la natura, che viene posta su un gradino più alto rispetto all’umanità, come se fosse una vera e propria divinità. Secondo questa concezione, gli esseri umani non sono che una trascurabile rotellina nell’enorme ingranaggio della vita, al pari di qualunque altro organismo. Questa filosofia torna a riaffacciarsi all’interno dell’ecologismo radicale moderno che, sotto influenze neo-romantiche e delle filosofie orientali, considera la specie umana come una delle innumerevoli forme di vita, allo stesso livello qualitativo di rettili e insetti. Una filiazione di questa filosofia è rappresentata dall’ideologia che, per brevità, può essere definita del “politically correct”. Questo movimento, cresciuto a dismisura negli ultimi cinquant’anni nei Paesi occidentali, professa un totale relativismo culturale e un libertarismo “biopolitico”, cioè l’idea dell’equivalenza tra desideri e diritti. Ne consegue che “l’umanità non gode di uno statuto gerarchicamente prevalente nella natura e nell’ambiente, e anzi, al contrario, la civilizzazione rappresenta in primo luogo una colpa e una minaccia per l’equilibrio ambientale, da espiare attraverso la riduzione dell’impronta umana sul pianeta”.
La logica conseguenza di queste concezioni è che l’animalismo propugnato da questo movimento, più che il rispetto per gli esseri viventi, tende a cancellare la superiorità spirituale dell’essere umano. Fausta Speranza pone in evidenza che sostenendo l’identificazione totale tra identità e autodeterminazione avviene che “ogni individuo o gruppo dovrebbe essere in grado di definire la propria natura indipendentemente da condizionamenti storici, culturali e persino biologici, come nel caso dell’identità ‘di genere’, presentata come un’opzione da scegliere”. Questa vera e propria ideologia rifiuta la dialettica del pluralismo e presenta qualunque posizione “conservatrice, tradizionalista o di continuità con l’eredità culturale euro-occidentale” come un residuo del passato da eliminare. L’intolleranza e la tendenza alla censura è uno dei tratti salienti di questa ideologia. “Emerge una visione del mondo -continua l’autrice- in cui tutto dipende dalla propria scelta di definizione. Eppure, se non si accettano per dogma alcune verità del politicamente corretto, senza alcuna attenuante si viene tacciati di oscurantismo. L’arbitrio e il senso critico dovrebbero funzionare per demolire tutto e tutti ma non per sollevare dubbi e critiche sul politically correct”.
L’ultima sezione del saggio è dedicata a trattare in termini generali il rapporto dell’acqua con le religioni, la letteratura, le arti visive, la musica, l’architettura, il cinema. Viene anche riportato uno studio recente che mette in relazione una cattiva qualità e durata del sonno con uno stato di deidratazione. Secondo il prof. Umberto Solimene “bere poca acqua può farci perdere due ore di sonno a notte”. Nel caso Fausta Speranza avesse intenzione di produrre una seconda edizione, mi permetto di suggerire che nella sezione riguardante il rapporto tra acqua e letteratura venga inserito anche The Waste Land di T.S. Eliot, il poemetto che ha dato inizio al modernismo nella poesia anglo-americana, letteralmente intriso di acqua o anelante all’acqua che manca, nel deserto petroso della vita. Per quanto riguarda le arti visive, aggiungerei alla ricca galleria di artisti e opere brillantemente elencati la “Fontana della vita” che rappresenta il centro concettuale dello strabiliante trittico del Giardino delle delizie di Hieronimus Bosch, geniale e fantasiosissimo pittore vissuto nelle Fiandre nella seconda metà del Quattrocento.
Fausta Speranza
Il senso della sete
L’acqua tra geopolitica, diritti, arte e spiritualità
Infinito edizioni, pp. 256, 17 euro
di Galliano Maria Speri
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